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DI buon mattino, Quinn raggiunse in autobus l’azienda di Rennie dietro il centro commerciale, un elegante magazzino grande quanto un hangar nel quale prosperava la GUMS, Great Universal Mail Systems, la terza agenzia di distribuzione pubblicitaria del New England. L’edificio occupava un fazzoletto di prato, e l’ingresso, una struttura di vetro sorretta da un’elaborata intelaiatura, emanava un’aura di vigore domestico, come se il luogo ospitasse la sede centrale di una ditta di arredamenti. Nelle giornate di sole, il vetro scintillava tutto il giorno.
Una giovane segretaria lo salutò con un’esuberanza che nasceva da un ottimo pacchetto di benefit aziendali. Sulla sua scrivania era posato un vaso di iris. «Lei è qui per vedere?…» gli domandò. Portava un caschetto liscio corto e sensuale in stile anni Venti. E Quinn fu inaspettatamente visitato dalla conturbante immagine di un’ipotetica signorina Vitkus in versione anni ruggenti: una ragazza audace con le guance luminose, che ballava il Charleston in uno di quegli abitini attillati.
Quinn si presentò, rammaricato di non essersi rasato meglio la barba. «Rennie mi ha detto che potrebbe avere dei turni disponibili.»
«Oh, mi spiace», borbottò la segretaria alzandosi. «È entrato dalla parte sbagliata.»
Lo riaccompagnò gentilmente alla porta e tamburellò sul vetro un’unghia color cremisi. «Vede dove l’edificio fa una curva? Una specie di L? È quello il posto che cerca.»
«Rennie è un amico», spiegò Quinn. «Pensavo di poter…»
«Magnifico, è solo che oggi ha una riunione dietro l’altra», cinguettò la ragazza. «Una giornata superimpegnata.»
«Ci siamo conosciuti alle medie.»
Lei annuì, strafelice. «Wow, fantastico.»
Quinn indugiò un istante. Alle spalle della ragazza sorridente c’era un divisorio color pastello, dietro il quale si avvertiva un rassicurante viavai di transazioni fra colletti bianchi: porte che si aprivano e si chiudevano delicatamente, ticchettio di tacchi alti sul pavimento, risate sommesse e discrete. Rennie era lì da qualche parte e Quinn, come gli era già capitato altre volte, rimpianse di non essere nato con la stessa capacità di accontentarsi che aveva l’amico.
«Le grosse porte nere là in fondo», riprese lei picchiettando ancora sul vetro. «Se ha parcheggiato qui davanti deve spostare la macchina. Il parcheggio degli operatori è laggiù, li vede quei lampioni?» continuò. Poi tornò svelta alla sua postazione nel tentativo di liberarsi di lui con il sorriso sulle labbra.
«Lo so», commentò Quinn. «Dica a Rennie che sono venuto.»
«Ma certo! E lei non dimentichi di spostare la macchina.»
Nell’altra ala dell’edificio Quinn incontrò una seconda segretaria che, a differenza della prima, indossava un paio di jeans e una maglietta rossa con la scritta ALLA GUMS FACCIAMO SUL SERIO. «Sono già registrato», la avvisò.
«È passato più di un anno», replicò lei porgendogli una cartella di fogli. «Deve rifare la registrazione.»
Ricevute le istruzioni riservate ai neoassunti, una procedura soporifera che si concluse con l’assegnazione di un armadietto e la consegna di un buono per un pasto aziendale, Quinn seguì un capoarea all’interno dello stabilimento, un open space con una luce incredibile e quell’onnipresente rumore di macchinari che o ti fa assuefare a qualunque rumore o ti conduce lentamente alla pazzia. Fu affidato a una donna di nome Dawna che aveva la faccia da gallina e un’ipnotica voce chiocciante. Poiché Quinn aveva già svolto molte di quelle mansioni in passato – dopo la nascita del figlio, dopo il primo divorzio, dopo il suo grande ritorno e il matrimonio affrettato, e poi di nuovo dopo il secondo divorzio –, Dawna si convinse che fosse un genio capace di imparare tutto all’istante. Così affiancati, presero servizio nell’impresa di Rennie, costituendo un formidabile duo di addetti al controllo di una stazione complessa, dove la posta veniva smistata, etichettata e spedita in sacchi veri e propri. Il luogo palpitava di ingranaggi, di macchinari in fase di accensione, di merce trasportata e di umana fatica d’altri tempi.
Per i primi cinquanta minuti Quinn contrassegnò i sacchi di posta, per i successivi cinquanta caricò la macchina etichettatrice e per altri cinquanta ancora tolse dal nastro trasportatore gli opuscoli con lo stesso codice postale e li riunì chiudendoli con l’elastico. Dopodiché arrivò l’ora del pranzo, che ritirò con il buono pasto, e nel tempo che gli rimase passeggiò lungo i sentieri lastricati a lisca di pesce di un’area soleggiata chiamata il «campus». Ai propri dipendenti Rennie offriva pause frequenti, poggiapiedi, lezioni d’inglese e nove dollari l’ora come paga iniziale. Praticamente non c’erano ricambi, e infatti Quinn riconobbe un gruppo di donne somale che aveva visto la volta precedente.
Alle due, Dawna l’aveva già promosso a una stazione dedicata alla spedizione massiva di un catalogo di arredi per ufficio. Il macchinario svolgeva operazioni distinte a intervalli complementari, il che produsse su di lui un effetto simile a quello di una ninnananna, finché, a causa di un inceppamento nella smistatrice, non fu necessario l’intervento esterno.
Alle tre del pomeriggio, dopo aver lasciato lo stabile, Quinn si sedette in fondo all’autobus, con la sola prospettiva di una serata lunga, vuota e senza esibizioni in pubblico. Normalmente avrebbe chiamato uno dei ragazzi, avrebbe mangiato un hamburger da qualche parte con lui o cenato in compagnia della sua vociante famigliola, ma di colpo gli parve di essere trasparente. E rifuggì l’idea di farsi guardare – guardare dentro – da persone che lo conoscevano.
Alla prima occasione scese dall’autobus e d’istinto prese il numero quattro, diretto a ovest oltre Sibley Street. Poi tirò la cordicella, scese di nuovo e camminò sotto un tiepido sole fino alla casa della signorina Vitkus. Lungo la strada, affissi ai pali telefonici, c’erano dei volantini color lime che annunciavano a caratteri cubitali una RIUNIONE DI QUARTIERE. Svolazzavano come insetti in trappola.
La casa della signorina Vitkus aveva un aspetto ordinato. L’erba era rasata e gli uccelli occhieggiavano dalle mangiatoie. Tutto quanto sembrava rimesso a nuovo da poco e Quinn avvertì una punta d’orgoglio all’idea che quel lavoro fosse opera sua.
«Tu», esordì la donna quando se lo ritrovò sulla soglia. Poi perlustrò con gli occhi la strada. «Com’è che non hai la macchina?»
«L’ho venduta», rispose lui, «mi servivano i soldi.» Non pensò all’impressione che avrebbe potuto darle con quella frase; alla sua età, l’anziana signora doveva aver sentito di tutto.
«Per che cosa? Alcol?»
«Per un debito di coscienza.» Perché lo stava raccontando proprio a lei? «Ma non ha funzionato. Non funziona, insomma.»
«È raro che il denaro funzioni», commentò lei senza aggiungere altro.
Quinn le porse un biglietto da cinque dollari. «Mi deve una magia.»
La donna prese la banconota squadrandolo meticolosamente da capo a piedi, e poi lo fece entrare in cucina.
Lui si sedette, con i piedi che ancora gli pulsavano per le vibrazioni propagate dal pavimento in cemento di Rennie. Il mazzo di carte si trovava nel punto esatto in cui era stato lasciato, mentre le monete da un quarto di dollaro non c’erano più e i giornali erano spariti dal bancone, tutti tranne un unico ritaglio accuratamente ripiegato.
«Mio figlio dice che lei è la sua fonte d’ispirazione.»
La donna gli rivolse uno sguardo indecifrabile. «Hai bevuto?»
«Non bevo da undici anni.»
«Ho un cicalino, qui», gli annunciò, facendo tintinnare la catenina che portava al collo. «C’è stata un’effrazione, in fondo alla strada», continuò, e da sotto il maglione arruffato tirò fuori un aggeggio di plastica, uno di quei pulsanti d’emergenza indossati dagli anziani che temono una morte solitaria.
«Mi basta premere il bottone e il gioco è fatto», spiegò indicando una scatola che somigliava a uno strumento da studio di registrazione anni Quaranta. «Arriva uno Speedy Gonzales a salvarmi le chiappe.»
Quinn era allo sbando, si vedeva così tanto? «Faccia qualcosa», la incitò, sfiorando le carte. Non aveva idea di cosa volesse da lei. Era la persona più vecchia che avesse mai conosciuto… non avrebbe dovuto saperne un sacco, di cose?
La signorina Vitkus esitò e poi raggiunse scricchiolando il bancone per prendere il ritaglio di giornale. «Mi hai ingannato», protestò. «Sei tu l’imbroglione, non io», dichiarò sventolando il foglio, con gli occhi sgranati e pieni di rabbia.
Quinn capì che cos’era.
«Sono venuti altri ragazzi, qui, prima di lui», raccontò la donna, «e nessuno aveva voglia di lavorare. Alla fine sono sempre i padri a presentarsi, ma arrivano con mille scuse. Il ragazzino ha troppi compiti, il ragazzino è entrato in una squadra di baseball.» E sollevò il mento corrugato. «Mi hai fatto credere che tuo figlio fosse uno di loro.»
Quinn fissò il collo della signorina Vitkus, la pelle come crespo di raso.
«Poi ho avuto un’illuminazione. Qualcosa che avevo mezzo letto o mezzo sentito. Io le ascolto, le notizie. E leggo i giornali, ma non gli annunci mortuari. Non religiosamente come una volta. Quasi tutte le persone che conoscevo sono morte.» Prese gli occhiali e li inforcò a fatica. «Qui c’è scritto ‘inaspettatamente’», lesse, e poi alzò lo sguardo. «Alla faccia dell’inaspettato!»
Quinn riusciva a stento a reggerlo, quello sguardo infiammato dal rancore. «Si chiama sindrome del QT lungo», le spiegò. «E produce un malfunzionamento elettrico nel cuore.»
«Un difetto all’impianto elettrico?»
«Del cuore, sì», continuò Quinn. «Di solito il primo sintomo è la morte.»
La voce della donna si addolcì. «E come fa un ragazzino a contrarre una malattia del genere?»
«Può insorgere come reazione all’assunzione di un farmaco o la si può ereditare da un genitore. Lui deve averla ereditata. È rara. Ovviamente.»
«Da un genitore?» ripeté lei aggrottando la fronte. «Allora il prossimo sei tu?»
«Raggiunta la mezza età, il rischio scompare. Ignoranza doppiamente beata, la mia. Ciò che non sapevo non mi ha fatto del male.»
«Sempre che sia stato tu a trasmettergliela», replicò lei. «Potrebbe anche essere stata sua madre.»
«Meglio pensare che sia stato io. Sua madre ha già un fardello abbastanza pesante sul cuore», disse Quinn. Poi tamburellò la mano sul mazzo di carte, ci sapeva fare anche lui con le distrazioni pilotate. «Le ho pagato l’intera cifra.»
«Lo hai fatto, è vero.» La signorina Vitkus prese le carte e iniziò a maneggiarle, dondolando il mazzo da una mano all’altra. Le dita, malgrado le nodosità senili, reggevano il ritmo. Doveva essersi esercitata.
«Hai soltanto lui?» gli domandò. Quinn incrociò il suo sguardo: a quanto pareva avrebbero continuato a usare il presente.
«Solo lui, sì», rispose mentre osservava il moto ondulatorio delle carte. Il ragazzino era stato seduto proprio lì, ad assistere agli stessi movimenti preparatori. Suo figlio, in attesa di magia.
La donna aprì il mazzo a ventaglio. «Scegline una.»
Lui pescò la regina di fiori, la infilò di nuovo nel mazzo e attese mentre lei armeggiava con le carte fino a scoprire proprio la sua. «È questa?»
Quinn annuì sorpreso.
«Per un attimo ho avuto qualche incertezza. Oggi non sono in me.»
«Faccia scomparire qualcosa», la incitò ancora lui, tirando fuori un altro biglietto da cinque dollari dal portafogli.
Lei alzò le sopracciglia, o le increspature dove un tempo erano alloggiate. «Non sta al bersaglio del gioco decidere.» Si infilò il denaro in tasca e restò in attesa, a dividerli un’aria immobile e carica di possibilità. D’un tratto, con un movimento così rapido che Quinn non fu nemmeno sicuro di averlo visto davvero, afferrò il ritaglio di giornale, lo strinse nel pugno punteggiato di macchie, poi riaprì la mano e non mostrò altro che il palmo nudo, con un intero secolo di linee della vita incise sopra.
«Dov’è finito?» le domandò Quinn.
«Hai pagato per avere la magia. E io te l’ho data.» Il fatto che rifiutasse di compatirlo – e che, anzi, fosse infuriata – lo fece sentire un po’ meno solo. Così le diede altri cinque dollari. «Che altro sa fare?»
«I bambini si accontentano di ciò che ricevono. Ma gli adulti non ne hanno mai abbastanza», rispose lei, per poi aggiungere: «Tuo figlio e io eravamo amici».
«Avrei dovuto dirglielo», si scusò Quinn.
La donna appoggiò la schiena alla sedia e intrecciò le sue mani grandi. «E io che pensavo si fosse rivelato come tutti gli altri ragazzi, un fannullone che non porta a termine un bel niente.» La bocca sembrò tremarle, ma era difficile cogliere la sua reazione nel reticolo di rughe che aveva sul viso. «La sua eccellente reputazione in questa casa è stata macchiata senza che lui ne avesse alcuna colpa. Questo mi rattrista molto. Perché quel capo scout non mi ha informato? Il mio telefono funziona. Io e tuo figlio avevamo dei progetti.»
Quinn si sentì il viso stranamente in fiamme, come se lo avessero costretto sotto una lampada da interrogatorio. Si guardò intorno per cogliere i segni di qualche disegno rimasto incompiuto. «Quali progetti?»
«Ormai ha ben poca importanza», rispose lei. In quell’istante Quinn avvertì nella donna un mutamento d’espressione, come se si fosse pentita di quelle parole, o almeno volesse concedergli il beneficio del dubbio. «Era un bravo ragazzo e mi dispiace davvero tantissimo», gli disse. «Sopravvivere ai propri figli è un destino penoso.»
«È capitato anche a lei?»
«Frankie ha perso la vita in guerra», gli raccontò. «Randall è morto di tumore. Non si è mai sistemato – ha avuto un sacco di donne, ma nessuna moglie – anche se era un ottimo procuratore legale. Al suo funerale hanno pronunciato tutti delle bellissime parole.»
«Mi dispiace.»
«In realtà questa casa era sua», continuò, battendo le palpebre. «C’è nulla di più umiliante, secondo te, che ereditare il denaro dei propri figli?»
«Probabilmente sì, ma capisco cosa intende.»
«All’epoca ero a corto di fondi e mi stavo avviando verso la croce e la delizia di una lunga vita», e nel pronunciare quelle parole protese il busto sul tavolo.
«Non deve giustificarsi.»
«Randall aveva sessantun anni. Non ha avuto una vita lunga, ma nemmeno breve.» Detto questo, fece una breve pausa. «Chi mi manca è Frankie.»
E passò un altro istante.
«Ogni volta sua madre doveva ricordarmi in anticipo della mia visita prevista dalla sentenza di affido», raccontò Quinn. «Ero sempre così poco presente. Lo conoscevo a malapena. Ecco la verità.»
La signorina Vitkus infilò una mano nel tiepido antro del giubbotto di Quinn. Lui avvertì la sua mano sul petto, svelta come un uccello che si posa su un ramo, ma subito lei la ritrasse e l’annuncio mortuario le si materializzò ripiegato sul palmo, con la banconota da cinque dollari dentro. La donna glieli consegnò entrambi, senza dire una parola. Da chissà quale remota distanza, Quinn fu raggiunto da un lacerante moto di pietà per il figlio che si perdeva quel momento. E riuscire ad avvertire un sentimento diverso dal disprezzo di sé gli parve già abbastanza, come magia.
«Perché eri poco presente?» gli domandò la signorina Vitkus, con una nota di pura curiosità nella voce. A quel punto lui si arrese, cedendo all’età di quella donna, alla vitalità del suo viso, all’urgenza che trapelava da tutto il suo essere.
«Non riuscivo a capire come funzionava il suo cervello», le confessò, sentendosi pervadere da un’improvvisa tristezza. Gli occhi di lei erano ancora giovani. «Non sono mai riuscito a capire come… come comportarmi con lui.»
Lei ascoltò le sue parole – senza giudicarlo, fu la sua impressione – e poi confessò: «Io e Randall non siamo mai stati in sintonia. Era un bravo ragazzo, ma non avevamo niente in comune. Lui era così indipendente, così ambizioso, persino da bambino. Non ho mai provato la sensazione che avesse realmente bisogno di me.»
Quinn si alzò, infilandosi in tasca l’annuncio e lasciando i soldi sul tavolo. «Vuole che faccia qualcosa? Finché sono qui?»
«Mi si è bruciata una lampadina in salotto. E detesto salire sulle sedie.»
Quinn cominciò dalla lampadina, per cui occorreva uno sgabello. Il quale aveva a sua volta bisogno di essere riparato.
Tornò il sabato successivo, che era il giorno prefissato, e quello dopo ancora.
Il mese di maggio cedette il passo a giugno e Quinn continuò a presentarsi al posto del ragazzino, in orario e con gli attrezzi necessari, realizzando ciò che presumeva fosse quanto il figlio si era impegnato a compiere.
«Ho qui una torta», gli disse la signorina Vitkus. «Ti piacerà. Ha un ingrediente segreto.»
«A chi non piacciono gli ingredienti segreti?»
«Direi che ormai puoi darmi del tu.»
«Cosa che lei ha fatto finora con me.»
«L’ho fatto, è vero. Ma tu sei più giovincello di me, e io sono una vecchia signora. Spetta a me darti il permesso.»
Quinn stava sorridendo. «Posso darle del tu, allora?»
«Permesso accordato. A proposito, le grondaie sono ridotte a un letamaio.»
E così lui pulì le grondaie, sistemò una porta, sostituì le pedate dei gradini della veranda, osservò il lento arrivo dell’estate. Ogni sabato si tratteneva per i soliti biscotti a forma di animali o per una fetta di torta e per assistere, in cambio dei suoi cinque dollari, a qualche trucco con le carte eseguito con caparbia. Capitava anche che Ona facesse scomparire qualcosa: carte, monete o fazzoletti orlati a mano con il pizzo chiacchierino. Ed erano quelli i trucchi preferiti da Quinn, quelle scaltre deviazioni, quelle astute sparizioni, semplici illusioni che richiedevano poco più di un mediocre prestigiatore e di un osservatore assetato di meraviglia.