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IL quinto sabato il ragazzino arrivò con una brutta notizia: Ona era una poppante.

Aveva rivali a tre cifre ovunque, dal Saskatchewan alla Siberia. Questa svista – l’aver rintracciato i detentori del titolo di «uomo più longevo» e «donna più longeva» trascurando coloro che li avrebbero rimpiazzati – fece montare al ragazzino un’intensa frustrazione.

Aprì la cerniera dello zaino al rallentatore. Pareva sempre nuovo di zecca, di un rosso lucente come quello delle ciliegie del supermercato. Lesse da un altro foglio stampato, l’espressione indurita in netto contrasto con la delicatezza dei lineamenti. «Dopo la signora Ramona Trinidad Iglesias-Jordan, territorio statunitense di Portorico, la seconda persona più longeva del mondo è di nuovo una signora, della Romania, di anni centotredici pure lei. La terza persona più longeva del mondo è sempre una signora, del Giappone, di anni centotredici pure lei. La quarta persona più longeva del mondo è il signor Fred Hale, che conosciamo già.»

Finalmente le porse il foglio. «Se la signora Ramona Trinidad Iglesias-Jordan, la signora della Romania, la signora del Giappone e il signor Fred Hale morissero, allora la persona più longeva del mondo sarebbe un’altra donna, la signora Flossie Page, di anni centoundici. Nazione: Stati Uniti d’America.»

«Mmh.» Ona sfogliò la lista dei candidati: ottantadue sfidanti ufficiali, in prevalenza donne. La signora Giappone e la signora Romania avevano dei nomi impronunciabili, il primo fluttuante di vocali, l’altro fortificato dalle consonanti. L’elenco era stato redatto da un ente di ricerca incaricato di individuare gli anziani più longevi del mondo. Tutti rivali di età smodata, il più giovane di ben otto anni più vecchio di lei, il più attempato lontano quasi un decennio dal primato assoluto.

Ona si figurò Madame Calment che se la rideva sotto i baffi seduta sulla sua celestiale sedia a dondolo. «È scritto troppo piccolo», commentò alzandosi. «Mi ci vogliono gli occhiali. Vieni di là con me.»

Il ragazzino si bloccò sulla porta del salotto e Ona si rese conto di non avergli mai fatto varcare la soglia della cucina. Lui le posò i fogli sulle ginocchia e poi si sistemò sul bracciolo di una delle poltrone gemelle che la donna aveva ricevuto con la casa.

«Guarda tu quanti dinosauri abbiamo qua», commentò lei. «Che diavolo ci mettono nella pappa d’avena?»

«Non potrà concorrere finché non diventerà un’ultracentenaria.» Il ragazzino snocciolò la parola come se si fosse esercitato a pronunciarla. «Bisogna superare i centodieci anni per esserlo. Secondo le stime, sono più di quattrocento le persone che li superano. È difficile rintracciarle tutte.» Detto questo, saltò giù dal bracciolo e scorse con il dito tremante il lato del foglio. «Vede, accanto ai nomi c’è la data di nascita. L’anno e il giorno.»

Ona notò una donna di Oslo, una tailandese e diverse altre sudamericane, un sacco di Annabelle, di Elvire e di Lavinie. C’erano anche degli uomini, quasi tutti giapponesi. «Chi si occupa di scovare questa gente?»

«I ricercatori. Di gerontologia.»

Lei lo fissò con gli occhi stretti. «Tua madre è maestra?»

«È una bibliotecaria.»

«Parli come un bibliotecario, infatti.»

«Non ho amici.»

«Nemmeno io, in realtà. Bevo il tè con le signore della chiesa, ma sentirle parlare dei loro acciacchi è sfinente. Tu sei un ragazzino simpatico. Perché non hai amici?»

«Se non fai sport non ti si fila nessuno. I trucchi con le carte non hanno funzionato, a proposito.»

«Io ti avevo avvisato, però.»

«Uno: odio lo sport. Due: odio le compagnie di amici. Tre: odio il pranzo.»

«Te l’avevo detto di non provare quei trucchi a scuola.»

«Preferisco attività come questa», continuò lui. «Adoro fare cose come questa.» Non era sicura di aver capito che cosa intendesse. Far visita alle vecchiette? Fare ricerche su Internet? Convincere le persone a inseguire primati mondiali per cose che non richiedevano un briciolo di talento?

«E di quelli tra i cento e i centodieci anni non tiene il conto nessuno?» gli chiese.

«Ce ne sono troppi. Quasi un terzo di un milione, considerando l’intera popolazione mondiale. E io l’ho fatto.»

«E dove diamine si nascondono?»

«Non lo so», replicò lui scoraggiato.

«E io che pensavo di essere a due o tre polmoniti dal primato mondiale. Ci siamo infervorati per niente.»

Il ragazzino scosse tristemente la testa.

«Pazienza», proseguì lei. «Aspetteremo che gli altri sgomberino il campo.»

Tirò fuori le carte per alleviare la delusione di entrambi e nel giro di qualche istante lo mise ko con un trucchetto che un border collie dall’intelligenza subnormale avrebbe capito in mezzo minuto. Il ragazzino non era stupido – tutt’altro –, era solo troppo condiscendente.

«Che ne è stato di Viktor, il bel russo biondo?» le domandò.

Ona arrossì. Da quando aveva visto l’orrenda fotografia della signora francese, non era più riuscita a levarsela dalla testa. Aveva anche lei quell’aspetto, quello di un fico marcescente? Era troppo chiedere al ragazzino di dimenticare quella sua pelle disseminata di crateri e cadente al punto che le ossa le si intravedevano come la gruccia sotto ai vestiti? Era stata bella, un tempo. Sarebbe stato capace, quel ragazzino del ventunesimo secolo, di cadere in trance fino al punto di ricostruire il suo corpo di ragazza, le sue caviglie sottili, le sue spalle lucenti, i capelli color rovere che acconciava ondulati grazie a un impacco di chiare d’uovo montate a neve? Sarebbe riuscito a vedere oltre quella blusa e quei pantaloni sbiaditi per figurarsi il bianco chemisier di popelin acquistato da McKay’s Fancy Goods nel giugno del 1916? Lei era convinta di sì.

«Non ti lasci sfuggire niente, te ne sei mai accorto?» gli disse.

«Ho i miei difetti», ribatté lui mogio, gettando un’occhiata alle carte. «Che ne è stato di Viktor, il bel russo biondo?»

«Non c’è storia più vecchia di quella», rispose lei. «Ero una tale oca.»

Lui attese. Con la pazienza serafica di un gatto. Quello non sembrava certo un difetto.

«Kudikis», fece Ona, portando subito una mano alla bocca.

«Che vuol dire kudikis

Lo fissò con attenzione. Forse era stato per la divisa, che poteva benissimo avere una cinquantina d’anni, o per i suoi modi antiquati, o magari per le iridi grigio mare, evocatrici di un’età e di una saggezza che non poteva possedere. «Bambino», gli confessò. E le si strinse lo stomaco. «Non l’ho mai detto ad anima viva.»

Le dita del ragazzino presero a palpitare. «Lei ha avuto un bambino? Al circo?»

Ona gli strinse delicatamente le mani e gli chiuse le dita. Lui nascose le mani sotto di sé. E attese ancora.

«Tornai a casa dalla fiera», proseguì la donna abbassando la voce. «Disonorata.»

Il ragazzino attese un altro po’. Ona ritrovò la calma. La cucina si zittì. Così come il giardino. Si zittirono l’aria, la luce, la polvere sui davanzali, i tanti nomi dell’elenco.

«Tu sai come nascono i bambini?» domandò lei.

«I bambini nascono da uno spermatozoo e da un ovulo», rispose lui senza scomporsi.

«Be’», continuò lei a fatica, «quel bambino venne al mondo e io lo diedi via.»

Le dita del ragazzino ripresero a muoversi. «E adesso dov’è?»

«È un dottore.»

Uno.

«Che tipo di dottore?»

«Un chirurgo.»

Due.

«Un chirurgo di cosa?»

«Un cardiochirurgo, se ricordo bene.»

Tre.

«Come si chiama?»

«Laurentas.»

Quattro.

«Laurentas come?»

«Laurentas Stokes.»

«Come la sua precettrice. Maud-Lucy Stokes era la sua tutrice d’infanzia, la signora che amava più della sua stessa madre.»

Ona gli picchiettò la fronte innocente. «Non ti serve un registratore. Hai una memoria da elefante, tu.»

«Adesso il suo bambino ha ottantanove anni.» Le dita smisero di muoversi. Doveva aver esaurito le voci del suo elenco.

«Ottantanove?» ripeté Ona, sconvolta. Certo, il ragazzino aveva ragione. Se si escludeva il giorno della sua nascita, Ona aveva incontrato Laurentas solo una volta, nel 1963, e ne aveva congelato il ricordo all’immagine di un uomo di mezza età robusto e piacente, con il colorito di Viktor. Per un certo periodo erano rimasti in contatto – lettere significativamente brevi che tutti e due firmavano per esteso –, finché i loro scambi non si erano ridotti a sporadici biglietti d’auguri natalizi.

Si alzò, consapevole di avere gli occhi del ragazzino fissi su di sé. Tirò fuori un pacchetto dalla credenza. «Questo è l’ultimo che ho ricevuto.» Il timbro risaliva a cinque anni prima; quello del biglietto precedente, a otto. «Non ci abbiamo mai preso veramente la mano, a scambiarci le lettere.»

Il ragazzino esaminò l’indirizzo del mittente: Bridle Path Lane. Leggendo quel «Bridle» pensò alle briglie. «Suo figlio ha un cavallo?»

«Abita in un condominio, perdindirindina», esclamò lei. «Da una decina d’anni.» Finalmente in pensione, l’appartamento nuovo è molto bello, buon anno. Cari saluti, Laurentas Stokes. Di colpo si sentì svilita. «Adesso non avrai più un’alta opinione di me.»

Il ragazzino la fissò, allibito. «Perché?»

«Ti ho rivelato il mio segreto.»

«Quale segreto?»

Lei agitò la busta.

«Sul suo bambino?»

«Sì!»

«Ah, è un segreto?»

Erano decenni che Ona non si sentiva tanto impotente contro la propria stessa roccaforte. «Certo che è un segreto. Non l’ha mai saputo neanche mio marito.» Howard, così poco ispirato in camera da letto da non aver mai scoperto la sua cicatrice. «E ti faccio presente che non immaginavo proprio di rivelare il mio segreto nell’inverno della mia esistenza.»

Ora che l’aveva fatto, però, nel suo corpo si era aperto un vuoto, uno spazio che chiedeva di essere colmato.

«Perché ha chiamato suo figlio Laurentas Stokes?»

«Fu Maud-Lucy a dargli il nome. Io volevo chiamarlo Joseph, come Giuseppe, il marito di Maria, la Vergine ignara. Maud-Lucy lo riportò a Granyard per crescerlo dai suoi.»

«E lei lo sposò, quel Viktor?» chiese il ragazzino.

«Difficile imbrigliare uno scavezzacollo.» Ona lisciò la busta. «Dopo che Maud-Lucy ebbe spedito Laurentas alla volta della sua splendida vita nel paese delle mele, io lavorai per due anni come cenciaiola nella cartiera finché mia madre non mi mandò a Portland, a seguire un corso per segretaria alla Brooks School for Secretarial Studies; dopodiché, sposai Howard Stanhope, un anziano vedovo di trentanove anni.»

Il ragazzino tenne il suo sguardo garbato fisso su di lei senza dire una parola.

«La vita con Howard è stata per lo più uno squallore», confessò Ona. «E anche questo è un segreto, immagino.»

«Io sono bravo a mantenere i segreti», commentò lui, osservandola con un’attenzione tale che lei cominciò a sentirsi denudata; in senso positivo, però, denudata di ogni fatiscenza, di ogni vergogna.

«Adesso basta», disse poi, tornando agli elenchi del ragazzino. «Guarda quanti nomi. Non credo di essere mai stata in gara per qualcosa. Mai in tutta la mia vita.»

«Può vincere, invece», insistette lui. «Tutto quello che deve fare è non morire.»

«Questo, mio giovane amico, temo sia più facile a dirsi che a farsi.»

Lui piazzò il registratore tra sé e lei. «Questa è la signorina Ona Vitkus», attaccò. «E questa è la storia della sua vita su nastro. Parte seconda.»

«E se al posto di ‘La storia della sua vita’ tu dicessi qualcos’altro? Con un tono un po’ meno solenne, magari?»

E che dovrei dire? articolò lui con le sole labbra. Per quanto pomposi fossero i suoi annunci iniziali, per il resto aveva l’abitudine di mantenere il silenzio, con interventi mimati a fior di labbra o limitandosi a indicare le domande del maestro Linkman (Quali sono i suoi più vividi ricordi della Seconda guerra mondiale? Per lei qual è stata la più grande invenzione del ventesimo secolo?) o a scriverne di nuove sul foglio, formulate in maniera impeccabile, divise in più parti e consegnate con estrema delicatezza, per evitare che il fruscio della carta s’imprimesse sul nastro.

A volte spegneva il registratore per farle una domanda inaspettata – Com’era il suo bambino? – che la lasciava sconcertata e stranamente ben disposta, mentre lui riaccendeva l’apparecchio per immortalare la sua risposta. L’immobile dedizione del ragazzino aveva l’effetto di un siero capace di allentarle la lingua e la memoria. Qualche volta lui dimenticava ciò che era segreto e ciò che non lo era. E, alla fine, la stessa cosa succedeva anche a lei.

Questa è la signorina Ona Vitkus. E questa è la storia della sua vita su nastro. Parte seconda.

E se al posto di «La storia della sua vita» tu dicessi qualcos’altro? Con un tono un po’ meno solenne, magari?

Non lo so. Ricordi. Frammenti. Piccoli… piccoli nonnulla che tutti insieme ammontano a… qualcosa, immagino. Lo spero.

Va bene. Spara.

E che differenza fa, com’era? Un cosino giallastro tutto pelle e ossa. Calvo come un uovo sodo. Poverino, tribolò come un matto a venire al mondo. Io ero una ragazzona e lui pesava meno di una patata novella, eppure ci fu bisogno del taglio per farlo uscire. Sai di che parlo? Conosci il taglio cesareo?

Be’, sei un lettore. Saprai le cose più svariate.

Ah, sei nato prematuro? Be’, Laurentas non era prematuro, era fuori tempo massimo. Grazie a Dio ero giovane. Difficile da credere adesso, ma è così. Giovane e forte.

Sei gentile. Grazie. Dov’ero rimasta? Un complimentuccio e vado in confusione.

Il bambino, già. Fu papà a incidere per tirarlo fuori, un gioco di prestigio da far impallidire tutti quelli che avevo visto alla fiera. Mio padre, con la sua faccia da contadino. Non fosse stato per lui, sarei morta. Mica ti starò spaventando? Spero di no.

Bene.

Ah, certo. Per i posteri, sì: Jurgis Vitkus. Quel buonuomo di mio padre. Versò un mare di lacrime, prima. E anche dopo. Ma durante, no. Durante fu fermo come un palo. Non piagnucolai nemmeno io, se è per quello. Di vergogna ne avevo già portata a casa abbastanza. Così tollerai il dolore per due giorni e mezzo finché mio padre, che per quanto ne sapevo era un coltivatore di ciliegie poi divenuto operaio, tirò fuori una borsa di cuoio dalla camera sua e di mia madre e ne estrasse un bisturi tanto lucente da ferirmi gli occhi. Non seppi che idea farmi della cosa. «Papà», gli strillai, «che vuoi fare, papà!»

Be’… per un attimo pensai che volesse uccidermi nel mio stesso letto per aver amoreggiato con un russo.

Scusa. Per un istante mi sono dimenticata di te.

Dall’inizio? Be’, ero felice di essere tornata a casa, nonostante tutto. Che ero incinta si vedeva, però. Maud-Lucy tornò da Granyard per accudirmi.

Oh, la piantò in asso, la zia malata. Per me. L’inglese di papà era un po’ migliorato, negli anni, ma scriveva ancora da far paura. E la mamma era anche peggio. Degli errori di ortografia da non crederci proprio. La lettera che le inviarono non l’ho mai vista, ma Maud-Lucy capì che stavo per morire di tubercolosi. Immagina che sorpresa trovarmi viva e vegeta e grossa quanto una zucca.

Oh, eccome se lo ero! Ci vuole un po’ di fantasia, certo, ma ero bella robusta e tonda tonda.

E tu di fantasia ne hai da vendere, per immaginarti che una vecchia decrepita come me potesse battere un primato mondiale.

Ecco. Insomma, Maud-Lucy si prese subito carico del mio isolamento, leggendo per me nel suo salottino al secondo piano, mentre io me ne stavo seduta con i piedi sollevati, a mangiare marshmallow dal barattolo. Suonò il piano, cantò per me e mi lesse un lunghissimo romanzo del signor Charles Dickens.

Casa desolata. Impiegò dei giorni a leggerlo tutto. Ero felicissima. È possibile che la mia situazione – quel mio vivere coccolata dalla donna che amavo di più al mondo – mi avesse portato a credere che si potesse riavvolgere il tempo. Sei troppo giovane per capire quanto possa essere allettante un pensiero del genere. Continuavo a dimenticarmi che c’era un bambino in arrivo. Ma quando venne il momento, oh, le sorprese si susseguirono a ruota.

Sorpresa numero uno: Maud-Lucy Stokes non serviva a un fico secco, lì a frignare dall’inizio alla fine e a spellarsi le mani a forza di torcersele. La mamma mi fece bere del whisky da un portauovo di porcellana orlato di foglie d’edera dipinte a mano. Un altro ricordo della madrepatria che non avevo mai visto. «Sha, sha, sha», continuava a ripetere. «Sha, sha, sha.»

Non ne ho idea, ma lo buttai giù per avere un po’ di conforto. Maud-Lucy mi ronzava intorno sfarfallando di qua e di là, lì a gemere e a strillare contro mio padre. In malo modo, aggiungerei persino.

«Per l’amor di Dio, Jurgis, portatela all’ospedale!» Sorpresa numero due (bravo, contale pure): papà e mamma non le diedero retta. «No», dissero. «No-no-no.»

Perché il Kimball era un luogo tetro e pericoloso, ecco perché. La mamma ne aveva sentite, di storie su quell’ospedale, e finivano tutte allo stesso modo: Quando entrato, non uscito più.

Sorpresa numero tre, ah, quella fu la migliore di tutte: papà che brandiva un bisturi. Mi porse qualcosa dalla sua borsa, una polvere che la mamma mescolò al whisky, e io mi calmai. «Ona, tesoro mio», sussurrò. Aveva gli occhi azzurri azzurri e tenerissimi. «Tu non spaventa, non spaventa», ripeté. E così feci. Non «spaventai». Mi si annebbiò un po’ la mente, però, come immaginerai, mentre fluttuavo lì sospesa, tra i sussurri di conforto dei miei genitori che conoscevo così poco. Avrei voluto parlare a mio padre nella lingua che mi avevano negato. Ma ormai era troppo tardi: ero la figlioletta americana di Maud-Lucy. Non riuscii a spiccicare una sola parola. «Pensavo fossi un coltivatore di ciliegie», gli dissi. «Anche dottore», rispose lui, e poi ricordo solo Laurentas che strillava a più non posso. Una patata novella con degli ottimi polmoni.

Mai. Forse non conoscevano abbastanza parole. Dove lo impari il corrispondente americano di bisturi? O di whisky nel portauovo? O di medico di campagna e coltivatore di ciliegie che fa i bagagli e parte con la famiglia per farsi assumere come operaio in una cartiera a ottomila chilometri da casa? Doveva essere una storia complicata.

Maud-Lucy, be’… Non avrei mai immaginato che intendesse crescere il bambino nel Vermont, dai suoi. Come poteva una donna come lei tornare a quei noiosi alberi di mele? Da quegli zii alti e robusti e da quelle zie malaticce?

Be’, poteva eccome. Ed è quello che fece. Anche lei era alta e robusta, un donnone. Ci misi un po’ a realizzare che non era una bellezza. Troppo insignificante per sposare un ricco e troppo intelligente per sposare un povero. All’epoca le donne non sposate erano in fondo alla scala sociale. Maud-Lucy si era fermata a Kimball nel 1905, al ritorno da un viaggio nella regione dei laghi di Rangeley dove era andata per dipingere il paesaggio, un viaggio che aveva intrapreso per sfidare il padre, intenzionato a darla in sposa a uno zoticone che vendeva alberi. Lo sbaglio commesso dal padre era stato quello di darle un’istruzione prima del matrimonio.

Ci fu un guasto ai binari, così i passeggeri scesero tutti in città a cercarsi una stanza per la notte, e Maud-Lucy si imbatté in mia madre che usciva dalla sede del Kimball Times, su cui intendeva pubblicare un annuncio per trovare degli inquilini. La palazzina era stata ultimata da appena tre giorni.

Infatti. Ci convincemmo che era stato Dio in persona a metterci lo zampino. Mia madre mi teneva per mano, ero una bimbetta con le trecce e un vestitino confezionato a mano con la tela dei sacchi di farina. Maud-Lucy raccontava sempre che ero inondata di luce.

Lo so, non è magnifico? La nostra è una bellissima storia: fu amore a prima vista. Quella sera lei rimase da noi e non riuscì più a separarsi da me.

Vero, a casa aveva il venditore d’alberi zoticone ad aspettarla. Ma la storia la fai tu, e la nostra andò così. Ecco la verità. Alla fine Maud-Lucy tornò lo stesso a casa, con un bambino tra le braccia.

Io e la mamma la accompagnammo alla stazione. Maud-Lucy era la stessa di sempre: niente cappello, niente guanti, palandrana del 1890. Se mi concentro sento ancora il freddo, sai? Era una di quelle giornate ventose dal cielo blu. Maud-Lucy prese il biglietto e poi scostò la copertina per scoprire il viso del bambino. Da quel primo giorno non l’avevo più visto. Mi rifiutai di baciarlo, ma Maud-Lucy insistette. Aveva il profumo di una pesca matura.

La mamma piangeva, a dire il vero. «È bella vita per ragazzino», disse. Poi Maud-Lucy salì in carrozza. E io non pensai ad altro che alle cornacchie.

Hai presente come saltellano, tutte nere e con le ali che sbattono? A quel punto il treno si mise a fischiare. Lo sento ancora adesso.

Ciuuuf, faceva. Così: ciuuuf. Nella mia testa gridavo per sovrastare il rumore: È bella vita per ragazza. È bella vita per ragazza, anche.

Be’, la guardai andare via, che altro potevo fare? Ero ancora una bambina, del resto. Il treno svanì lungo i binari, trasportando spedito Laurentas verso un futuro pieno di scienza, di letteratura, di conversazioni appassionate che conducevano a cose da controllare, da scrivere o da recapitare. E io ero l’unica creatura sulla Terra a sapere quanto sarebbe stato felice. Se ne andava, Laurentas, e con lui l’intelligenza di Maud-Lucy, il suo ardore, la sua famigerata indipendenza. Il suo amore per me.

Scusa. Come hai detto?

No. Non è mai tornata nemmeno per riprendersi il pianoforte.