20
LA vita di Quinn consisteva in questo, ormai: riempire l’agenda, custodire i soldi. Il denaro aveva assunto una valenza quasi biblica, era diventato simbolo corazzato di rettitudine, e al confronto qualunque altra sua scelta risultava penetrabile. Quinn pagava, per dirla con le parole della madre cattolica, «senza vanteria». Se Belle rifiutava i soldi, lui li lasciava a marcire in un conto separato, a mo’ di lievitante memento di quanto fosse stato disastroso come padre. Un assegno di mantenimento per un figlio che non c’era.
Era una serata fresca di fine estate, c’erano miriadi di stelle. Parcheggiò la Reliant sul retro del Jailbreak, dove gli amici arrivarono in massa per l’esibizione settimanale. «Hai portato una muta di corde?» domandò a Gary.
E quello schizzò fuori dalla Jaguar tutto contento. «Affermativo.»
Quinn tirò giù una cassa acustica dal bagagliaio del SUV di Rennie chiedendosi, senza ragione apparente, quanto ancora avrebbe resistito la sua schiena. Certe volte la musica mette a dura prova il fisico. Si immerse con i ragazzi nell’aria calda e viziata del Jailbreak, ma sul palco un’altra band si stava preparando al loro posto.
«Che diavolo succede?» domandò Alex.
ROCK STEADY, si leggeva sull’insegna, in vernice rossa degna di un film horror. Due bei ragazzi in età da college passavano un cavo da una parte all’altra della pedana mentre un giovanissimo percussionista armeggiava con la batteria. L’unica nota stonata era un rottame di mezza età in berretto dei Sox che accordava una Strat d’epoca.
I Benders lo fissarono come se fossero una cosa sola. Quinn sospirò. «Vado a parlare con Sal.»
«Vuoi che vada io?» chiese Rennie. «Sembra che ti sia passato sopra un camion, credimi.»
«Fa’ pure.» Quella sera Quinn non aveva l’energia per affrontare Sal, l’irascibile e pungente proprietario del Jailbreak.
«Vengo con te, Ren», disse Gary, posando a terra una custodia. «Tieni d’occhio la roba.»
Quinn annuì, nauseato dalla stanchezza, e si piazzò contro la parete di fondo accanto ad Alex, la schiena perforata dalle centinaia di puntine che avevano sostenuto i tanti poster poi strappati.
«Guarda la Strat di quel tipo», gli fece Alex. «Anni Cinquanta, ci scommetto quello che vuoi. Chissà dove l’ha presa.» E un attimo dopo aggiunse: «Chissà se la vende».
Quinn chiuse gli occhi, cercando di ignorare la musica di sottofondo – i pirotecnici gemiti a tre ottave di Mariah Carey – e intento a fare il calcolo di tutta l’attrezzatura che aveva comprato e venduto negli anni. La cifra assunse tinte eccessive che avevano il tono di un rimprovero.
Il locale era mezzo vuoto, ma nel giro di un’ora si sarebbe riempito di gente animata dalla voglia di ballare. Alex indossava la sua solita camicia hawaiana, a Gary piacevano le magliette con i loghi, mentre Rennie preferiva le polo nere con effetto snellente. Da ragazzi avevano trascorso del tempo con lui nell’appartamento di Sheridan Street in cui viveva senza la madre, a mangiare i dolcetti confezionati che comprava il padre e a buttar giù le prime scalette della band. Si erano battuti il pugno l’un l’altro per scaramanzia e per anni non avevano fatto che parlare di attrezzatura da concerto, ore intere a valutare i pro e contro del modificare i pedali o del reperire le famose valvole termoioniche russe, come se le quaranta canzoni polverose che costituivano il repertorio dei Benders richiedessero una regolare iniezione di tecnologia d’avanguardia.
Loro avevano conosciuto sua madre e le avevano voluto bene. Solo per questo era rimasto.
«Hai visto il giornale di oggi?» domandò Alex. «L’articolone sulla band per cui suoni a volte? Tutto sentimentalismi su questi ragazzini della porta accanto, con tanto di foto a colori di loro con la mammina nello studio di registrazione di casa, un successo planetario.» Poi rise. «Che sventola, la mammina.» Pausa. «Mi stai ascoltando?»
«Sì, ti ascolto.»
«Okay. Dice che hanno rifiutato un fior di contratto con la Warner Bros. Records e la sventola si è imbufalita…»
Quinn si risvegliò tutto d’un colpo. «Hanno dato il due di picche alla Warner?»
«Già. Il cantante principale – quanti anni ha, dodici? – non fa che blaterare dell’opera di Dio e di altre stronzate del genere, come se la Warner incarnasse il commercio più empio che esista, e dice che aspettano l’offerta di una casa discografica multimilionaria che abbia anche a cuore il Signore. Ci crederesti mai?»
«Sì, se proprio vuoi saperlo.» Quinn avvertì un misto di orgoglio e di invidia.
«Ma non è questa la notizia. Non l’hai letto?»
«Avevo un matrimonio a Bangor.»
«La notizia è che rifiutano la corte serrata della Warner e poi, indovina un po’, si scopre che esiste davvero una casa discografica multimilionaria che ha anche a cuore il Signore. Un bel colpo di fortuna, non credi?» E ridacchiò amaramente. «Che culo, mannaggia a loro.»
«E con chi firmerebbero, quindi?»
«Con la Solomon. Il pesce più grosso dello stagno divino. I tuoi coristi hanno accettato l’offerta.» Alex guardò l’orologio, che doveva essergli costato seicento dollari. «Be’, non tutti, veramente. Il primo chitarrista ha lasciato il gruppo. Si è convinto di essere ateo.»
La notizia gli atterrò come un sasso nello stomaco.
«Fossi in te», continuò Alex, «mi farei battezzare. Riposa l’anima nel seno di Abramo prima che quella barca di soldi prenda il largo senza di te. Oh, aspetta.» E bussò sulla parete bucherellata. «Nel caso non potremmo più fare… questo. Per un po’ potrebbe sostituirti Colin, magari.»
Colin era il nipote diciannovenne di Alex, uno studente di geologia che suonava la chitarra come una ragazzina.
Gli intrusi avevano cominciato il sound check. «Se davvero ci avessimo dato dentro…» attaccò Alex. Era l’argomento che riesumavano ogni due o tre anni. Ma solo per il gusto di parlare. Che cosa desideravano veramente? Nient’altro che vivere l’altalenante vita di Quinn solo di riflesso, una volta a settimana, senza smettere di rimpinguare il fondo pensione.
«Vai a vedere perché ci mettono tanto», gli disse Quinn.
Alex capì l’antifona. «Tu tieni d’occhio la roba.»
Quinn annuì.
«La guardi o no?»
«Sì che la guardo, dai.»
Alex si allontanò e si unì agli altri all’estremità opposta del pub, dove aveva raggiunto il culmine la discussione tra Rennie, in Nike e jeans schiacciaculo nuovi di zecca, e Sal che puntava ossessivamente il dito sul programma. Spazientito, Quinn sbuffò e si decise a intervenire, ma si ritrovò tra i piedi il tardone della band di usurpatori, con il viso bianco, lattiginoso e slavato quanto una pappa d’avena.
«Tu sei Quinn Porter», esordì il tizio.
Quinn si imbatteva di continuo in ex compagni di band che prima o poi spuntavano da chissà dove, spesso irriconoscibili, con venti chili in più addosso, un diploma in qualcosa di concreto e una nuova immagine di sé plasmata in base alle aspettative mancate.
«Come, scusa?» replicò Quinn.
La faccia dell’uomo avvampò e poi parve disintegrarsi al rallentatore: le guance ridotte a gelatina tremolante, la bocca piccola che si spalancava, gli occhi terrorizzati, inquieti, appannati di vene.
«Ehi, va tutto bene?»
Lo sconosciuto parlò di nuovo, o almeno ci provò, ma Quinn non riuscì a capirlo. Poi scoprì che quel viso ne nascondeva un altro.
«Juke?…»
L’uomo annuì più volte, agitatissimo, la voce impigliata chissà dove in fondo alla laringe. Quinn impiegò qualche altro istante prima di rendersi conto che la persona davanti a lui – Juke Blakely, che per undici anni aveva dimorato nella storia di David Crosby e adesso aveva un ruolo in tutt’altra storia – stava semplicemente piangendo. «Se vuoi picchiarmi», ansimò lui, «fallo. Se vuoi farmi a pezzi con le tue stesse mani, prego, sono tutto tuo.» La bocca zigzagava per lo sforzo di controllare la voce.
«Oh. Cristo santo, Juke.»
«Volevo dirvi», parlava come se avesse appena corso a perdifiato, «a te e a tua moglie, volevo dirvi…»
«Non dire niente. Davvero, Juke. Non farlo.»
Il corpo floscio dell’uomo scattò prima in avanti e poi indietro, un passo singhiozzato, il prodotto di un pianto incontrollabile che gli contorceva il viso fino a renderne i tratti dissonanti: occhi strizzati, bocca deforme, fronte solcata di rughe, completamente rosso dalla disperazione. Sul palco, i suoi compagni se ne accorsero e interruppero a metà l’interminabile messa a punto. Uno di loro parlò nel microfono: «Uno, due, prova. Tutto okay, Juke? Prova, uno». Diversi clienti cominciarono a fissarlo apertamente.
«Tranquillo, amico», lo rassicurò Quinn.
Forse fu la parola «amico» a produrre un’improvvisa accentuazione del pianto, tale da suggerire l’eventualità di dover chiamare un’ambulanza. Quinn lo portò fuori dal locale, sulla sudicia pedana di cemento che fungeva da rampa di servizio.
«Siediti, va’», gli disse, aiutandolo. «Cristo Santo, amico. Datti una calmata.»
«Mi hanno detto di non parlarvi», fece lui, le guance tese percorse da un fremito. «Non parlare con la… famiglia, come fossi una macchina da… accendere e spegnere… a loro piacimento.» Aveva un plettro appicciato ai palmi sudati.
Quinn si chinò su di lui. «Respira.»
«La causa mi stava uccidendo», continuò l’altro, apparentemente rivolto a se stesso, adesso, interrompendosi spesso per risucchiare altra aria. «Volevo dirvi quanto mi dispiace… ma loro continuavano a ripetere non parlare… con la famiglia non… scusarti non… chiedere perdono.» Quinn cominciò a sentirsi a corto di aria anche lui. «Ho speso i miei… risparmi per pagare gli avvocati e d’accordo… sai… d’accordo, gli errori si pagano.»
Juke scosse la testa, il naso cereo lustro di sudore, i suoi respiri profondi che racchiudevano via via sempre più parole. Si asciugò le mani sui pantaloni e il plettro cadde a terra. «Avevo otto pazienti in attesa e un sacco di cartelle da riempire, non sapevo dove sbattere la testa e loro mi hanno avvisato non chiedere perdono ma adesso posso… farlo, per quel che vale, perdonami, ecco l’ho detto, te lo chiedo, santo Dio, e ti ringrazio per averli fatti smettere di infierire prima che perdessi tutto quanto.» E si fermò, ansimante.
Quinn gli si sedette accanto. «Non sono stato io.»
L’altro continuò a respirare lentamente per diversi minuti, finché non si riprese. Dopodiché abbassò la voce. «Mi rivedo scrivere quella ricetta. Non faccio che vedermela davanti. L’inchiostro sulla carta, la mia mano sulla penna. Mi hanno detto di non parlare né a te né a tua moglie. Ma adesso posso dirlo, oh, Gesù, mi dispiace mi dispiace mi dispiace.»
Quinn fissò lo squallido parcheggio sul retro del locale, deformato dalle vecchie gelate. La Jaguar di Gary sembrava un giocattolo, così parcheggiata tra la triste Reliant di Ona e il SUV di Rennie, a una cinquantina di centimetri da entrambe. Un paio di lampioni avvolgevano il tutto in una patina lucente. Quante ore della sua vita aveva trascorso nei parcheggi e nei vicoli, di guardia all’attrezzatura? Pensò al padre di Belle, il magnate dei giocattoli caduto in disgrazia, tutto preso da mandati e ordinanze per omicidio colposo.
«Non sono stato io a farli smettere», ripeté Quinn. E poi realizzò: doveva essere stata Belle. E brava la sua Belle. Provò un fugace barlume di gioia: al mondo era stata restituita un po’ di generosità.
Juke si passò il palmo delle mani sulle guance, disegnando lucenti scie di sudore. L’aria della notte cominciava a farsi sentire. Trasse un altro sospiro tremante: «È come se finora mi fossi aggirato per una foresta buia, senza mai smettere di gridare». Si asciugò la fronte con la manica di una maglia verde lime decorata con bombi di un verde normale. Sopra portava lo stesso gilet di pelle che aveva sfoggiato anni prima, anche se il torace irrobustito l’aveva ridotto alle dimensioni di un centrino.
«Era suo padre a manovrare i fili, Juke. Belle non è così. Non voglio che tu dia la colpa a lei.»
«Me lo sono meritato», commentò lui tirando su con il naso. «Mi sono meritato di toccare il fondo.»
«No di certo», replicò Quinn con sincerità. E in silenzio ringraziò il Dio in cui non credeva per gli incidenti mancati della sua vita, quelli di cui non avrebbe mai saputo niente perché non era mai stato lui il ragazzino su un milione.
La voce di Juke si abbassò di una mezza ottava. «Ho guardato tua moglie dritta in faccia e le ho detto: ‘Perché non proviamo questo?’» E finse di scrivere su un blocchetto. «Perché non proviamo questo?» E ricominciò a piangere, sommessamente, questa volta, mentre Quinn assisteva quasi incantato a quello spettacolo di disperazione.
«Non è più mia moglie», gli spiegò.
Juke si scoprì il viso. Aveva gli occhi semichiusi, tanto erano gonfi.
«Ha sposato un altro», continuò. «Un brav’uomo, a dire il vero.»
La band aveva attaccato a suonare: una cover in versione bianca di I Feel Good.
«I tuoi amici si chiederanno che fine hai fatto», proseguì Quinn.
«Tanto sono comunque un trio», replicò l’altro, asciugandosi il viso. «Quello biondo è il figlio di mia sorella; è stata lei a chiedergli di farmi suonare. L’hanno fatto per pietà e pensano che io non l’abbia capito.»
Uno dei lampioni crepitò. Restarono seduti un altro po’, ad ascoltare la fine di I Feel Good e l’inizio di Sweet Home Alabama. Il primo chitarrista non era male.
«Ricordi quella sera sull’isola?» disse Juke.
Quinn annuì. «Quel fenomeno di David Crosby.»
«Ci pensi mai?»
«A volte. Ogni tanto.»
«Io non l’ho mai raccontato a nessuno.» Juke aveva la voce intorpidita, come quella di un uomo a cui stia scendendo la febbre. «Nemmeno a mia moglie, perché per qualche tempo, dopo, ho sperato che David si mettesse in contatto con me e non volevo portarmi iella. Che idiota.» E fece una risatina smorta che indusse Quinn a provare una strana commiserazione per entrambi.
«Però eri bravo, Juke.»
«Non abbastanza.» E scosse la testa. «Che idiota.»
Proprio allora, dalla porta sul retro uscì come una furia Rennie, con le labbra serrate, un diavolo per capello e la borsa con l’attrezzatura in mano. «Che pezzo di merda», borbottò. E, rivolto a Quinn, la faccia in fiamme, gridò: «Ci ha dato il benservito». Spalancò il bagagliaio del SUV, cacciò dentro la borsa e poi si sedette sconsolato sul pianale di moquette. A quel punto comparvero Gary e Alex che, diretti verso Quinn, cambiarono di colpo traiettoria appena videro la faccia madida di Juke.
«Ascoltami», gli mormorò Quinn nell’orecchio. «Qualunque altro bambino – qualunque altro bambino al mondo, intendo – avrebbe preso quelle pillole e non avrebbe avuto problemi.»
«Oddio», sussurrò Juke, coprendosi di nuovo il viso con le mani. «Ho un figlio anch’io.»
Questa volta, il rimorso di Juke raggiunse Quinn in un luogo fino ad allora sepolto. E nonostante l’involontario scatto interiore con cui si ritrasse dal proprio dolore, quello lo raggiunse ugualmente, lacerandolo con un ricordo vivido e chiarificatore: non del ragazzino, ma piuttosto di una sua fotografia, quella che il bambino stesso gli aveva inviato nella stanza in affitto a Chicago. Il sorriso forzato, la divisa inamidata, lo sfondo finto dello steccato di una fattoria. Alle donne piaceva quella foto (È tuo?), erano convinte che il bambino fosse amato. L’aveva incorniciata e custodita, e alla fine se l’era riportata a casa.
«I tuoi compagni ti stanno cercando», disse Gary spuntando dal nulla e scrutando Juke. «Tutto a posto, amico?»
«Sì, sta bene», rispose Quinn. Poi si alzò e si chinò su di lui. «Su, forza. Adesso devi alzarti.»
Lo aiutò a rimettersi in piedi – pesava e tremava ancora – e lo rassicurò con una pacca sulla schiena. «Adesso torna dentro. È tutto a posto.»
«Tu dimmelo, però, dimmi che…»
«Ti perdono, d’accordo? Ti perdono.»
«Tua moglie…»
«Belle è capace di perdonare qualunque cosa a chiunque. È il suo pregio più grande. Va’ in pace, amico mio», replicò Quinn, fregando ai Resurrection Lane una delle loro benedizioni più frequenti. E guardò Juke avviarsi alla porta, dal cui antro buio tuonavano forti e ritmate le note basse.
Nel parcheggio c’erano Alex e Rennie; quest’ultimo, rabbioso, si avviò al furgone per caricare di nuovo tutta l’attrezzatura.
«Cosa cavolo è successo?» domandò Alex.
«Niente.»
«Sal dice che il suo barista ti ha lasciato un messaggio in segreteria.»
«Non ho più la linea fissa, ho solo una casella vocale.»
«Allora non ti funziona, perché dovevamo venire ieri sera, anche se Rennie non ce l’avrebbe fatta comunque perché aveva il saggio di Kayla. Si è trattato di un disguido, solo che Sal ha fatto lo stronzo e a Rennie ha dato di volta il cervello, così adesso Sal è incavolato nero.» Poi si guardò intorno e aggiunse: «Siamo tutti incavolati, a dir la verità».
«Sopravviverete», replicò Quinn.
«Se avessi avuto una segreteria telefonica come si deve…» continuò Alex, poi scosse la testa. «Quello che voglio dire, Quinn, è che noi contiamo su queste serate.»
«Vaffanculo, Alex», rispose Quinn. «Sal ci paga meno di quanto tu guadagni in una sola ora.»
«Ehi, calma», intervenne Gary.
Quinn lo guardò – quell’affidabile bonaccione di Gary, padrone di quattro cani – e lo vide sussurrare qualcosa nell’orecchio di Alex, che fece marcia indietro. Per tutta l’estate aveva pensato lui a ricordare agli altri membri della band della «perdita» subita dal loro compagno. Nell’elenco di pecche morali stilato da Amy, la voce «incline alla violenza» non compariva, ma in quel momento Quinn fu tentato di fargli sputare il fegato, a quel Gary. Suo amico da ormai trent’anni.
«Non intendevo che ci contiamo economicamente», spiegò Alex. «Mi riferivo… sai al divertimento.»
«Ho la faccia di uno che si sta divertendo?» Fissò i capelli freschi di barbiere dell’amico, il suo bell’orologio. Poi si voltò verso il SUV – nuovo di zecca e tirato a lucido –, dove Rennie era di nuovo seduto a rimuginare tra sé e gridò: «Mi senti, Ren? Ho la faccia di uno che si sta divertendo?»
E, avanzando a fatica come se camminasse nell’acqua, tornò dentro il locale, dove Sal attribuì tutto il casino al ragazzino nuovo che non aveva saputo organizzare le serate. «Nessun problema», spiegò a Quinn, «a parte l’atteggiamento di Rennie.» A Sal non piacevano i tipi che si atteggiavano, e a volte quei ricconi mostravano il caratteraccio di una cornacchia.
Quinn era d’accordo, certo, però si conoscevano da troppo tempo perché finisse tutto così, e se Sal si fosse immaginato quello che doveva sopportare Rennie per gestire l’ambaradan della sua azienda avrebbe capito, altro che caratteraccio gli ci voleva, doveva conoscere la sua supervisora. Al che Sal si fece una risatina e finì per stringergli la mano e per scusarsi, e si scusò anche per non aver detto niente di, insomma, aveva capito di cosa, poi gli chiese come stava la madre del ragazzino e Quinn rispose di non preoccuparsi, che la mamma stava bene, allora Sal esclamò Dio buono, però, roba dell’altro mondo, Quinn replicò: Già, roba dell’altro mondo, e tornò al parcheggio senza dire una parola. Qualcosa nelle facce tese dei suoi amici, nel modo in cui trattennero il fiato, gli procurò un attacco di nausea, perché conosceva quella loro sensazione. Quella smania. Presentarsi a un’audizione con la chitarra lustra e pensare: Questa è la volta buona; gli era capitato migliaia di volte di avere quella faccia. Quella stessa identica faccia. La faccia di uno a cui mancasse qualcosa. Convinto di meritarselo solo perché lo desidera disperatamente.
Così disse: «Sal ci penserà su», e li aiutò a caricare il resto della roba.
Salì in macchina e andò verso casa, finalmente solo, voltando le spalle alle sofferenze altrui, grato di poter disporre di un’auto così fuori moda che a nessuno dei ragazzi era venuta voglia di salirci. Al chiaro di luna la strada assunse una lucentezza recriminatoria, ogni chilometro percorso rievocava in lui fughe passate.
Era un peccato che il ragazzino fosse nato nel bel mezzo della storia di David Crosby, mentre Quinn raggiungeva l’ospedale ancora animato dal ricordo di un’isola accesa di stelle, di un tendone, di fiduciose aspettative. Quando lui e Belle si erano finalmente portati a casa quel loro fragile neonato sottopeso, il futuro sognato da Quinn gli era apparso come una porta chiusa, eccetto che per un’inattesa e mitigante nota positiva: il bambino aveva delle dita notevoli. Lunghe appendici vischiose attaccate a pugnetti grandi quanto gli occhi di una bambola. E la chitarra era stata il suo primo pensiero.
La sensazione che si impadronì di lui in quel momento gli sembrò troppo pericolosa da identificare. Belle l’avrebbe definita un ricordo d’amore. A lui parve invece qualcosa di simile a un’inquietante apparizione, il barlume di ciò che avrebbe potuto essere. E gli sfrecciò davanti a una velocità tale che come scia lasciò solo l’immagine di una luce accecante.
Appena entrato in città, fu fermato da un agente di polizia. Un poliziotto giovane, da manuale; un ragazzino nei panni di un adulto. «Posso vedere patente e libretto di circolazione, signore?»
Cazzo, pensò Quinn. Cazzocazzocazzocazzo. Trovò il libretto in una bustina di plastica trasparente, integro e inappuntabile, tutto il contrario di quello che si poteva dire del sedile posteriore, che pareva accogliere i frutti di una rapina in un negozio di articoli musicali.
«Aspetti qui, signore.» Mentre l’agente tornava all’auto di pattuglia che lo attendeva con il motore acceso, Quinn fissò l’intenso flusso di traffico tipico del sabato sera che animava Brighton Avenue, un tratto zeppo di ristoranti dozzinali e motel scadenti. Più avanti splendeva l’enorme insegna luminosa del Lowe’s, il negozio di ferramenta, e ancora oltre quella della concessionaria di auto all’angolo di Sibley Street. Tutto così vicino, così raggiungibile, che avrebbe quasi potuto tentare la fuga, raggiungere in due minuti il vialetto di Ona, bussarle alla porta e metterle una paura boia, scatenando un bailamme che si sarebbe concluso con Ona che lo scagionava – «Certo che ha il permesso, come altro crede che si sia procurato la mia chiave?» –, purtroppo però non prima che il poliziotto verificasse le sue passate violazioni del codice stradale.
Trascorsero i minuti e Quinn si arrese a quello che Amy chiamava «il karma dell’istante», che doveva avere il potere di farti sentire tutt’uno con l’universo, a meno che, come adesso, il karma non fosse il massimo dello schifo e tu non finissi per essere tutt’uno con quello stupido di te stesso. Lo sfogo di dolore di Juke tornò a farsi sentire come un qualcosa che gli crescesse sottopelle, tumido e pulsante, e al momento non poté far altro che sopportarlo.
Tornò il poliziotto, riempiendo con il viso tutto il finestrino. «Signor Porter, la proprietaria dell’auto è una certa signorina Ona Vitkus.»
«Lo so, è una mia amica.»
«Un’amica. D’accordo. A quanto pare si è dato parecchio da fare, lo scorso inverno. Tre contravvenzioni per eccesso di velocità solo nel mese di gennaio.»
«Le ho pagate. Ho fatto il corso, quello di scuola guida.»
«Si chiama guida difensiva, signore. Ma poi in maggio è stato fermato per la carta di circolazione scaduta…»
«Quella macchina l’ho venduta. Non ce l’ho neanche più.»
«…e per eccesso di velocità…»
Cinquanta chilometri oltre il limite, una multa esorbitante presa la sera dopo la morte del ragazzino. Di lì a due giorni aveva già venduto la macchina e consegnato i soldi a Belle.
«…al che le è stata sospesa la patente.»
«Ma io ho pagato tutto. Ho i conti in regola con lo Stato del Maine.»
«Ha i conti in regola. D’accordo.» Il poliziotto illuminò la patente con la torcia.
«Può vederlo con i suoi occhi, è valida», disse Quinn.
«Sembrerebbe, signore, è vero. Ma a volte le apparenze ingannano. E ancora non si spiega che cosa ci faccia su un’auto di proprietà della signorina Ona Vitkus.»
«Ho il suo permesso.»
«Ha il suo permesso. D’accordo. Anche la carta di circolazione di questa macchina è scaduta, ne è al corrente, signore?»
«Cosa?»
«Scadeva in aprile, signore.»
«Cristo santo.»
«Le dispiace scendere dal veicolo, signor Porter?»
«Può chiederglielo di persona», si difese Quinn, scendendo. «Abita a quattro isolati da qui.»
«Le dispiace mettere le mani bene in vista, signor Porter?»
«Ho il suo numero tra i preferiti», insistette Quinn, posando i palmi sul tetto dell’auto. «Anzi no, lasci stare, è già a letto, non la spaventi.» Si aspettava una perquisizione, ma l’agente stava ancora esaminando la patente di guida. «Senta, è un’amica. Le ho fatto dei lavori di riparazione alla casa.»
Il poliziotto puntò la torcia sul sedile posteriore. «Quella è roba sua, signor Porter?»
«Sono un chitarrista. Sto rientrando da una serata. È così che ho preso quelle multe per eccesso di velocità a gennaio.»
«Sta rientrando da una serata. D’accordo.» Quindi controllò l’orologio facendo una gran scena. «Una serata dalle parti di?...»
«Portsmouth.»
«Portsmouth. D’accordo. E da qui quanto disterà, all’incirca un’ora? Suonavo anch’io in una band, secoli fa. Strimpellavo il basso.»
Secoli fa? Quando avevi quanto, sei anni? pensò Quinn.
«Per mia esperienza, le serate di solito iniziano intorno alle otto o alle nove di sera, e adesso sono le nove e dieci.»
«C’è stato un disguido con l’organizzazione. È una storia lunga.»
«Una storia lunga. D’accordo.»
Quinn respirò lentamente. «Faccio il musicista di professione. Pago le tasse, io.»
«A nome dello Stato del Maine, la ringrazio, signore.»
«Guardi, la casa della signorina Vitkus è proprio là, in Sibley Street. Appena dopo la concessionaria di auto. Si vede anche da qui.»
«Tenga le mani dove sono, signor Porter», gli intimò l’agente. «So bene dov’è Sibley Street. E si dà il caso che conosca anche la proprietaria di questo veicolo.»
Un attimo dopo, Quinn chiese: «È il poliziotto che ha sorvegliato casa sua dopo l’effrazione?»
«E lei è il nipote che non ha voluto chiamare?»
«L’amico. Sono un suo amico. E mi ha telefonato, invece.»
L’agente infilò la torcia sotto il braccio. «Qualcuno dovrebbe prendersi cura di lei, signore. È una brava donna.»
«E infatti c’è qualcuno che si sta prendendo cura di lei!»
«Tenga le mani a posto, signore.»
«Sono io a prendermi cura di lei! Io!»
«Si calmi, signore. Può togliere le mani dal tetto, adesso.» E gli restituì la patente. «Dunque, potrei arrestarla seduta stante, portarla alla centrale e far ritirare l’auto dal carro attrezzi, perché non potrà più guidare finché la carta di circolazione non sarà rinnovata e la patente ripristinata.»
«Ma è stata ripristinata settimane fa!»
«A volte le informazioni in archivio non coincidono, signore. Può capitare.»
«È capitato, evidentemente.»
«Potrà chiamare il dipartimento di Stato domani stesso e sistemare tutto, signore. Nel frattempo, visto che siamo entrambi patiti di musica e che non mi sognerei mai di rendere la vita di quella simpatica anziana signora più difficile di quanto non sia già, chiuderò un occhio.»
Chiudere un occhio per lui si risolse in una lunga serie di telefonate: prima a Rennie, che lo mandò a quel paese, poi ad Alex, che aveva il cellulare staccato, poi a Gary, che era appena entrato in uno dei suoi tre garage e si dichiarò felice di aiutarlo.
Invece fu Ted – Ted con Belle al seguito – a farsi vivo un’ora più tardi con il suo minivan.
«Gary ha avuto un’emergenza», spiegò Belle. «Gli sono scappati i cani, così ha chiamato me.» Gli si rivolse con fare sbrigativo, pragmatico. «L’agente Kelsey ha detto che Ted può accompagnarti a casa con la macchina di Ona. Domattina rinnoviamo la carta di circolazione.»
«Preferisco prendere l’autobus da qui», replicò Quinn.
«Non con tutta l’attrezzatura.» Belle saltò di nuovo a bordo del minivan e lasciò gli uomini a terra. Poi abbassò il finestrino e disse: «Non complicare ancora di più le cose».
Quinn la guardò. «Stasera ho visto Juke. Richard Blakely. L’assistente.»
Un cenno del capo appena percettibile. «Come sta?»
«Uno straccio. Uno degli spettacoli peggiori che abbia mai visto.»
«Sopravviverà», ribatté lei. «È questo che fanno le persone.»
«Mi dispiace, Belle. Per tutto quanto.»
«Lo so.»
«Non c’è rimedio.»
«Lo so. A certe cose non c’è rimedio, è vero.»
Belle allungò il braccio dal finestrino e gli strinse la mano per qualche istante. Poi se ne andò.
Al volante della Reliant di Ona, Ted aveva un’espressione cupa ma tollerante e, mentre il karma dell’istante si scioglieva in una pozza di merda non consacrata, Quinn si pentì di non aver scelto l’arresto. E salì a bordo.
«Ti ringrazio», borbottò, regolando il sedile.
«È il minimo che io possa fare dopo quello che tu hai fatto per gli scout.»
«Dopo quello che io ho fatto?…»
«I soldi cominciavano a essere troppi, così Belle ha dovuto dirmi da dove arrivavano. Me l’ha detto stasera, prima di venire qui.»
E brava la sua Belle. L’informazione prese lentamente forma: aveva passato i soldi a Ted, che continuava a blaterare di escursioni prolungate e del futuro acquisto di un minivan a sedici posti. Quinn lo ascoltava, con il viso sempre più teso e la forza d’animo che ondeggiava come una monetina roteante da un quarto di dollaro.
Ted gli porse la mano. «A nome del Branco 23…»
«Non ringraziarmi», lo interruppe Quinn. «Non ringraziarmi.»
«Puoi mandarli direttamente a noi, d’ora in poi», continuò Ted. «A Belle non piace fare da intermediaria. Almeno, per gli scout sarà più facile registrare le entrate.»
«Va bene.»
«Poi ti do l’indirizzo.»
Quinn si sentì la vittima di uno dei trucchi di Ona e gli venne quasi da ridere – o da piangere – al sentire la voce di sua madre che gli giungeva dalle nebbie del passato: Non siamo noi a scegliere il nostro castigo. O forse non era sua madre. Forse era Ona. La voce sembrava proprio la sua.