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DOPO un sonno irregolare interrotto da apparizioni – Juke (Perdonami), il giovane poliziotto (E lei è il nipote che non ha voluto chiamare?), Belle (Non complicare ancora di più le cose) e Ted (A nome del Branco 23…) – Quinn infilò la foto del ragazzino dentro un cassetto, facendo scorrere la cornice sotto una coltre di magliette, con l’intenzione di allontanare il rimorso. Ripescò una copia del giornale dal bidone del vicino e trovò un’enorme foto a colori dei Resurrection Lane senza il cristiano-poi-cocainomane-poi-cristiano-e-infine-ateo Zack.

Chiamò Brandon. Poi Tyler. Poi i Jay. Ma era troppo presto perché gli rispondessero; benché anime caste, osservavano pur sempre gli orari dei musicisti. Erano dispiaciuti di non poter rispondere. Ti auguravano una super giornata. Ti auguravano la grazia redentrice del Signore.

Riuscì a mettersi in contatto con Sylvie mentre aspettava l’autobus, che era in ritardo; motivo per cui avrebbe dovuto presentarsi subito al lavoro e saltare il rituale confortante del caffè gratis nell’atrio della GUMS.

«Quinn!» esclamò lei. «Santiddio! Ti ho lasciato cinquanta messaggi.»

«Mi si è rotta la casella vocale. Il giornale dice che Zack ha lasciato il gruppo. È vero?»

«Una volta era un tesoro, sul serio. Ora il mio premuroso nipote se n’è andato a Miami – la capitale della droga dell’emisfero occidentale – senza neanche dire addio alla famiglia. E mio fratello è a pezzi. Quel ragazzino è stato fonte di angoscia dal giorno che è venuto al mondo e, Dio mi perdoni, sono felice di essermelo finalmente levato di torno.» Sospirò. «Senti, puoi venire da noi? Subito, magari?»

«Sto andando al lavoro, Sylvie. L-a-v-o-r-o.»

«Fai l’impertinente con me? Perché non sono in vena. Ti ringrazio tanto, ma di impertinenze ne ricevo già abbastanza da quei santerelli dei miei figli che, stando a quella minchiona di una giornalista pettegola, hanno sfidato la loro – testuali parole – ‘mamma impresario sovreccitata’ mandando a quel paese la Warner Bros. Records.»

Quinn si mise a ridere. «Ho sentito.»

«Non sono sovreccitata né tantomeno una madre impresario. Sono una donna d’affari, io.»

«Una sovreccitata donna d’affari, allora.»

Dal ricevitore uscì un vocalizzo gutturale, simile alle fusa di un felino pericoloso. «Oddio, Quinn. Doug ha ragione, non ce la faccio più, ho bisogno di qualcuno con cui parlare, e se avessi il numero di Gesù Cristo in persona puoi scommetterci i pantaloni di pelle che l’avrei digitato molto prima del tuo. In mancanza dell’Altissimo mi accontento di te, però.»

«Sylvie? Stai ringhiando?»

«No, fumo. E per tua informazione, stai parlando con la regina del l-a-v-o-r-o. Mica ho ereditato i miei tre ettari e mezzo di terra dal re di Francia, che cavoli!» Quinn udì un lungo sbuffo nicotinizzato. «Non hai idea di quello che mi stanno facendo passare, con tutto quel loro blaterare di ‘divergenze artistiche’, Santiddio, ‘divergenze artistiche’. E ora, naturalmente, pensano che sia per volere di Dio se alla fine si sono guadagnati un contratto come si deve con la Christ Incorporated.»

«Ma hanno un uomo in meno. Giusto?»

«Ho un contratto da firmare, legali da consultare, ma Doug non mi è di nessun aiuto e si nasconde in ospedale, dove per quel che ne so sta costringendo la gente a farsi operare al cervello solo per avere la giornata occupata. Non è che io non regga la situazione, Quinn, solo che…» Da come abbassò la voce, Quinn si rese conto che Sylvie non aveva paura, come era stato indotto a pensare inizialmente: era terrorizzata. «Tu sei l’unica persona dell’ambiente che non mi faccia venire in mente uno squalo con i denti che grondano sangue. Qui abbiamo bisogno di te, Quinn.»

La speranza gli infiammò la gola. «Smonto alle quattro», replicò. «Rilassati, Sylvie.»

«Non ci riesco! Quanto vorrei che i miei figli non l’avessero mai preso, questo treno. Si credono così… invincibili. Qualunque cosa desiderino, voilà, succede all’istante.» Sylvie si interruppe. «Francamente, io do la colpa a te.»

Questa era una sparata troppo grossa persino per lei. Quinn ribatté: «Ehi, non ti sarai mica dimenticata chi è stato a comprare il camper Winnebago».

«Farò finta di non aver sentito, va’. Mi riferivo al tuo esempio. Al fatto che con il tuo stellare esempio ispiratore, per queste suggestionabili marmotte tu sei la prova vivente che è possibile campare di sola musica.»

Quinn ammutolì. Era la cosa più carina che Sylvie gli avesse mai detto, anche se gliel’aveva lanciata a mo’ di invettiva. Lei riagganciò senza dargli il tempo di ringraziarla. E di dirle che non portava – né mai li aveva portati, nemmeno negli anni Ottanta – i pantaloni di pelle.

Entrò alla GUMS passando dal parcheggio dei dipendenti, fiancheggiato da una fila di alberelli di un certo rilievo architettonico.

«Benvenuto, Porter», lo schernì Dawna, battendosi il portablocco a molla sul fianco. «Che piacere vederti.» Inserì il suo nome nel programma della giornata e poi gli assegnò un compito che non voleva nessuno: infilare a mano scivolosi inserti patinati nelle quattromila brochure di una ditta che vendeva attrezzatura da trekking. Un lavoro da interpretare come misura correttiva derivante, a detta di Dawna, dal pasticcio che aveva fatto con uno dei turni della settimana prima, una cosa che non si sarebbe mai verificata se si fosse presentato alla sua postazione di lavoro come aveva promesso.

«Stavo dando una mano a una vecchietta», spiegò lui.

Dawna scoppiò a ridere, ma Quinn non le badò; stava ripetendo mentalmente ogni parola della sua conversazione con Sylvie. Qui abbiamo bisogno di te.

Se esiste un Dio, pregò, fa’ che sia un chitarrista.

«Ho chiamato, però», ricordò a Dawna. «E Rennie mi ha dato il giorno libero.» Ma lei aveva una perfida memoria a lungo termine che mai avrebbe cancellato la tournée di settimane prima con i Resurrection Lane, durante la quale, per la prima volta in vita sua, Quinn aveva saltato un giorno di lavoro senza prima avvisare con una telefonata. Aveva realizzato troppo tardi che era stato per l’eccitazione, per il desiderio disperato di vestire i panni macchiati di Zack.

Verso le dieci e mezzo, si fece vivo Rennie, ufficialmente per controllare come procedevano le cose. «Ciao», lo salutò, issandosi a sedere su un banco da lavoro. Le tasche dei pantaloni gli si allargarono come una gonnellina.

«Mi dispiace per ieri sera», disse Quinn.

Rennie si guardò intorno. Non era noto per essere un rompiballe e la sua presenza passava quasi inosservata. «Gary dice che dovrei scusarmi. Non dico che non sia stata colpa tua. È stata colpa tua sì, sei tu che dovresti fare in modo che non capitino merdate del genere, però mi sento uno stupido ad aver perso la testa così.» Perlustrò con gli occhi il suo impero rumoroso. «Non so che cosa mi sia preso.» Abbassò lo sguardo. «Suonare in quel posto è l’unico divertimento che ho.»

«Non pensarci, Ren.»

«Sei arrivato a casa senza problemi?»

«Mi ha dato un passaggio il nuovo marito di Belle.»

«Mmh. Un esempio di civiltà.»

«A quanto pare sto per regalare un minivan nuovo al suo reparto scout.»

Sconcertato, Rennie distolse lo sguardo. «So che è stata dura», commentò. «Se perdessi mio figlio mi ucciderei.»

«Ho parlato con Sal», disse Quinn. «Torniamo sul palco la prossima domenica, come sempre.»

«Non ci credo!» Rennie si aprì in un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro. «Non ci credo, cacchio! E agli altri l’hai detto?»

«Lascio a te il piacere.»

«Li chiamo io, allora», replicò Rennie. Dimostrava già vent’anni di meno. «Subito. Chiamo tutti quanti.»

Scese dal bancone con un salto, atterrò sbuffando come un vecchietto e si dileguò. Da dietro, a esclusione del girovita che gli debordava come cera sciolta dalla cintura, dell’acne pronunciata e dei pantaloni corti da acqua in casa, sembrava ancora il ragazzino di Sheridan Street che era un tempo, il figaccione di colore della band.

«La pausa l’hai fatta», sentenziò Dawna.

Una volta assemblate le brochure, Quinn ricevette l’ordine di inserirle nell’ink jet, una macchina che emetteva rumori simili a quelli di un apparato digerente sovraccarico ingigantiti da un amplificatore di pessima qualità. Il frastuono lo infastidiva, anche con i tappi alle orecchie, una cosa che a Dawna parve piuttosto ironica, considerando il suo normale ambito di lavoro. In passato era stata sposata con un musicista e aveva tutta l’aria di rifarsela con Quinn.

Mentre lui continuava a ingozzare la macchina, lei rimuginava ai piedi del nastro trasportatore, intenta a prendere i dépliant codificati per poi schiaffarli nella legatrice. Indossava un paio di jeans attillati e un top giallo che somigliava più a un articolo di biancheria intima. Malgrado l’aspetto da volatile, non era una donna brutta. Aveva un seducente velo di sudore addosso e, tra una lenta mandata di volantini e l’altra, incrociava le braccia e alzava al cielo gli occhi truccatissimi.

«Gioverebbe ai tuoi bulbi oculari se mi dicessi semplicemente di darmi una mossa», gridò Quinn per sovrastare il rumore del macchinario.

Dawna inarcò le sopracciglia assottigliate fino all’impossibile dalle le pinzette. «Dici?» Si fece largo tra gli scatoloni e i sacchi di posta, le braccia palestrate e abbronzatissime. Gli arrivò a cinque centimetri dalla faccia, il fiato che profumava di pastiglie per la tosse e gridò: «Datti. Una. Cazzo. Di mossa», protendendo leggermente le labbra quando pronunciò l’ultima parola.

E per rafforzare il concetto, issò una pila di brochure dalla cassa senza fondo, le contò affidandosi al tatto, le allineò, le appiattì sul nastro e, mentre quelle venivano risucchiate dal macchinario, ne allineò un’altra mandata. Quell’impiego significava molto per lei. L’impiego, l’iscrizione alla palestra, forse un nuovo ragazzino e magari anche un bambino. Una vita incasellata che adorava.

«Ti ho addestrato già due volte», gli fece notare. «Vali troppo per questo lavoro oppure sei solo il classico casinista?»

«Cristo santo, Dawna, dammi un po’ di tregua.»

«La pausa l’hai già fatta.»

«Intendevo in senso metaforico.»

«Il mio ex era un grande fan delle metafore. E quella storia della tregua mi è tornata comoda quando mi ha ripulito la carta di credito.»

«Touché», commentò Quinn, sinceramente offeso, adesso. «Altro punto a tuo favore, Dawna la supervisora.»

«Qual è il tuo problema, Porter?»

«La vita è breve. Ecco qual è il mio problema», rispose lui.

«Dimmi qualcosa che non so.»

«Nel vero e proprio senso della parola?»

«Sì», replicò lei con aria di sfida.

«Mi dispiace di averti messo nei casini, l’altra volta. E mi dispiace che le brochure non siano state pronte per venerdì scorso. Perché mi sono appena reso conto che sei tu a dirigere, qui dentro.»

Dovette urlare per sovrastare il rumore dei macchinari, per cui il complimento suonò più smaccato di quanto fosse stata sua intenzione. Ammutolita per lo stupore, Dawna restò assorta nei propri pensieri mentre la macchina ruttava e gorgogliava a vuoto.

Quinn trascorse la pausa pranzo al telefono con lo Stato del Maine che, si scoprì, non aveva alcun problema con la sua patente di guida e gli suggerì che qualunque insinuazione in altro senso era stata frutto di un fraintendimento… da parte di Quinn, naturalmente, non dell’agente. Quando tornò al lavoro, Dawna era ancora lì. Lavorarono in silenzio per un’ora, e poi per due.

Dopodiché, Quinn annunciò: «Ora tocca a te».

«Come?»

Alzò la voce. «Dimmi tu qualcosa che non so.»

Dawna ci rifletté un istante. Poi agguantò un volantino dalla pila e disse: «Lo vedi questo? Qui ci scappa di sicuro una denuncia». Lì per lì, Quinn capì «rinuncia». Il rumore della macchina confondeva le consonanti.

«Da’ un’occhiata qui», continuò lei, sventolandoglielo in faccia. «Guarda che affondo.»

Affondo? Quinn non vedeva altro che l’immagine artefatta di bambini in abiti frufru che facevano trekking sotto un cielo le cui nuvole formavano la parola SALDI. «Che sarebbe questo ‘affondo’?»

«Ma quale affondo! Ci sei o ci fai? Ho detto guarda che sfondo. I musicisti sono tutti sordi? Anche quello stronzo del mio ex era sordo.»

«Dove vuoi arrivare, Dawna?»

Lei agitò nell’aria il dépliant incriminato. «Sto dicendo che questa foto è la copia spiccicata del volantino dei saldi di Lands’ End dell’estate scorsa. Stessa impaginazione, stesso colore, stessa scritta fatta di nuvolette nello stesso identico cielo. Vogliono farti credere che le loro cagate da quattro soldi abbiano il marchio di Lands’ End.»

Era partita in quarta, ormai, e dall’alto della sua esperienza dichiarava che la ditta di attrezzatura da trekking se l’era messa in quel posto da sola attirandosi una bella denuncia. E mentre lei condannava la scandalosa fregatura sventolandogli in faccia la brochure e ripetendo: E guarda il colore e guarda la foto e guarda il carattere e guarda lo sfondo, Quinn ebbe una sconvolgente rivelazione, legata proprio al senso delle parole.

Una rivelazione che lo inseguiva da anni, ma che lui aveva sempre respinto, rifiutandosi di vedere, di capire, di riconoscere come stavano le cose. Le capì in quel momento. Vide tutto con chiarezza proprio allora, nel frastuono della GUMS, mentre Dawna lo istruiva sugli aspetti più complessi e dettagliati del marketing d’imitazione.

La sua disquisizione l’aveva resa più disponibile, indulgente, quasi. «Cavolo, sono quasi le tre. Per oggi basta, Porter. Stamani ho rischiato di mandarti in cortocircuito.»

Così lui raggiunse l’ingresso, si tolse i tappi dalle orecchie e imboccò il sentiero paesaggistico che conduceva prima alla strada, poi al parcheggio C e infine alla fermata dell’autobus. Uscì a passo spedito e presto si mise a correre, arrivando alla strada a corto di fiato, con le ginocchia in fiamme e le parole male interpretate che ancora gli rimbalzavano dentro come le palline di un flipper, in uno sfolgorio di luci e impulsi elettrici.

Guardate che affondo!

Un errore banale. «Che affondo» invece di «che sfondo». Facile sbagliarsi. Soprattutto se le parole uscivano dalle labbra di quel fenomeno di David Crosby ed erano filtrate dal pubblico vociante di un teatro all’aperto, mentre miliardi e miliardi di litri d’oceano si frangevano contro gli scogli e le tue corde vibravano riconoscenti da una sfilza di casse acustiche. Soprattutto se le parole erano proprio quelle che le tue orecchie illuse desideravano tanto sentire.

Guardate che affondo! Ecco che cosa aveva sentito Quinn. E sorridendo aveva annuito, gli occhi fissi sulle proprie dita che volavano sulla tastiera. Solo che non erano quelle le esatte parole esplose con tanta eccitazione dalle labbra baffute di quel fenomeno di David Crosby.

Guardate che sfondo! Che notte, ragazzi! Perché era stata davvero una notte magica, con quel vasto cielo là in alto, blu intenso e inondato di stelle. Che posto meraviglioso, aveva detto il buon vecchio Dave. Riferendosi a un reale luogo geografico. Riferendosi a quel mare, a quella scogliera, a quella casa da sballo, a quello sfondo, a quella notte stupenda.

Arrivò l’autobus, Quinn salì e si sedette in fondo con gli occhi chiusi, a guardarsi dentro, sorpreso di trovarci sua madre, una madre il cui ricordo negli anni era sbiadito fino a ridursi quasi a niente. Passerei tutto il giorno ad ascoltarti, amore mio, gli sussurrava estasiata, mentre il padre russava dietro al giornale.

Aveva dita agili e veloci, Quinn, un orecchio sensibile all’armonia e un infallibile senso del ritmo. Avrà del talento, allora, gli aveva detto Ona quando si erano conosciuti; e ne aveva, infatti. Ma anche i talentuosi prima o poi si scontrano con i propri limiti, ed era quello che gli stava capitando adesso, uno scontro di proporzioni sismiche a cui fu tentato di ribellarsi. Sapeva improvvisare nello stile di un centinaio di chitarristi, ma la creatività musicale, quella capace di incantare gli ascoltatori – Che note, ragazzi! – non faceva parte delle sue doti.

Checché ne pensasse Ona, non era un sognatore. Era un combattente. Un combattente che amava la musica. Tutta quanta: le sublimi creazioni dei suoi idoli, sì, ma anche le canzoni popolari di due soli accordi, i medley delle band di capelloni anni Ottanta, il Delta blues, la Jesus music, il jazz manouche, l’orchestra jazz, il classic rock, la Macarena, il ballo del qua qua, l’Electric slide. La amava di un affetto soffocante, avido, irrazionale, come se la musica – la musica tutta, bella o brutta – fosse un bambino affidato alle sue cure.

«Tutto bene, amico?» lo raggiunse una voce dalla parte opposta del corridoio. Un uomo con una camicia da bowling arancione, un passeggero abituale. Occhietti amichevoli da coniglio e una pioggia di pustole lungo il collo. Dietro di lui sedeva un altro passeggero abituale, un disgraziato mezzo deforme che tremava tutto. Davanti, un ragazzino annidato nelle squallide pieghe del proprio grasso. Un carico di pellegrini su una strada che non avevano scelto loro perché un tempo animati dalla convinzione di meritare molto di più.

Aveva suonato un centinaio di canzoni, anzi, cinquecento, mille canzoni, mentre c’era chi si mordeva il labbro e chi muoveva la testa, ricordando un luogo che aveva abitato nel passato, una persona che aveva amato anni prima, una versione di se stesso che aveva dimenticato. Rock of Ages, I Am a Rock e Rock Around the Clock. The Long and Winding Road, Roadhouse Blues e Blue Suede Shoes. Born to Be Wild, Wild Thing e Thing Called Love. Era davvero così sciocco aver amato tutto quanto? L’acustica sporca e gli smoking con l’alone di sudore sotto l’ascella, le spose con i piedi piatti e i loro mariti corpulenti, le nonnine e gli zii acquisiti che battevano la pista da ballo? Le folle sfinite dal sole alle fiere di campagna, i ragazzi ai balli della scuola con i loro luccicanti abiti da due soldi, gli schiavi del lavoro che applaudivano a ritmo, i beoni che giravano i pub e le loro risate a strascico?

Amava il fatto che loro amassero lui. Amava il vuoto che riempiva.

Era stato il ragazzino a capirlo. Il ragazzino che, elenco dopo elenco, riempiva il proprio, di vuoto, quello che il padre gli aveva lasciato.

Nel petto qualcosa gli si allentò, come una valanga di sassi, così improvvisa che gli venne da piegarsi in due per trattenerla.

Tra tutti, proprio il ragazzino.

Il ragazzino, che ascoltava la musica con un misto di dolore e di sconcerto. Il ragazzino che, risoluto e attento, con i suoi ritagli di giornale e le sue gocce di colla perfette aveva dato forma alla storia di suo padre, preservandola e curandola, pagina dopo pagina.