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QUEL primo sabato d’inizio marzo, con la neve che cominciava a sciogliersi, il ragazzino arrivò a bordo di un minivan grigio sotto il comando di un capo scout ben piantato e in divisa inamidata. L’acqua gocciolava dalle grondaie di Ona, dalla ringhiera del porticato, dalle mangiatoie per gli uccelli e dagli specchietti laterali del minivan. Il capo scout separò il ragazzino dal resto dei compagni – tutti più grossi e tonti di lui – e salì i gradini a passo di marcia (nel senso letterale del termine). Dopo essersi annunciato come Ted Ledbetter, le presentò il ragazzino smilzo dai capelli rasati, la cui manifesta compostezza la turbò all’istante.

E nella mente cosciente le piovve sonora la prima parola, inaspettata come un solitario chicco di grandine: brolis. Ona batté con forza le palpebre, come se la parola l’avesse colpita in testa per davvero.

Fratello.

Aveva undici anni, il ragazzino, anche se era così basso da dimostrarne otto. Sopra la divisa indossava un ridicolo giubbotto di pelle chiazzato d’acqua, da cui il collo svettava nudo e magrissimo, di un bianco innaturale. Sembrava pronto a lasciarsi ferire. Il capo scout si congedò da lui con una serie di istruzioni ben formulate e promise di recuperarlo di lì a due ore, espresse in tempo militare.

Dopo che il minivan si fu allontanato lentamente, il ragazzino se ne restò lì senza fiatare, in attesa, esile e innocente come una cavalletta. «Lieto di conoscerla», esordì.

«Mmh», fece Ona.

«Quanti anni ha?» proseguì lui, con lo sguardo fisso.

E piovve la seconda parola: šimtas.

Il ragazzino batté una volta le palpebre. «Come?»

«Cento.»

«Che lingua è?»

«Non lo so», rispose lei perplessa. «Lituano, suppongo. Di anni ne ho centoquattro, non cento. Cento e quattro

E se ne rimasero lì insieme, in quel mondo gocciolante, a squadrarsi a vicenda, il ragazzino con l’aria sbigottita di fronte al peso di un secolo e più, e Ona che si domandava come diamine fosse riuscita a riesumare due parole neanche lontanamente imparentate in una lingua che nemmeno ricordava di aver mai parlato.

«Dai, entra», lo invitò, e lui obbedì, fermandosi educatamente a far scolare le scarpe sullo stuoino.

«Ho diversi compiti per te», continuò Ona, «ma se non riesci a farli, o non vuoi, gradirei saperlo subito.»

«Sì, che ci riesco.»

«Non ti ho ancora detto che cosa devi fare.»

«Ci riesco comunque.» Aveva una dizione squisita, anche se intervallata da pause appena percettibili nei punti sbagliati, come se fosse straniero o a corto di fiato.

Si dimostrò un buon lavoratore, disponibile, costante e sufficientemente meticoloso. Il sabato era il giorno della raccolta dell’immondizia. Così trasportò il grosso bidone dal marciapiedi al capanno degli attrezzi, cosa che Ona si aspettava facesse, e poi sostituì la corda elastica sul coperchio del bidone, cosa che invece non si aspettava. Staccò tutte le mangiatoie per gli uccelli, le riempì fino all’orlo e poi le appese di nuovo al loro posto, con la scrupolosità di un vetrinista. Liberò i lati del vialetto da informi residui di neve. Ma quando lei si decise a offrirgli un biscotto, il capo scout si presentò a riprenderlo.

Alla notizia che Ona accettava di farsi aiutare dal ragazzino, il signor Ledbetter apparve sollevato: gli altri scout, lei li aveva liquidati subito il primo giorno.

Il secondo sabato – dopo che ebbe pulito e riempito le mangiatoie replicando i gesti della settimana precedente con una tale precisione da far sospettare a Ona che si fosse scritto le istruzioni sulla mano –, il ragazzino confidò alla donna la propria passione per i record mondiali. Erano seduti a tavola a mangiare biscotti a forma di animali, cosa che lui faceva in sequenza: coda, zampe, testa, corpo. Ogni volta nello stesso ordine.

«Ma non i record sportivi», precisò. «Record del tipo… Uno: tempo massimo di roteazione di una moneta. Due: la più grande collezione di matite tascabili. Tre: il pelo d’orecchio più lungo del mondo.» Riprese fiato e continuò: «Quattro…»

«Record da Guinness dei primati», intervenne lei. La voce del ragazzino le arrivava forte e chiara, e la cosa le faceva un gran piacere.

«Ne ha sentito parlare!» esclamò. Sembrava al colmo della gioia. «Entrare nel Guinness è più difficile di quanto si creda.»

Di solito gli scout la annoiavano, con le loro statistiche del Game Boy, i risultati delle partite di calcio e i modi indolenti e sbrigativi. Questo, invece, le trasmetteva la sensazione di vivere letteralmente una seconda infanzia: le sembrava di conversare con un bambino che avrebbe potuto conoscere all’epoca in cui anche lei aveva undici anni. Le venne naturale immaginarlo da McGovern’s, piazzato davanti al distributore di bibite gassate in marmo bianco, a sorseggiare una bevanda al cioccolato. Se lo figurò tra i ragazzini in camicia bianca che giocavano a stickball in Wald Street, mentre toccava la portiera dell’automobile nera di Joe Preble che usavano come base. Aveva un che di vagamente anomalo, che lo faceva somigliare a un visitatore giunto da un altro tempo e da un altro luogo.

Quel ragazzino le ricordò che una volta le persone la affascinavano. E che aveva vissuto più di una vita.

Prese dalla tasca una moneta da un quarto di dollaro e, dopo qualche maldestro tentativo, riuscì a farla roteare. «Cinque secondi e più», annunciò, quando la moneta ondeggiò e si arrese alla forza di gravità. «Quant’è il record?»

«Diciannove secondi virgola trentasette», rispose il ragazzino. «Lo detiene il signor Scott Day, del Regno Unito. Questo tavolo non è abbastanza liscio.»

Lo sguardo di Ona cadde sulla fascia che il ragazzino portava sul petto, ornata di distintivi scintillanti. «E tu detieni il record dei distintivi di merito?»

«Il signor John Stanford, Stati Uniti d’America, ne ha conquistati centoquarantadue», rispose lui, e guardò fuori della finestra. «C’è un distintivo per lo studio degli uccelli.»

«Sul serio?» la signorina Vitkus puntò il dito. «Quello è un cardellino.» Era stata Louise a darle i primi rudimenti in materia, quando la vita riservava ancora le sue piccole sorprese. Per una decina d’anni aveva continuato a stilare un elenco dei volatili che avvistava, ma ora non ricordava più l’ultima volta in cui ne aveva davvero osservato uno. Dava loro da mangiare perché le facevano pena.

«Qualche uccello comune lo conosco già», dichiarò il ragazzino. «Uno: cornacchia. Due: pettirosso. Tre: cardinale. Quattro: cincia. Ma, uno: per ottenere il distintivo ne devi conoscere venti. Due: devi costruire una casetta per gli uccelli. E tre: devi nominarne cinque ascoltandone soltanto il canto.» Le sue labbra delicate si schiusero leggermente. «E io non sono bravo in musica.»

«Sul serio? Mio marito Howard era un cantautore fallito e frustrato, perciò anch’io ho un rapporto un po’ sofferto con la musica», replicò Ona tamburellandosi l’orecchio. «Il canto degli uccelli è un’altra cosa, ma io non avverto più i trilli acuti. L’ultima volta che ho sentito una sterpazzola avevo settantadue anni. A volte non percepisco neanche il cinguettio dei pettirossi, come se ascoltassi una radio difettosa.»

«Che peccato», replicò lui. E il suo corpo si bloccò trasmettendo tutta la sua empatia, tanto che Ona cominciò a provare un profondo e sincero rammarico per non aver più udito quegli uccelli le cui note flautate, a quanto pareva, si erano perdute per sempre in qualche crepitante condotto del suo orecchio interno. Dopo aver accudito Louise durante le fasi finali del cancro, non era più riuscita a ricollocare i suoi passatempi precedenti, e si era convinta che fossero letteralmente fuggiti insieme a Louise nel Grande Insondabile Altrove. Non diventare una vecchia bisbetica, si era raccomandata lei in quegli ultimi giorni. È troppo scontato. Invece era proprio quello che Ona era diventata: una vecchia bisbetica.

«Il signor John Reznikoff, degli Stati Uniti d’America, è entrato nel Guinness dei primati per la sua collezione di capelli», disse il ragazzino. «Uno: capelli di Abramo Lincoln. Due: capelli di Marilyn Monroe. Tre: capelli di Albert Einstein. Quattro…»

Era un elenco lunghissimo e Ona aspettò che finisse. Il ragazzino non le staccava mai gli occhi di dosso. Aveva memorizzato un ragguardevole numero di primati, tutti del genere collezione di capelli o roteazione di monete. Anche lui collezionava oggetti, ma senza successo, le confessò.

Le collezioni serie, a quanto pareva, richiedevano una quantità di denaro e di opportunità di cui uno scolaro di quinta elementare non disponeva facilmente. «Il signor John Reznikoff, i suoi capelli, se li compra», la informò. «Non è mica andato a profanare la tomba di Lincoln.»

«Ah, ecco. Me lo chiedevo.»

«Il signor Ashrita Furman, Stati Uniti d’America, ha camminato per oltre centotrenta chilometri con una bottiglia di latte in equilibrio sulla testa.»

«Tutti in una volta?» domandò Ona sbalordita.

«Il signor Ashrita Furman detiene anche il record per il maggior numero di record», aggiunse il ragazzino, e fece una breve pausa prima di proseguire. «Uno: io dove andrei a pescarmela, una bottiglia di latte? Due: come farei a misurare centotrenta chilometri? Tre: mia madre non mi lascerebbe mai percorrere centotrenta chilometri con una bottiglia sulla testa, neppure se mi andasse di farlo.» Un’altra pausa. «E mi andrebbe, infatti.»

Anche se non le confidò molto altro di sé, alla signorina Vitkus parve di capire che la scuola lo metteva a dura prova e che trascorreva ogni giorno nascosto nell’ultima fila per paura di essere interpellato. Forse se ne stava in disparte anche a ricreazione. Lei aveva avuto figli molto socievoli, specialmente Frankie, tanto solare e amato da tutti. Quel ragazzino, con la sua voce pacata e i modi composti, sembrava un suo consanguineo molto più di loro.

«Io conoscevo un uomo che faceva il giocoliere con i topi», gli raccontò.

Il ragazzino fece due occhi così e lei rispolverò la sua avventura con i giostrai.

«È scappata di casa?» si stupì lui. E per lei fu uno spasso sentirsi così rivalutata. «Ha abbandonato sua madre?»

«Erano tempi strani, c’era la guerra nell’aria. Quell’anno accorciai l’orlo di ogni gonna che avevo: a un tratto le ragazze di Kimball mettevano tutte in mostra i polpacci.» Ormai catturata dagli occhi grigi e attenti del bambino, la donna continuò: «Il signor Holmes era il proprietario dell’intera baracca, un ciarlatano come pochi. Le sue attrazioni non erano un granché rispetto alle classiche fiere dei giostrai, somigliavano piuttosto a quelle dei piccoli luna-park che si trovano oggi nei centri commerciali».

«Ah», commentò il ragazzino, «una volta ci sono stato.»

«E com’era?»

«Le giostre andavano velocissime.»

«Be’, noi avevamo un vecchio carosello che il signor Holmes aveva vinto a poker, nientepopodimeno che un Armitage Herschell trasportabile a due file di posti, che si poteva montare e smontare. Ne hai mai visto uno?»

«No», ammise lui sgranando gli occhi. «Però mi piacerebbe tanto.»

A quel punto Ona tirò fuori le carte e iniziò a mescolarle. «Tiravamo a campare con il carosello, qualche numero di infima qualità e un pappagallo che cantava Some of These Days nella versione di Sophie Tucker. L’hai mai sentita?»

«Posso ascoltarla ora?»

«Il mio Victrola non funziona più da un pezzo», rispose lei. «Erano sette sere di fila che andavo alla fiera. E la settima, mi innamorai proprio davanti a quel carosello.»

E come avrebbe potuto essere altrimenti? La serata afosa, l’odore delle noccioline e del fango che seccava, il carosello a vapore con i cavalli dipinti, in posa per l’eternità in assetto di fuga. «Riesco ancora a vederli, i bianchi occhi selvaggi di quei cavalli», raccontò. «I colori neanche te li immagini, poi; niente a che vedere con le scialberie di oggigiorno. Scegli una carta.»

Il ragazzino sembrò sorpreso. «Adesso?»

«Quando sei pronto. Nel frattempo, ti ammalierò.» Aveva imparato il verbo ammaliare da Maud-Lucy Stokes, che quand’era bambina era stata la sua precettrice e con la sua grammatica impeccabile le aveva ispirato un’idea inizialmente approssimativa, e in ultimo deludente, dell’America come di una terra dove regnasse il rigore. Ona aveva amato l’inglese fin dall’inizio e gli aveva riservato una minuziosa attenzione, cogliendo nel linguaggio i rapporti di causa ed effetto: le derive sintattiche dei suoi genitori, gli intercalari osceni del lattoniere, le formulazioni perfette di Maud-Lucy. Il bello stile era capace di muovere gli ascoltatori alla pietà, alla devozione, all’acquisto di una casseruola di cui non avevano bisogno. Maud-Lucy le aveva insegnato a comporre ogni frase con un intento, e alla fine lei aveva adottato un ibrido che, coniugando il registro alto a quello basso, ben si addiceva alla sua ambivalenza nei confronti dell’umanità.

«Ero lì», proseguì rivolta al ragazzino, «a far capannello con altre ragazze del quartiere, e guardavo quei bei cavalli che giravano e giravano quando Viktor, l’apprendista del tatuatore, mi si avvicinò con nonchalance, come se ci fossimo già incontrati in sogno. Viktor, il bel russo biondo.»

Colui che le aveva rubato prima il cuore, poi la virtù e alla fine i soldi. «Non avevo nemmeno mai preso per mano un giovanotto. Non ero quel tipo di ragazza.»

«E che tipo di ragazza era?»

«Oh, be’, innocente. Come te. Insomma, perché mai dovrei raccontarti tutte queste cose?»

«Non lo so.» Lo sguardo del ragazzino si posò su di lei come un vivido spicchio di sole. E per un attimo la fece sentire denudata. Era stato il fatto di nominare Viktor ad averle trasmesso quella sensazione. Viktor, che adesso avrebbe avuto centonove anni. E che, morto e sepolto, continuava a corteggiarla dalla tomba.

Alla fine, il ragazzino scelse una carta, la esaminò per trenta secondi buoni e gliela restituì. Lei finse di rimetterla nel mazzo e poi «Voilà!» esclamò, e con una rapida mossa la poggiò sul tavolo scoperta.

Il ragazzino ci rimase di sasso.

«Perdindirindina, non hai mai visto un trucco con le carte?»

«Fatto bene, no. In classe mia c’è un bambino che ne fa di pessimi», rispose lui accigliandosi. «Eppure sono tutti convinti che Troy Packard sia un fenomeno.»

Il bullo della classe, concluse Ona. «Bene, dunque», disse, aprendo il mazzo a ventaglio. «Guarda un po’ qui.»

E si apprestò a mostrargli il semplice trucco della carta rovesciata, come aveva fatto con un’intera generazione di studenti irrequieti quando lavorava alla Lester Academy in veste di segretaria del preside. Ai più giovani, piccoli e spaventati, aveva insegnato lo stesso trucco che stava per svelare a lui.

Quel ragazzino aveva delle dita notevoli, era volenteroso e avido di conoscenza, ma non era minimamente capace di ingannare lo spettatore. «Tu hai zero malizia», dichiarò Ona. «Non provare questo trucco a scuola.»

«Il record mondiale dei castelli di carte è di centotrentuno piani.»

«Potresti provare a battere quello. Stabilire un nuovo record.»

«Ci ho già provato.»

«E quanti piani hai costruito?»

«Undici.»

«Uno all’anno, insomma.»

«Signorina Vitkus, lei ha delle mani bellissime», replicò lui soddisfatto.

* * *

Il terzo sabato, per ricambiare il primo complimento che avesse ricevuto da decenni, svelò al ragazzino il suo intero arsenale di trucchi con le carte, dal primo all’ultimo, e gratis. Ma lui si dimostrò troppo sprovveduto per comprendere la differenza tra l’ovvia sequenzialità di un gioco come quello dei tre re e la macchinosa artificiosità dei trucchi più complessi. Anche se la tattica diversiva del raccontargli storie durante i passaggi più illusionistici si rivelò del tutto inutile, Ona rispose comunque a tutte le sue domande. Non le capitava da tanto tempo, se mai le era capitato, che un altro essere umano tradisse un interesse così profondo per le comuni vicende della sua vita.

Il ragazzino aveva un modo insolito di ascoltare: non muoveva niente. Né occhi, né spalle, né gambe, né piedi. Solo le dita, in un rituale controllato ma percepibile, simile a un conteggio. Dal pugno socchiuso si aprivano prima un dito, poi un secondo, un terzo, un quarto e infine il pollice; e la stessa cosa si ripeteva con l’altra mano: uno, due, tre, quattro, pollice. Poi le richiudeva a pugno e le dita spuntavano di nuovo, prevedibili e sistematiche. Come se stesse suddividendo i racconti di Ona nelle voci di un elenco, una forma di prestidigitazione che trasformava semplici informazioni in incantesimi.

  1. La signorina Vitkus è venuta in America quando era una bambina di quattro anni.
  2. Con i suoi genitori, Jurgis e Aldona.
  3. Dalla nazione della Lituania.
  4. Che era occupata dai russi.
  5. Che cercarono di prendere tutti gli uomini lituani per farli entrare nell’esercito.
  6. Allora Jurgis e Aldona si trasferirono a Kimball, nel Maine, dove c’erano sette fabbriche.
  7. Jurgis fu assunto come addetto alla cottura della cellulosa e Aldona trovò impiego come cenciaiola.
  8. E decisero che la loro figlioletta sarebbe stata americana.
  9. Così non le parlarono in lituano.
  10. Ma neanche in inglese, perché non ci riuscivano.

«Si sentiva sola?» le domandò il ragazzino. «Se la mia mamma non mi parlasse, chi altri mi rivolgerebbe la parola?» Chiuse le dita e attese di iniziare il nuovo conteggio. Ona si sentì obbligata ad accontentarlo.

«Ma i miei genitori mi parlavano», continuò.

Uno.

«Solo che avevano un vocabolario limitato.»

Due.

Da quegli anni nebulosi le giunse il suono del suo nome: Ona, che cosa hai, Ona? Ona, sorridi bene, Ona. Ona, vestito carino, Ona. Ona: l’unica parola che si concedevano nella loro lingua d’origine, un magro conforto, una bolla di memoria. E davanti agli occhi le fluttuò il lontano ricordo di lei che, schiacciata contro la porta della camera dei genitori, in preda alla paura e al desiderio struggente, li ascoltava mormorare nella loro madrelingua: pushka-pushka-pushka, misteriosi sussurri simili al fruscio degli alberi.

Fuori da quella stanza si parlava solo inglese, inglese, inglese. Aldona lavorava tutto il giorno nella fabbrica di sacchi, Jurgis tutta la notte in quella di cellulosa, e a ogni cambio di turno tutti e due traghettavano da una parte all’altra del ponte pedonale nuove parole ed espressioni. Quando la bambina compì sei anni, i Vitkus costruirono uno stabile diviso in appartamenti, una palazzina in legno a tre piani con le verande porticate. Su un terreno di cinquecento metri quadrati, all’angolo tra Wald Street e Chandler Street, lo stabile dei Vitkus venne eretto tavola su tavola, a testimoniare la loro lungimiranza e il loro ardire. Nel piccolo appezzamento sul retro dell’edificio ricrearono un fazzoletto della loro amata Lietuva, dando vita a un orto progettato con una tale perizia che le verdure vi crescevano rigogliose per tre stagioni l’anno.

«Quali verdure?» le domandò il ragazzino.

«Mi ricordo tantissimi cavoli.»

«Cavoli!» esclamò lui. A quanto pareva, non ci voleva niente a sbalordirlo.

  1. Jurgis e Aldona misero da parte del denaro per costruire una casa a Kimball.
  2. Che aveva tre piani.
  3. E veniva chiamata stabile.
  4. Sul retro dello stabile dei Vitkus crescevano i cavoli.
  5. Anche le pastinache.
  6. La piccola Ona Vitkus e i suoi genitori vivevano al piano terra.
  7. Al primo piano abitavano altre persone.
  8. E il secondo era occupato da una giovane signora di Granyard, Vermont.
  9. La signora si chiamava Maud-Lucy Stokes.
  10. Insegnava pianoforte e impartiva lezioni private d’inglese ai figli degli immigrati.

Parlare buono, disse Jurgis quando portò la figlioletta al secondo piano, da Maud-Lucy. L’intelligentissima, sofisticata Maud-Lucy Stokes. Quello che Jurgis intendeva dire, in realtà, era: Le insegni qualcosa! Noi non spiccichiamo parola!

«Anche il mio inglese era atroce», ammise Ona.

«La sua grammatica è ottima», ribatté il ragazzino.

«A quei tempi non lo era. Allora il mio inglese era un intruglio di slang americano insaporito con quel pizzico di italiano e di francese che coglievo per strada. I miei genitori sapevano che non sarei arrivata da nessuna parte con quel mio guazzabuglio di lingue.»

«Ma i suoi genitori l’inglese non lo parlavano. Come facevano a sapere che anche il suo era pessimo?»

«Erano stranieri, mica sordi», rispose lei. «Maud-Lucy mi insegnò senza farsi pagare, semplicemente perché le andava di farlo. Mi dava lezione tutti i giorni.»

«Più la scuola?» le chiese il ragazzino indietreggiando inorridito, dimenticandosi dell’elenco.

«Al posto della scuola. La scuola puzzava di ragazzini sporchi e di fumo di legna. E la maestra disprezzava le femmine.» Invece di andare a scuola, ogni giorno la piccola Vitkus saliva al secondo piano per studiare da Maud-Lucy. Quella donna così imponente e padrona di sé, che si tagliava i capelli sfacciatamente corti, disdegnava la forma passiva e aveva un pianoforte, un gatto e una biblioteca di volumi dalla rilegatura scura e robusta. Maud-Lucy, le cui stanze profumavano d’inchiostro e di lavanda. Che affermava di non aver bisogno di un uomo. Che desiderava dei figli e accolse Ona come un surrogato. Dispensandole aggettivi come fossero pastiglie di cioccolato.

«Bontà mia», esclamò lei guardandosi le dita. «Ora mi metto anch’io a fare come te.»

Il ragazzino nascose immediatamente le mani e un attimo dopo le domandò: «Le mancavano sua madre e suo padre? Quando è scappata con il circo?».

«Non era un circo», puntualizzò lei. «Non credere che stessi lì a pavoneggiarmi in groppa a un elefante.»

«No, no.»

«Mi stai immaginando in groppa a un elefante, vero?»

Al che il ragazzino scoppiò a ridere, un singulto di piacere. Fino a quel momento aveva mostrato scarsa attitudine all’umorismo, manifestando soltanto gradi diversi di eccitazione. «Lasciarli è stato più facile di quanto tu creda», gli spiegò. «Ormai mi sentivo come fossi figlia di Maud-Lucy. Ma quell’estate lei doveva tornare a Granyard, nel Vermont, ad accudire sua zia. All’epoca ero convinta che i miei genitori stessero complottando un ritorno in madrepatria, così non mi fu tanto difficile scappare. Avevo quattordici anni, ero abbastanza grande. È di Maud-Lucy che ho sentito la mancanza.»

Il ragazzino tacque per qualche istante. «C’è una persona a cui secondo me piace la mia mamma. È un segreto», le confidò, per poi distogliere lo sguardo. «Un giorno potrebbe diventare il mio papà.»

«Ah, be’, ma quella era un’altra cosa.»

«A volte ho l’impressione che quest’altro uomo sia davvero il mio papà. Proprio come lei aveva la sensazione che Maud-Lucy fosse realmente sua madre.»

«Ho capito cosa intendi.»

«Il mio vero papà è bravissimo in musica», continuò il ragazzino, e puntò il dito fuori della finestra. «Quello che cos’è?»

«Un ciuffolotto messicano», rispose lei. Il ragazzino si precipitò al suo zaino, ne tirò fuori un taccuino immacolato e aggiunse «ciuffolotto» alla sua lista. «E così fanno otto», annunciò. «Ne mancano dodici.» Poi posò lo sguardo sui cespugli di spirea che stavano già germogliando, con la primavera ormai nell’aria.

«Mi manca il coro mattutino degli uccelli», confessò Ona. «I loro trilli sono tutti troppo acuti.»

«Io me ne devo ricordare cinque, di canti.»

«Be’, qui non posso esserti d’aiuto.»

«Se cantassero su note più basse, riuscirebbe a sentirli.»

«Di questo dovrai discutere con Dio.»

Il ragazzino ci rifletté un istante. «Sua madre e suo padre sono ancora vivi?»

«Perdindirindina! Fai un po’ il conto.»

Lui si zittì, intento a contare. «Che ne è stato di loro?»

Erano poche le creature in Terra ad averle rivolto una domanda del genere. «Il loro inglese è migliorato», raccontò la donna. «Hanno smesso di sgobbare in fabbrica e hanno aperto una bottega di generi alimentari. Hanno lavorato fino alla pensione, hanno vissuto un altro po’ e poi sono morti. Proprio come succede a tutti quanti.»

«Non a tutti», puntualizzò lui. «Si guardi un po’.» I suoi calcoli assunsero un’improvvisa chiarezza che gli infiammò il corpo intero. «Ehi», esclamò rizzandosi in piedi. «Ho appena pensato a una cosa», continuò con le ciglia tremolanti. Con quelle sue mani affusolate si afferrò la testa come a volerla trattenere sulle spalle. «E se… signorina Vitkus, se lei fosse… la persona più vecchia del mondo

A Ona vennero in mente due o tre modi di prendere quella notizia. «Oh cielo, spero di no», commentò.

Il ragazzino cominciò a saltellare per la cucina, sempre con la testa fra le mani, sforzandosi di tenere a freno la sua incontenibile gioia. «Ehi, signorina Vitkus, lei potrebbe essere nel Guinness dei primati!»

«E ci guadagnerei un premio in denaro?»

«Uno: si guadagnerebbe un certificato», rispose lui a voce spiegata. «Due: si guadagnerebbe il rispetto. E tre: l’immortalità

«Be’, suppongo che una cosa del genere non abbia prezzo.»

A quel punto si presentò alla porta quello scocciatore del capo scout, e ancora una volta arrivò per il ragazzino il momento di tornare a casa.