22

QUINN non si faceva vedere da ben tre giorni. La Reliant, di nuovo nel vialetto come una parente sgradita, sembrava volerle comunicare qualcosa.

Che niente dura.

I ladri le avevano strappato Laurentas dalla testa, ma adesso, ogni volta che ripensava a lui, si meravigliava di essere riuscita a congelare tanto a lungo la sua immagine di quarantottenne sano, mascellone e robusto. Il ricordo della sala ricreativa la perseguitava, la fragile mente del figlio tanto sconvolgente quanto la presa mordace del ladro sulla spalla.

Su quella spalla, adesso, in luogo del dolore albergava una curiosa tenerezza. Forse lo choc della visita a Laurentas si era voluto ritagliare un angolo livido in cui dimorare. Ogni volta che alzava il braccio, pensava a lui.

Per fortuna, aveva ancora la faccenda del primato mondiale a farle da zavorra per compensare quel senso di debolezza che avvertiva. Si gettò a capofitto nella vecchia routine studiata per lei dal ragazzino:

  1. Sollevare i barattoli di fagioli dieci volte.
  2. Stendere le braccia dieci volte.
  3. Stendere le gambe dieci volte.

La lista continuava, e Ona seguì le istruzioni come se avesse di fronte proprio il ragazzino, con quei suoi occhioni spalancati, che annuiva a mo’ di incoraggiamento a ogni sua protesta.

Sul giornale del mattino lesse di un’altra anima volata al cielo, un’anima di centoquattordici anni relegata a poche battute d’inchiostro sotto le «Notizie dal mondo». Erano pochi i nomi ancora in correlazione con gli elenchi originali del ragazzino e, anche se ogni volta Ona cancellava con una smorfia di compassione i defunti, le piaceva far guadagnare posizioni a chi vinceva per abbandono. La nuova primatista era una donna olandese piombata senza preavviso tra i contendenti, i suoi documenti subito timbrati, sigillati, intinti nell’oro o quant’altro facevano per consacrarti. Era conosciuta con il nome di «Henny». Chissà chi altro si nascondeva nell’ombra e preparava il suo ingresso nella lista, pronto a superarla in quella corsa verso l’immortalità! Nessuno di loro guidava più; c’era sempre questo punto a suo favore.

Nel pomeriggio comparve Belle, riordinata se non addirittura sfavillante.

«Mi chiedevo che fine avessi fatto», commentò Ona. «Come va la vita matrimoniale?»

«Povero Ted.» Belle salì rapida i gradini. «Sarei dovuta venire prima.»

«Il tuo uomo mi ha portato delle lasagne, dopo il fattaccio. Non l’avrai già lasciato, spero.»

«Non mi sono ancora unita a lui, vorrai dire. Qualcuno avrebbe dovuto fermarlo. Merita di meglio. Secondo te ero sana di mente, quel giorno?»

«Ti conosco appena. Non ne ho la più pallida idea.»

«Quinn non ha mosso un dito.»

«Gliel’hai chiesto tu.»

«Davvero?» Era ancora denutrita, ma sembrava più sollevata, tutto considerato. «Che dolce, il modo in cui lo difendi.»

«Non lo sto difendendo.»

«Non negarlo, accettalo.»

Ona si sentì una sorella minore, proprio come l’aveva fatta sentire Louise un tempo. «Grazie del biglietto. E di non aver incluso dei soldi.»

«Ero così arrabbiata per l’effrazione», replicò Belle. «Ti sei ripresa?»

L’amica guardò la cartellina che stringeva tra le braccia. «Quella è per me?»

«Sì. Finalmente sono tornata al lavoro. Quarto tentativo. Non pensavo di farcela, e invece…»

Ona avvertì una lieve scarica elettrica che le nasceva dall’interno e si propagava fino alle estremità. «Temevo te ne fossi dimenticata.»

Belle batté il palmo sulla cartellina. «Questo mi ha aiutato. Più di quanto immagini. È stato come portarmi lui al lavoro. Una volta l’ho fatto, nel giorno in cui la scuola chiedeva di portare i figli in ufficio con sé. Dio, vedessi com’era in gamba rispetto agli altri bambini. C’è chi è nato per la ricerca.» Sorrise di un sorriso autentico; una traccia, forse, del suo io scomparso. «Comunque, eccoli qui. Documenti a volontà.»

In preda all’agitazione, Ona la precedette in salotto dove, come l’illusionista che si prepara a compiere la magia, Belle predispose gli attrezzi del mestiere, collocando moduli e certificati sul tavolinetto da fumo. Erano stati stampati su carta lucida da un lettore di microfilm, alcuni in negativo, con le lettere in bianco su sfondo scuro; altri erano scritti a mano; e altri ancora riportavano gli sfuocati caratteri in copia carbone delle pesanti macchine per scrivere.

«Guarda il tuo percorso», annunciò Belle. E volteggiò con la mano sopra i fogli come a cospargerli di polvere magica. «Ci ho messo tutto il giorno. Ventiquattr’ore, intendo.» E allineò tre dei documenti – i documenti, finalmente! – uno accanto all’altro, in ordine cronologico. Ona si affrettò a inforcare gli occhiali da lettura e li esaminò:

  1. Certificato di matrimonio: 25 gennaio 1920. Ona Vitkus, età 20; Howard Stanhope. Età 39. D.d.n. della sposa: 20 gennaio 1900. D.d.n. dello sposo: 1 febbraio 1880.
  2. Certificato di nascita: 21 dicembre 1920. Randall Wilson Stanhope, 3,850 kg. Padre: Howard Stanhope, età 40. Madre: Ona Vitkus Stanhope, età 20.
  3. Certificato di nascita: 19 giugno 1924. Franklin Howard Stanhope, 3 kg. Padre: Howard Stanhope, età 44. Madre: Ona Vitkus Stanhope, età 24.

Si portò le mani alla gola. Aveva perso la voce.

«Pronta per il gran finale?» chiese Belle, trattenendo gli ultimi fogli come si fa con l’ultima carta in un gioco di prestigio. Sfoggiò di nuovo quel sorriso e poi mostrò un foglio orizzontale: l’insieme di tre fogli di formato normale uniti dal nastro adesivo, che si aprirono scenograficamente come un vero trucco di magia. «Questo è il censimento del 1910, relativo alla città di Kimball, Maine.»

Le informazioni erano state inserite in una tabella, dozzine di cognomi che raccontavano la storia di quella cittadina di immigrati: Fitzmaurice, Kaubris, Murphy, Roche, Vaillancourt, Sinclair, Flynn.

Davanti ai suoi occhi, registrato con una calligrafia impeccabile, c’era il suo vecchio quartiere. Ona individuò per primi i Donato, gli inquilini del primo piano. I Donato, sì: due tipi bassi con le fossette e un cane gigantesco. Alla voce successiva, il cognome Stokes. Maud-Lucy Stokes, regina del secondo piano. La calligrafia apparteneva a un giovanotto che Ona ricordava distintamente, adesso: pallore spettrale, capelli rossi taglio pompadour, soprabito color cioccolato. Si era profuso in un inchino da galletto quando Maud-Lucy era scesa a fare da interprete.

Lesse ancora Burns, Masalky, Doherty, Carrier. Poi tornò con gli occhi a inizio pagina e lì, proprio sopra i Donato, trovò i loro nomi.

Vitkus, Jurgis.

Vitkus, Aldona.

«Sha, sha, sha», sussurrò.

Vide la loro palazzina, tre solidi piani finanziati con l’oro che Aldona si era cucita nelle sottogonne e i dollari americani che avevano guadagnato in fabbrica. Costruire buona casa, Ona! Ona-amore-mio, cosa tu pensa?

Sopraffino, papà! aveva risposto lei all’età di sei anni, scatenando le risate dei genitori. Cosa tu dice? Non erano riusciti a tradurla, quella parola ma, incuranti, avevano preso la figlia per mano e sorriso, mostrando quei loro bei dentoni squadrati.

Un istante custodito per quasi cent’anni: in quella splendida mattina d’estate, i suoi genitori le erano apparsi per la prima volta come stranieri, e proprio quando facevano il loro ingresso nella grande imprenditoria americana del mercato immobiliare. Se in lituano esisteva un brindisi per una simile occasione, la piccola Ona non lo conosceva. Solo quando Randall aveva imparato a parlare, lei aveva compreso la portata del loro sacrificio di assimilazione. Il loro amore nei suoi confronti era stato troppo grande, e aveva comportato un costo tale – la comunicazione con la loro unica figlia – che ancora adesso non immaginava come fossero riusciti a pagare.

«Bontà mia», esclamò, trovando finalmente il proprio nome. «Eccomi qua.»

Belle avvicinò il foglio al bordo del tavolo e, da dietro la spalla di Ona, lesse: «‘Luogo di nascita: Vilnius, Lituania. Età: 10.’ Eccola, la tua prova. Dieci anni nel 1910. Avreste dovuto chiedere aiuto a me fin dall’inizio.»

«No, no», la tranquillizzò lei, alzando lo sguardo. «Cercare ci piaceva così tanto.» Ona guardò le altre voci, diciannove diciture schierate l’una accanto all’altra lungo il bordo superiore dei fogli fermati insieme con il nastro adesivo. Il giovane incaricato aveva riempito ogni casellina con una calligrafia precisa e inclinata verso destra (metodo Palmer di sicuro), spesso così fine da essere illeggibile senza la sua lente d’ingrandimento. «Di preciso dov’è scritta la mia età?» domandò.

«Proprio qui.» Belle indicò un punto sulla sinistra del foglio. Ruolo all’interno della famiglia; Età; Luogo di nascita; Stato civile; Alloggio in affitto o di proprietà… «Ecco i dati di tuo padre. ‘Età: 49. Professione: operaio addetto alla cottura della cellulosa. Settore: fabbrica di cellulosa.’»

«I miei genitori erano anziani, per l’epoca», commentò Ona. «Devo essere stata una sorpresa, per loro.»

Belle continuò: «‘Aldona. Età: 45. Professione: cenciaiola. Settore: Fabbrica di sacchi.’» Ona si sforzò di distinguere le parole, di accoglierle, come se avessero un’anima. Seguì il dito dell’amica che si spostava sul foglio, voce dopo voce, finché non si fermò.

«Avevi un fratello?» chiese Belle.

«No. Ero figlia unica.»

«Vedi, qui?»

Ona non ci leggeva.

Belle esitò. «Dice: ‘Numero di figli in vita: 1. Numero di figli generati: 2.’ Non specifica se si trattava di un fratello o di una sorella.»

«Non avevo fratelli o sorelle», replicò Ona, ma d’un tratto sì, sì, ne aveva, invece.

Brolis: la parola le era piovuta come un solitario chicco di grandine quando aveva aperto la porta e trovato il ragazzino in uniforme sotto la veranda gocciolante. Brolis: la prima parola sbrigliatasi dal suo sonno centennale.

Il fratello le apparve appena chiuse gli occhi, uno sprazzo: un albero in fiore, un ragazzino nella chioma fiorita, uno smilzo malandrino che dall’alto sorride immerso in una schiuma di petali rosa. Le sue guance erano rosa. Rosa le ginocchia che spuntano dai buchi nei calzettoni. E un altro flash: le stesse guance rosa e una specie di costume… ma, no, quello era l’altro ragazzino.

Vakaras. La parola la investì, più pesante delle altre. Possibile che venisse a saperlo solo adesso, un secolo dopo? Eppure eccolo, il nome del suo paesino. Non Vilnius, la città copertura, una bugia per proteggere la famiglia che si erano lasciati alle spalle. Ma Vakaras.

Ona Vitkus era originaria di un posto chiamato Sera.

Si alzò, di colpo affamatissima. Kopustas, grietinė, bulvė. Vogliosa di qualcosa di dolce e molliccio. Qualcosa con del cavolo e della panna.

«Ona?» chiamò Belle.

Dovette reggersi la testa che le ondeggiava. «Mi serve la lente d’ingrandimento.» Entrò in cucina, le orecchie che le pulsavano. La lente era sulla pila dei giornali della settimana. Mentre allungava la mano per afferrarla, la parola lituana per «giornale» piovve a terra tintinnando. Agguantò la lente e giù un’altra pioggia: leggere, parola, libro. Una pioggia sempre più intensa. Si aggrappò allo sportello del forno per tenersi in equilibrio e bam, bam, bam piovvero le parole per cucinare, bollire, infornare.

Era come essere colpiti a più riprese da un fulmine. Tornò in salotto, di nuovo sferzata da sedia, tappeto, finestra. Ogni passo sbrigliava una parola elettrificata, e Ona le scandiva tutte a voce alta, pronunciandole a singhiozzo pushka-pushka-pushka. Avvertiva un preoccupante dolore al petto, anche se qualcos’altro dentro di lei – qualcosa di dolce, di ancestrale – trovava finalmente pace.

«Ti senti bene?» chiese Belle.

«Dov’è?» Ona armeggiò con la lente sopra i fogli. Le dita che formicolavano.

«Proprio qui.» Belle posò l’unghia rosicchiata nel punto esatto. «Qui.»

E lei lo trovò: suo fratello, perduto per sempre e per sempre senza nome.

Numero di figli in vita: 1. Numero di figli generati: 2.

Vide una porta bagnata, una cuccetta bagnata, uno scialle bagnato che strusciava, un orlo di pizzo che era troppo piccola per afferrare. Vide un ponte sferzato dal vento e la madre piangente. Vide il suo Frankie affidare al mare i marinai, come se fosse stata lì, accanto a lui. Vide il ragazzino dalle guance rosa sull’albero di ciliegio, ora avvolto nel bianco scialle della loro madre, vide i sassi che il padre mise nel sudario dopo averli baciati. Colse un non piangere non piangere. Un piccola mia piccola mia. E poi fratello, fratello, fratello. Vide la rete di braccia che si apriva, il corpo fasciato che si inabissava.

Brolis, brolis, brolis.

Il sibilo del mare che in un risucchio l’accoglieva.

«Ona?» si udì chiamare da lontano, un rumore di sottofondo, come di traffico o di uccelli. Nella sua testa, per contrasto, dimorava una chiarezza mirabile, cristallina. Fluttuava per la casa, la vista nitida, le mani che toccavano tutto e ogni contatto della mano sull’oggetto liberava un’altra parola, che Ona pronunciava nella propria lingua madre così come le veniva. Porta. Balaustra. Muro.

Ona? Uccelli in lontananza, una tappezzeria di rumori. Ona?

Di colpo avvertì una certa premura, consapevole che fosse in corso una qualche magia, da cogliere al volo prima che svanisse. Allo stesso tempo, scivolò in una crescente sensazione di pace, di sicurezza, di ritorno a casa.

Al di là della sua bolla di chiarezza imperversavano un caos ovattato, un panico crescente, una voce al telefono, ma niente arrivava fino a lei. Le parole impazzavano, prima sostantivi astratti, poi aggettivi incandescenti e infine uno zampillio di frasi intere, come conigli che saltavano gioiosi fuori da un cappello senza fondo. Fratello mio, fratello maggiore con le ginocchia sbucciate dall’albero. Dov’è il tuo nome? Che ne è stato del tuo nome? Timorosa di spezzare l’incantesimo – che altro poteva essere se non un incantesimo? – Ona continuava a parlare, parole su parole, ogni sillaba un pacco regalo che si apriva.

Di nuovo in cucina, allungò il braccio per tenersi in equilibrio. E la mano cadde sul plico del Guinness dei primati: Quale record intende battere/stabilire? Quando/dove/come intende battere questo primato mondiale? Come progetta di comprovare questo primato mondiale? Dentro la testa percepì una sorta di fulgore, una luce tagliente che le svelò la sua vita reale e la vita che avrebbe potuto vivere, una vita in cui parlava il pushka-pushka-pushka dei suoi genitori. Mentre si arrendeva a quell’affascinante doppiezza, un’altra voce le punse la coscienza, una voce maschile, dolce e calma, Il capo scout è qui, le sue mani su quelle di lei, Ona cara, Ona cara, il suo viso una gradevole macchia indistinta, e di nuovo una voce di donna che gridava in una cornetta, ma non le venne la parola per «telefono», né per microonde, per radio o per frullatore. E nemmeno per elettricità né per frigorifero ma, appena lo toccò, piovve ghiacciaia e poi ghiaccio, barroccio del ghiaccio, latte, uova. E ancora formaggio e capra e pollo e cane e gatto e topo e insetto. E fratello, mio fratello, Torniamo indietro, mamma, ti prego, torniamo indietro, voglio andare a casa, voglio andare a casa. Quella singola frase ora ripetuta all’infinito, e un attimo prima che camminasse o barcollasse o strisciasse o fosse trasportata fino al letto, per poi distendersi e reclamare appieno quella sensazione di pace assoluta, lasciando che la dolce pioggia di parole impregnasse la superficie scarificata della sua vita, si chiese e ripeté, in inglese adesso, sognante e rassegnata: Dov’è la mia casa? Dov’è la mia casa? Dov’è la mia casa?

Questa è la signorina Ona Vitkus. E questi sono i ricordi e i frammenti della sua vita su nastro. Sempre parte decima.

Ah! Temo che dovrai prepararti a un piccolo colpo di scena.

Rividi Louise.

Sì, davvero! Molti anni più tardi.

In questa stessa strada, in realtà, due giorni dopo che mi ci trasferii. Randall aveva comprato una nuova villa a Cumberland – la signora con cui viveva in quel periodo odiava questa casa – così mi fece trasferire qui.

Io adoro questa casa. Che ci provino, a tirarmi fuori! Insomma, ero qui che potavo le rose e mi facevo gli affari miei, quando avvertii una sensazione stranissima. Alzai lo sguardo per vedere di cosa si trattava e tre case più giù, dall’altra parte della strada, ecco apparirmi Louise Grady che clicchete clacchete saliva i gradini di quella casa bianca là. La vedi?

All’epoca era bianca. Louise indossava un gonnellone, bianco pure quello, e pareva essere spuntata dal nulla, come un fantasma che si materializzi e attacchi con le sue inquietanti scorribande. Erano passati vent’anni da quando mi aveva chiesto il famoso bacio di Giuda.

Oh, neanche te l’immagini! Aveva settantatré anni, ma era impossibile non riconoscere quella sua camminata ancheggiante. Si udì il fruscio dei sacchetti della spesa e poi ogni altro suono dell’universo cessò di esistere.

Agitai le cesoie sopra la testa e strillai come una pescivendola!

Così: «Louise! Louise Grady!» Temevo sparisse di nuovo nel nulla. Hai mai visto L’incredibile avventura?

L’ultima scena in cui il cane finalmente…

Stessa cosa: Louise mette giù le borse della spesa e poi, patapum patapam, si mette a correre verso di me proprio come quel cane, finalmente a casa dopo aver percorso migliaia di chilometri sulle sue zampe malandate.

Be’, lo so. Ci eravamo lasciate in malo modo. Ma Louise aveva il dono di cambiare la realtà come certi hanno il dono di cambiare disposizione ai mobili. E io me la ritrovai davanti, lì nel giardino di Randall, così emozionata e felice di vedermi; oh, quanto le ero mancata, non la finiva più!

Come se si fosse dimenticata del mio bacio di Giuda. Lo fece scomparire: puf. Svanito nel nulla. Se penso alle lacrime che avevo versato inutilmente.

Le mie sono solo supposizioni, perché non ne abbiamo mai parlato, ma sospetto che gli anni trascorsi l’avessero fatta somigliare un po’ di più a me.

Una donna sola. Con problemi di salute, anche. Forse aveva bisogno di un’alleata.

Pensa un po’. Per due volte ha scelto me. Ho sentito così tanto la sua mancanza, quando se n’è andata.

Nel posto in cui vanno le persone. Per dimorare a fianco dell’Onnipotente.

Intendevo… intendevo dire che è morta. Che ho sentito tanto la sua mancanza quando è morta.

Dunque, vediamo, andavamo spesso al cinema, a volte con altre signore. A Louise piaceva Robert Redford, soprattutto quando recitava a torso nudo. Certe sere restavamo alzate fino a tardi a riscrivere il finale, Louise afferrava una scopa, un guanto da forno, una pentola e partiva in quarta. Proprio come quando insegnava Shakespeare.

Davvero straordinaria. E poi in tutti gli anni che avevo trascorso alla Lester, lei era stata l’unica a credere che mi si potesse insegnare qualcosa. Ah, dimenticavo gli uccelli!

Una volta andammo in macchina fino in Texas per la migrazione di primavera. Il viaggio lo pagai io, ma fu lei a mettersi al volante e, quando arrivammo là, assoldammo come guida un bel giovanotto che ci mostrò un numero vertiginoso di uccelli, e l’ultimo giorno… Bontà mia, non ci pensavo da anni.

La guida fermò la macchina sul ciglio di una strada polverosa. Louise era seduta davanti, piuttosto seccata dal fatto che quel bell’uomo ci trattasse come due vecchie signore. «Ma noi siamo due vecchie signore, Lou», le feci notare, al che lei mi informò: «Tu parla per te. A mio avviso il giovanotto è pazzo di me».

Non sopportava l’idea di invecchiare. Era già malata, ma non lo sapevamo ancora. Scricchiolante, scorbutica, impedita e priva di fascino com’era, si aspettava di essere trattata come la reincarnazione di Cleopatra.

Ebbene, la guida ci aiutò a scendere dall’auto senza che sapessimo cosa aveva in mente. Non c’era un punto più insignificante di quello, per una sosta, ti assicuro.

Recinzione di rete e paletti e, al di là, un pascolo; il classico paesaggio texano, insomma, solo che a distanza di poche centinaia di metri s’intravedeva il Golfo del Messico, dietro un pugno di case battute dal vento che imploravano di essere spazzate via dalle acque. La nostra guida mormorò qualcosa, ma le orecchie di Louise erano andate, ormai, e lei non capì.

«Diluvio.» Pensai a una formula religiosa. In Texas non si può mai sapere. Ma poi seguimmo con gli occhi il suo sguardo. E restammo a bocca aperta. Era davvero un diluvio.

Quando gli uccelli tornano tutti insieme, allo stremo delle forze, sfiniti, riarsi e affamati, è proprio come se si riversassero a pioggia giù dal cielo. È uno spettacolo che in pochi riescono a vedere, ma noi lo vedemmo, proprio lì, sul ciglio di una polverosa strada texana.

Colibrì! Colibrì dappertutto! Colibrì che ansimavano sui fili di recinzione. Che si riposavano nell’erba. Colibrì appollaiati nella polvere. Uno si posò sul berretto della guida e restò lì, fermo sulla visiera come una gemma. Il giovane si immobilizzò e smise quasi di respirare, e intanto i colibrì continuavano ad arrivare, dopo aver sorvolato le perigliose acque del Golfo e avvistato per la prima volta la terraferma in ottocento chilometri di volo. Delle centinaia di fiori selvatici in quei campi infestati di erbacce a lato della strada, non ce n’era uno solo privo di un colibrì che ne sorbisse il contenuto fino a saziarsene.

Erano queste le cose che Louise introduceva nella mia vita.

Non so quanto restammo lì. Era come assistere alla creazione del mondo, davvero.

Non un miracolo… semplicemente la natura all’opera. Il miracolo era che non fossi nel salotto di casa mia a guardare Ok, il prezzo è giusto, perché era proprio quello che avrei fatto in quel momento, se l’Onnipotente non avesse messo Louise Grady in una casa di Sibley Street a Portland, nel Maine, a più di vent’anni di distanza dal giorno in cui mi ero convinta di averla persa per sempre.

Scomparvero. Come fanno i colibrì. Volatilizzati, come in un gioco di prestigio. Prova a immaginare: un migliaio di colibrì con la gola color rubino che all’improvviso piovono dal blu dritti su di noi, due vecchie signore incapaci di credere ai propri occhi.

Era Louise quella che contava. Mi afferrò la mano per stringermela a ogni colibrì che cadeva. La mano mi fece male per giorni, dopo.

No, mi piaceva. Mi sembrava di averli sognati, quei colibrì, e il dolore mi aiutava a ricordare che era tutto vero.

Due anni più tardi.

Tumore alle ossa. Si trasferì da me dopo che un agente immobiliare le svendette la casa.

L’ho fatto. Mi sono presa cura di lei fino alla fine. In questa stessa casa. E sai qual è la cosa buffa?

Che dovevo essere rigida con i medici, gli agenti assicurativi e gli altri guastafeste con cui mi toccava avere a che fare, alcuni cento volte più subdoli del signor Scarpe Lustre.

Mi facevo rispettare! Finché un giorno non mi resi conto di aver mutuato da Louise la sua personalità per riuscire a occuparmi di lei come dovevo. Ero io quella che diceva: «No, mi ascolti lei!» o «Non va bene per niente!» Era tutta la vita che aspettavo di farmi valere, e finalmente ci stavo riuscendo.

Esatto, proprio come un gufo reale eurasiatico.

In gennaio, poco prima del mio ottantasettesimo compleanno. Ricordo che fuori era in corso una bella nevicata. Una giornata di quelle in cui te ne andresti volentieri, se ti sentissi pronto a farlo.

Non era pronta, no. Fino all’ultimo si è tenuta aggrappata alla vita con le unghie e con i denti.

Le somministrai della morfina.

È terribile gestire il dolore di un altro essere umano. Alla fine si calmò. Ero seduta sul letto accanto a lei, a guardare la sua solita pantomima, perché era quello l’effetto che la morfina aveva su di lei.

Fece mostra di aprire una bottiglia, di versare del vino in un bicchiere invisibile, di farlo roteare e di sorseggiarlo. Tutto con una precisione e una grazia di movimenti che sentii quasi il sapore di quel vino.

Uno spettacolo triste, direi di sì, ma capace di ricordarmi quanto Louise sapesse essere affascinante, così diversa da quella creatura pelle e ossa che, abbandonata sui guanciali, sorbiva dell’immaginario Chardonnay. Gli occhi le brillavano per effetto della morfina, ma anche, spero, per il riverbero della sua vita intera. Ero fiera che avesse scelto di farsi accudire da me.

Non disse niente. Fui io a parlare…

Dissi: «Lou, secondo te che ne è stato di quell’Hawkins?»

Mi venne fuori così. Non so perché. Forse la neve mi aveva fatto venire in mente la Lester Academy, tutti quei bui pomeriggi d’inverno trascorsi alla mia scrivania.

Niente. Se ne restò lì nel letto, a contemplare la stanza, a prepararsi ad andare, immagino. A memorizzare gli ultimi istanti della sua vita. La cosa mi commosse profondamente, perché stava memorizzando una delle stanze della mia casa, la casa in cui io l’avevo accudita. E amata.

Sì. Lo sussurrai.

«Ti voglio bene, Lou.» Così le dissi.

Poi i suoi occhi si fecero limpidi, intensi e inquietanti, come li avevo sempre visti.

E Louise rispose: «Signorina Vitkus, quel ragazzo era delizioso».

Di preciso non lo so. Può darsi che non significasse niente. Magari l’aveva pronunciata sotto l’effetto della morfina.

Ripensai al ragazzo che aveva messo in giro quella voce. Il ragazzo del conservificio espulso per aver mentito. Non ricordavo neppure il suo nome.

Louise morì quella sera e, com’era tipico di lei, mi lasciò immersa in un buio dalle mille sfaccettature. Avevo sofferto terribilmente per quel mio bacio di Giuda, come sai, per anni e anni.

Pensavo di aver tradito una persona che mi aveva dato tantissimo. E il dolore si era protratto per anni. Per quella vicenda mi era stato difficile farmi delle amicizie. Ma adesso chi era la traditrice?

Non lo sapremo mai. Avevo ottantasette anni, ma non mi sentii vecchia se non dopo la morte di Louise. Lei aveva impreziosito la mia vita, ecco la verità. Con il tempo, dimenticai il resto e mi ricordai solo questo.

Il perdono è davvero una splendida cosa. Alla fine, per me è tornata la Louise dei mille colibrì.

Tu?

Tu sarai il ragazzino adorabile che ha raccontato le mie storie.