19
LA voce di Ona perforò il cellulare gracchiante di Quinn, lacerando la coltre di sonno dalla quale lo aveva destato. Le sette del mattino: l’ora dei cacciatori e degli osservatori di uccelli.
«C’è una piccola emergenza», gli annunciò.
Quinn si rizzò a sedere. «Che emergenza?»
«Niente di che», rispose lei. «Ma potresti venire subito, per favore?» La voce era la stessa di sempre, ferma e padrona di sé, e Quinn pensò a un rubinetto guasto o a un uccello finito contro il vetro di una finestra.
Aveva fatto il proprio lavoro, adempiuto ai propri doveri, assolto i propri obblighi, e anche di più. Ma forse era stato impossibile fin dall’inizio portare a compimento la promessa di un ragazzino incompiuto. Sette visite caritatevoli – che cosa c’era di più facile? – lo avevano in qualche modo trascinato in una giungla frondosa di intricati rapporti umani.
«Non so chi altro chiamare», continuò Ona in un tono completamente diverso, al che Quinn riattaccò e si infilò una camicia addosso.
La trovò sulla veranda, intenta a ispezionare la porta.
«Ieri notte sono venuti i ladri», gli raccontò. «E d’ora in poi voglio che la casa sia a prova di effrazione.»
Aveva un aspetto minuto e quasi trasparente, come una tartarughina in un documentario sulla natura, e Quinn dovette resistere all’impulso di prenderla in braccio e trasportarla verso lidi più sicuri. Con quella donna che quasi gli svaniva davanti, ricostruì i particolari dell’evento come da un vecchio telegrafo, punti e linee raccolti a formare una storia. E quando Ona trottò in bagno – I vicini mi hanno fatto ingollare tè tutta la notte –, chiamò Belle con il telefono a disco che pesava quasi cinque chili.
«L’ho appena saputo», commentò lei. «Ted l’ha sentito alla radio. Sta bene?»
«Dice di sì.»
«Falle tanti auguri da parte mia, mi raccomando», replicò Belle.
«Va bene, però stavo pensando che questa faccenda mi sembra più una cosa da donne.» Avrebbe dovuto sostituirle le serrature, sapeva benissimo che facevano schifo e avrebbe dovuto cambiargliele.
«Ted le sta portando delle lasagne.»
«Va bene, però pensavo che magari potevi venirci tu, qui. Mi pare che voi due vi intendiate alla grande. Si comporta come se non fosse successo niente, ma è così pallida che sembra invisibile.»
«Oggi torno al lavoro, Quinn», dichiarò Belle, e si fermò un istante prima di continuare. «Questa volta non sarò io ad accollarmi le tue responsabilità.»
«Non è quello che ti ho chiesto.»
«Invece sì.»
«E poi Ona non è una mia responsabilità. Non dipende mica da me.»
«E da chi, allora?»
Quinn lanciò un’occhiata all’auto della polizia parcheggiata davanti al cancello. L’erba era da tagliare, il ragazzino nuovo avrebbe avuto da sudare parecchio. «La casa è controllata a vista dai poliziotti», si giustificò. «Sola non è.»
«Devo andare, Quinn. Non posso arrivare tardi il giorno del mio rientro al lavoro.»
«In bocca al lupo», le augurò. «Ce la puoi fare, Belle.»
Un’altra pausa. «Anche tu.»
Quinn controllò tutte le finestre, cambiò la lampadina della veranda, sostituì le serrature e, già che c’era, mise delle pile nuove nei rilevatori di fumo, comprando tutto di tasca propria. Quando, nel tardo pomeriggio, rientrò dal negozio di ferramenta con in mano un cartello con la scritta ROTTWEILER, trovò Ona in cucina in compagnia di Ted Ledbetter. Stavano mangiando le lasagne su piatti che non aveva mai visto, con degli uccellini d’oro in filigrana.
«Il signor Ledbetter mi ha fatto una sorpresa squisita», lo informò lei.
Come fosse riuscito quell’uomo a insegnare tutto il giorno matematica alla scuola estiva, cucinare le lasagne e recapitarle di persona era un altro dei suoi molti misteri. Quinn mostrò a Ona il cartello minaccioso. «Accidenti», commentò. «Questo dovrebbe funzionare.»
«Le serrature sono perfette», esclamò Ted. «Un lavoro super.»
«Quinn se la cava bene con il fai-da-te», ammise Ona. «Da un musicista non te lo aspetteresti.»
Quinn doveva la propria manualità da uomo di casa agli insegnamenti di suo padre. Vostra madre vi ha viziato da far schifo. Per quanto brutali e avvelenate dall’insofferenza, le lezioni di quell’uomo gli avevano insegnato comunque qualcosa.
«Stasera ho un’esibizione, Ona», le annunciò poi. «Pensi di cavartela?»
«Ho parlato con l’agente di turno», intervenne Ted. «Sorveglieranno la casa per qualche giorno.»
Quinn non era mai stato granché capace di gestire due sentimenti alla volta. Sapere che sia il poliziotto sia Ted avrebbero badato all’amica gli diede un certo sollievo, ma quando lei lo seguì fuori della cucina fermandolo sulla porta d’ingresso, si sentì rinfrancato in tutt’altro modo. «Ci ha messo gli spinaci, nelle lasagne», gli sussurrò. «Se ce l’avessi davvero, un rottweiler, le farei mangiare a lui, sotto il tavolo.»
«Bon appétit», la canzonò, e lei si mise a ridere.
«Cavoli, ho perso l’autobus», esclamò Quinn dopo aver controllato l’orologio.
«Come diamine fa un musicista come te, con tutti questi appuntamenti assurdi, a fare affidamento sugli autobus per spostarsi?»
«Prima o poi mi comprerò una macchina, ma per il momento sono in modalità risparmio.»
«Io ho preso l’autobus per mesi, dopo che mi avevano bocciato all’esame di guida. Ma non era di mio gradimento. Troppi buoni a nulla.»
«Io sono un buono a nulla, infatti.»
«Invece sei tutto l’opposto, Quinn. E puoi prendere in prestito la mia, di auto, è questo che intendo dire. È una buona macchina, l’hai detto anche tu.»
Se avesse preso quell’auto, sarebbe dovuto tornare a restituirla.
«Tanto per un’altra settimana non posso guidarla», insistette lei. «La polizia mi controlla.» E incrociò le braccia scheletriche. «Tu mi hai portato nel Vermont, Quinn. È il minimo che possa fare per sdebitarmi.» Prima ancora di ricevere una risposta, aggiunse: «Ti prego, Quinn. Prendila».
Così lui accettò, promettendole di riportarla la settimana successiva, dopo il turno di lavoro alla GUMS. Ona gli infilò le chiavi nel palmo e poi vi appoggiò sopra la mano, come se gli avesse appena consegnato le chiavi del suo cuore.
Una settimana dopo, la polizia acciuffò i ladri, tre tossici senza speranza sorpresi a rubare in casa di qualcun altro. «Dritti in prigione», commentò Ona aprendo la sua serratura nuova e lucente. «Quell’investigatrice è una garanzia.»
Quinn trovò l’amica un po’ provata dalla situazione, ma lei si dichiarò in perfetta forma e disse che non aveva bisogno di niente. «Mi hanno fregato cinque dollari e rotto un vaso», gli ricordò. «Non sono mica venuti i russi a fare razzia.»
L’unica traccia residua di choc nella sua voce era un leggero rafforzamento delle consonanti, una reminiscenza dell’accento che aveva avvertito in lei il giorno in cui si erano conosciuti. Per il resto appariva imperturbabile, dritta in piedi in quella cucina rassettata, con il tè in infusione nella teiera poggiata sulla credenza.
«La tua signora che vende le case mi ha appena fermato per strada», le raccontò. «Ci tiene a farti sapere che sta pregando per te. Stanno tutti chiedendo a Dio di sollevare la tua esistenza da – testuali parole – ‘travagli e tribolazioni’.»
«Be’, ho trovato un orecchino che credevo di aver perso», replicò lei. Indossava proprio il paio di orecchini appena ricomposto, due piccole gocce color verde ghiaccio che le facevano risaltare gli occhi. «Dev’essere schizzato fuori quando i ladri hanno sbatacchiato il cuscino della poltrona.»
Nonostante la spavalderia dell’amica, o forse proprio per quella sua baldanza, Quinn si sentì cedere le gambe. Era la stessa sensazione che aveva provato da ragazzino quando il fratello, con la voce ridotta a un gemito, gli aveva comunicato la notizia che il padre aveva appena telefonato da «quel posto» e che la madre era morta, lacerando l’aria di quella giornata e abbandonando Quinn a se stesso nella sua stanza, dove fino a un momento prima era rimasto di fronte allo specchio, a provare le varie pose da chitarrista. Pur essendo nell’aria da mesi, la notizia lo aveva letteralmente abbattuto: un quattordicenne alto più di un metro e ottanta che piombava a terra come un’oca raggiunta in volo da un colpo di fucile.
Era venuto a riportarle la macchina. E a chiudere con garbo una porta. Eppure non riusciva a ritrovare il proprio equilibrio. L’immagine di quegli stronzi in casa di Ona – che mettevano le loro sudicie mani sulla sua roba, su di lei – lo colmava di una rabbia vischiosa. «Ti sarai spaventata, Ona», le disse. «Hai avuto paura?»
«Vorrei riavere il vaso di Louise. Tutto qui.» E aprì uno sportello. «Se hai fame, ho la cena pronta.» Erano le quattro e mezzo di pomeriggio. Ona fece scivolare sul tavolo due piatti, scompagnati – notò Quinn – e tutti consumati. «Puoi anche tenerti la macchina, per il momento.»
Ma lui non riusciva a pensare, non fintanto che l’amica lo guardava in quel modo.
«I poliziotti sono stati gentilissimi», aggiunse lei. «Non voglio metterli nella scomoda posizione di dovermi chiedere patente e libretto. Mi sa che me ne starò buona per un altro paio di settimane.» In quel momento piegò l’indice, ricordandosi di qualcosa. «Guarda un po’ qui.» E, aperto un microonde vecchio modello provvisto di manopola, gli mostrò una pila di lettere. «Mi arrivano degli assegni da gente che non conosco.»
Quinn diede una scorsa a una dozzina di buste di diverso tipo, alcune con dei marchi aziendali, altre più piccole, infiorettate e scritte a mano. Gli assegni avevano importi variabili, anche se la media si aggirava sui cinquanta dollari.
«Porca vacca», borbottò Quinn. «In tutto quant’è?»
«Cinquecento e più. Mi stanno facendo la carità?»
«Almeno non si sono accampati in giardino con le candele.» Dopo la morte del ragazzino e un folle articolo domenicale sulla sindrome del QT lungo, Belle aveva rispedito al mittente più di trenta assegni corredandoli di un’unica, gelida frase seguita dalla sua firma, entrambe scritte a macchina.
«È perché sono vecchia, solo per questo.» Ona diede un’occhiata a una delle lettere. «Mi ci vorrà una settimana buona per scrivere i biglietti di ringraziamento.»
«Hai intenzione di tenerti i soldi?»
«Devo rifare il tetto», rispose lei mentre esaminava uno degli assegni. «Insomma, avevano soltanto la mia parola, ma mi hanno creduto lo stesso. Quando ho dichiarato la mia età, intendo dire. Hanno preso per buone le mie parole.» E alzò lo sguardo. «Ti devo far vedere un’altra cosa.» Infilò una mano nella tasca del maglione e gli porse un «documento».
Quinn lo osservò esclamando: «Ti hanno dato il foglio rosa?»
«Una delle signore della chiesa mi ha offerto un passaggio fino alla Motorizzazione civile. Non sai quanto mi è costato chiederglielo, però ho passato la visita oculistica in quattro secondi. E nel test scritto ho azzeccato il novanta per cento dei quiz. Ci tengo a precisare che ho studiato come una pazza. Ho compiuto già due terzi del cammino per tornare alla legalità», dichiarò, rimettendosi in tasca il foglio rosa. «Che ne diresti di darmi un paio di lezioni di guida in cambio dell’uso della macchina?»
Sarebbe stato così facile restituirgliela, lasciar lì quella maledetta auto e uscire di corsa da quella casa, infestata com’era dalla presenza di suo figlio, dal peso dei suoi doveri e dai suoi enormi e inutili rimpianti. Sei settimane prima, anche cinque, l’avrebbe fatto, sarebbe schizzato via come un uomo sparato da un cannone. Ma questo era stato prima che Ona lo ritenesse un galantuomo e gli facesse desiderare di esserlo veramente. «Non c’è momento migliore di adesso», replicò allora, e la accompagnò fuori.
«È il parcheggio parallelo a mandarmi in crisi», confessò lei mentre, con le mani sui fianchi, guardava in cagnesco l’innocente Reliant. «Non c’è un solo documento in tutto l’emisfero occidentale capace di parcheggiare quell’auto al posto mio.»
Quinn dispose a mo’ di birilli i bidoni della spazzatura di Ona che, essendo di alluminio, fecero un gran baccano quando furono colpiti, e ripetutamente. Qualche vicino uscì a vedere, e fra questi ci fu anche Shirley Clayton, che gridò: «Tutto bene, laggiù?» Di rosa aveva persino la voce.
«Contribuisco a migliorare la sicurezza stradale, Shirley», gridò lui per tutta risposta.
A lezione conclusa, Quinn seguì Ona in cucina, dove lei tirò fuori dal frigorifero un vassoio di vetro. «Avanzi, mi dispiace. Ne restano giusto due porzioni.»
«Hai intenzione di propinarmi le lasagne di Ted?»
«Odio buttare il cibo.»
«Ma sono di una settimana fa», protestò lui, «e oltretutto ci ha messo pure gli spinaci.»
«Un po’ di ferro ti farebbe bene, senza offesa. Hai una pessima cera, Quinn. E peggiori ogni volta che ti vedo.»
«Almeno potresti degnarti di offrirmele in uno di quei tuoi piatti raffinati», replicò lui.
Ona sorrise con i suoi denti lunghi e squadrati e Quinn si rese conto che avrebbe dovuto aspettare ancora un po’, staccarsi da lei più dolcemente, perché era fragile e sola, e molto meno coriacea di quanto fosse convinta di essere. Passava da lei più o meno ogni due giorni, la portava in banca, a fare la spesa o in biblioteca, spesso nei brevi intervalli di tempo fra un turno alla GUMS e un’esibizione serale. In una di queste occasioni, Ona notò la sua attrezzatura sul sedile posteriore dell’auto e gli chiese di portare dentro la chitarra; una volta in casa, Quinn rispolverò gli accordi di Till the End of Time, un classico di Perry Como che aveva imparato anni prima per un matrimonio. «È tutto il giorno che ce l’ho in testa», gli disse Ona, e dopo che lui ebbe abbassato la canzone di due toni, la cantò dall’inizio alla fine con quella sua voce roca e il viso paonazzo.
Nel frattempo, nei suoi andirivieni da casa dell’amica, Quinn passava davanti al cartello di Shirley Clayton con la scritta VENDESI e alle sue siepi tagliate al millimetro con la consapevolezza di apparire, agli occhi dei vicini, come il badante dell’anziana donna. E quando la trovava inevitabilmente ad aspettarlo sulla porta di casa, o in fondo al vialetto d’ingresso, si sentiva più che mai ciò che dava l’impressione di essere.
Ad agosto, ormai, lei gli cucinava i pasti regolarmente, vecchie ricette tradizionali servite sui piatti buoni: ricette consolatorie, aromatiche e ben fatte, con tuberi e panna fra gli ingredienti. «Sei diventato magro come uno stecco», gli disse un giorno, e lui si sentì tutto il contrario di un badante. Si sentì il bambino della situazione.
Poi arrivò il giorno in cui Belle lo convocò a casa sua, e lì lui, come uno scout di fronte al suo capo, fece la lista completa delle proprie buone azioni, snocciolandole una dietro l’altra a mo’ di prove.
«Mi fa piacere che stia bene», commentò l’ex moglie. «Ed è una bella cosa che tu ti prenda cura di lei.» Aveva la fede al dito, una fascia d’oro bianco con un luccichio di brillanti. Quinn si guardò intorno con lo sguardo inquisitorio, chiedendosi dove fosse Ted, ma poi sentì di aver perso il diritto a una domanda del genere.
«Come va il lavoro?»
«Un’altra falsa partenza. Sono tutti di una pazienza incredibile», spiegò Belle.
Strane assenze – un altro tavolo sparito nel nulla, così come una lampada da terra – conferivano alla stanza un senso di deperimento, ma Quinn non si raccapezzava del perché alcuni oggetti fossero stati conservati e altri rimossi. Belle teneva in mano una fotografia incorniciata del ragazzino, la stessa che Quinn conservava nel proprio appartamento.
«Sarebbe fiero di te», gli disse. «Provava un affetto così smodato per quella donna.»
«Rispetto agli accordi iniziali, le cose sono andate un po’ oltre», confessò Quinn. «E io non so come, insomma, come mettere la parola fine.»
Belle lo guardò per un lungo istante carico di significato. «Dagli accordi iniziali», replicò, «è nata un’amicizia, e alle amicizie non si mette la parola fine.» Poggiò la fotografia su un orrendo tavolinetto, un cimelio del loro primo matrimonio ricevuto in dono da una delle sue zie. «Ho dato un’altra occhiata fra le sue cose», continuò aprendo una scatola di stoffa trapuntata, di quelle che compaiono nelle fiabe. «E ho scelto qualche ricordo. Poche cose. Per pochi eletti.»
Sollevò il coperchio della scatola senza svelarne il contenuto, tenendola stretta, come la bambina che fa di tutto per impedire che gli altri copino dal suo foglio all’esame. E Quinn si sentì proprio sotto esame, con i nervi a fior di pelle. Almeno era fra i prescelti. E chissà quale ricordo era toccato ad Amy.
Dal lezioso cofanetto la donna estrasse un pacco di fogli perfettamente spillati fra loro, sui quali il ragazzino aveva incollato programmazioni di spettacoli ritagliate da giornali e manifesti, un elenco di date e luoghi che ripercorreva tre anni della frenetica vita lavorativa del padre. Quinn sfogliò le pagine assemblate con precisione – centinaia di ritagli disposti in maniera sobria e ordinata – meravigliandosi di essere stato seguito così assiduamente.
«Quando lo ha fatto, tutto questo lavoro?»
«Non ne ho idea», rispose Belle, «pensavo non avesse il minimo interesse per la tua attività.»
Quinn si sentì avvampare nel vedersi sfilare davanti agli occhi bar e club, mense scolastiche e auditorium, ristoranti e sale per ricevimenti, palcoscenici di festival e piazze cittadine. Chissà se il ragazzino aveva contato tutto, il nome delle band, i luoghi, quella sfilza di date? C’erano tante di quelle informazioni, ogni sua esibizione pescata dal mucchio, lisciata con le mani, attaccata al proprio posto, santificata con un bizzarro cerimoniale e forse anche imparata a memoria.
Ridotta a un libro confezionato a mano, la vita di Quinn sarebbe dovuta sembrare poca cosa. E invece era accaduto il contrario. Il ragazzino l’aveva fatta sembrare grande. E produttiva. E degna di qualcosa. Tutte quelle pagine, così bianche, linde e realizzate con cura; centinaia di annunci, uno di seguito all’altro, scritti in caratteri tipografici diversi. Gli fece venire in mente la sua collezione di francobolli di quand’era bambino, piena di angoli arricciati e sbaffi di colla.
Posò i fogli, la bocca aperta e ansimante.
«C’è anche questo», gli disse Belle tirando fuori un cd, uno dei tanti che il ragazzino impilava in colonne altissime.
«Che cosa c’è dentro?»
«Niente», rispose lei. «Sono tutti vuoti.»
Era freddo e leggero, come la mano del ragazzino stretta nella sua.
«Hai portato la musica nella sua vita», continuò Belle, «e ho pensato che questo potesse ricordartelo.» La generosità di quella donna – la sua volontà di trovare il buono in ogni cosa – lo colpì come un muro d’acqua.
Poi chiuse la scatola e lo accompagnò alla porta. Quando vide che cercava di lasciarle l’assegno, gli bloccò la mano. «Non penserai che possa servire a qualcosa, vero?»
Quinn scosse la testa. «Serve a me.»
«Era proprio quello che intendevo, Quinn. Mi riferivo a te. Non penserai che possa servirti a qualcosa?» E gli chiuse il foglio tra le dita facendo scricchiolare la carta. «Basta così», dichiarò. Poi gli appoggiò le mani sulle spalle e lo baciò sulla guancia. «Prima o poi», sussurrò, «dovrai pur provare qualcosa.» Con quel cd gli offriva un regalo d’addio, con i ritagli di giornale una consolazione. Ormai lo stava congedando per sempre. La conosceva dolorosamente bene.
Il giorno successivo, Quinn impartì a Ona un’altra lezione intensiva sul parcheggio parallelo. E lei colpì un solo bidone a ogni tentativo. Per festeggiare i propri miglioramenti, lo invitò a entrare per una fetta di torta.
«Wow», esclamò lui adocchiando una pastosa torta rossastra, decorata con un festone di boccioli di nasturzio raccolti nel giardino di fronte alla casa.
«Non ho più notizie della tua signora», gli disse Ona mentre disponeva sul tavolo i piatti buoni. «Come sta?»
«È sposata.»
«Speravo che riuscisse a rintracciare qualche documento», continuò Ona. «Secondo te se n’è dimenticata?»
«In realtà non è ancora rientrata al lavoro.»
«Ah.» Ona scosse la testa. «Poverina.»
«Spero che duri», dichiarò Quinn servendosi una fetta di torta. «Mi riferisco al suo matrimonio, non alla torta.» Voleva sembrare convinto di ciò che diceva. E lo era davvero.
«Ma certo che durerà», commentò lei. «Quel Ledbetter è un combattente.»
«Anch’io lo sono», ribatté Quinn.
Ona lo guardò interdetta. «Tu sei un sognatore.» E scambiò il proprio piatto con il suo. «Prendi questa, è più grossa.»
«È buona, Ona. Che ci hai messo dentro?»
«È un segreto.»
Quinn pensò alla salsa di mele, un sostituto del burro negli anni della Depressione. «I fiori sono commestibili?»
«Ma certo! Altrimenti perché li avrei messi sopra una torta?»
La guardò, quella sua amica minuta come uno scoiattolino. «E tu cosa sei?» le domandò. «Combattente o sognatrice?»
«Combattente», rispose lei. «Ma sto cambiando. Figurati un po’, alla mia età.» E diede un garbato morso alla torta. «Vuoi la macchina per un’altra settimana?»
Lui esitò un istante. Poi si decise a rispondere. «Se non ti dispiace.»
«Non mi dispiace.»
Non aveva amato abbastanza suo figlio. E quella consapevolezza gli pesava sul cuore come un tumore maligno. Voleva credere che il ragazzino, in un futuro ormai perduto e irrealizzabile, potesse perdonarlo, prendere quella loro storia tutta sbagliata e trovarvi una logica, plasmarla attraverso le voci di un elenco. E che quel momento – lui che mangiava la torta con la signorina Ona Vitkus – potesse entrare a far parte di quell’elenco.
«Ona», azzardò, «com’era?»
«Chi?»
Quinn non disse nulla.
«Non l’ho conosciuto abbastanza a fondo», dichiarò lei. «Però posso dirti com’ero io in sua compagnia.»
Quinn restò in attesa. «Allora?»
«Una sognatrice», rispose lei, e i suoi occhi luccicarono sotto le palpebre cadenti.