13
IL giorno della partenza Ona si svegliò con una parola terribile in testa: mirtis. E se si fosse scoperto che Laurentas era morto?
Scacciò la parola dalla mente. Laurentas era senz’altro vivo e vegeto, a godersi la vita all’indirizzo scritto sul foglio stropicciato infilato nella sua borsa: doveva esserlo. Pensò alla giornata che l’attendeva con un ardore mutuato dal ragazzino, con cui condivideva delle aspettative riguardo all’esito della spedizione che stava compiendo. Quel viaggio era per lui, quindi Laurentas doveva essere vivo per forza.
Durante i frettolosi preparativi, però, continuava a dimenticare lo scopo della gita. Il viaggio diventò di per sé un traguardo, per la novità che rappresentava, il piacere che le procurava. Per la prima volta dopo venticinque anni, si era fatta pettinare i capelli da una ragazza che aveva indurito la sua bianca lanugine in un elmetto di lacca dal prezzo spropositato, che Ona aveva pagato senza battere ciglio. Era tutta la settimana che si sentiva giovane e impetuosa e che, rivolgendosi mentalmente a Louise, ripeteva: Sto per mettermi in viaggio con un musicista scalcagnato.
Era un’odissea, del resto, a occupare i suoi primi ricordi coscienti, un susseguirsi di vividi sprazzi isolati: un cavallo esausto giustiziato per avere di che sfamarsi. Una zingara che offriva pesche da un sacco. Nuvole di polvere che avevano il colore delle rose sminuzzate. Lei che premeva il viso contro il collo del padre, le lacrime della madre che inumidivano le pagine di un libro di contrabbando scritto in caratteri latini, l’alfabeto proibito. E loro che camminavano e camminavano, oppressi dalla nostalgia del cortile in fiore, dei polli, dei ciliegi, della loro amatissima fattoria che dieci anni dopo i tedeschi avrebbero bruciato, un oltraggio testimoniato da una lettera dello zio Bronys, sulla cui busta campeggiava una croce nera: lutto in famiglia.
Malgrado la polvere e l’incertezza, su quel viaggio aleggiava un senso di progressione. Verso cosa, poco importava. Ona era nata il ventesimo giorno del ventesimo secolo, un buon segno per i suoi superstiziosi genitori cattolici. E loro scelsero un Paese che abbracciava il progresso come fosse un sacramento. Aldona corruppe una guardia di frontiera, dichiarando che la sua bambina malata necessitava di cure speciali e imbastendo una storia volutamente complicata e confusa, con Ona che piangeva a comando. La guardia – un ragazzino slanciato – le fece passare tutte e due, una donna apparentemente disperata che trascinava una bambinetta e una modesta scorta di provviste. E così varcarono il confine, con Jurgis sepolto clandestinamente sotto le assi di un carro da mulo. Finalmente raggiunsero una città, poi una nave, e affrontarono la pericolosa traversata con le parole KIMBALL, MAINE, appuntate sul soprabito.
Era questa la loro storia, ricostruita sulla base del loro inglese raffazzonato, ma solo in quel momento Ona la riconobbe come un’esperienza vissuta. Ricordava i colpi di tosse, l’orizzonte irregolare, un pezzo di formaggio cosparso di stelline di muffa, che la madre ripulì con i denti prima di offrirlo a lei. E lunghe conversazioni concitate tra i suoi genitori, che non sopportavano di essere stipati come sardine in alloggi umidi e pieni di pulci. Mormoravano il loro timore di perdere i documenti, il loro odio per l’esercito russo, il loro sollievo per essere arrivati fin lì senza finire in prigione.
E piovve un’altra gemma, una frase intera, stavolta. Dievas davė dantis, Dievas duos duonos. Dio ci ha dato i denti, Dio ci darà anche il pane.
Un tempo doveva averla conosciuta, la sua lingua madre, se con tanta insistenza le tornavano in mente tutte quelle parole. Forse non era il caso di fare dell’ironia, eppure trovava crudele che i suoi genitori fossero fuggiti anche perché i russi avevano cercato di privarli della loro voce ancestrale. Le venne il dubbio che la loro lingua dimorasse ancora in qualche luogo segreto del suo corpo; non i frammenti che di recente le erano piovuti da chissà dove, ma la piena padronanza di essa, tuttora in grado di erompere, magari, in occasione di una resa volontaria.
Fino ad allora, un’occasione simile non le si era mai presentata.
Quinn arrivò puntualissimo. «In piedi, Ona. Sorgi e risplendi!» gridò, mentre la zanzariera sbatteva alle sue spalle.
«Sono in piedi già da quattro ore », replicò lei. «Risplendere lo lascio fare ai giovani, però.»
«Tu risplendi come un pirolo nuovo di zecca, Ona. Guarda che capelli!»
«Potrei andarci in guerra, con quest’acconciatura», ribatté lei. «Mi è costata quaranta dollari.»
Quinn aveva le gote arrossate. Viaggiare gli si addiceva, e lei avrebbe dovuto immaginarlo: quelli come lui, sempre in fuga da se stessi, amano la strada. Prese le sue cose e la accompagnò alla macchina. Si era tanto complimentato per l’aria vintage della sua auto, per quelle «gambe buone» che tanto dovevano – e sotto sotto Ona si era montata la testa a sentirglielo dire – alla sua abitudine di metterla in moto due volte la settimana per andare a fare la spesa. Quinn la aiutò a salire dal lato del passeggero, avvolgendo le lunghe dita attorno al suo gomito e producendo in lei un paradosso di debolezza e vigore.
E mentre lei si lisciava i pantaloni sulle cosce, lui si metteva al volante. Si sarebbe aspettata il classico tipo dal piede pesante, capace di coprire la distanza a tempo di record (e si chiese quale fosse, il record); invece avanzò con mirabile prudenza e, giunto al primo svincolo d’ingresso dell’autostrada, lo saltò per svoltare di colpo in un quartiere di case curatissime.
«Dove diamine stiamo andando?» gli domandò.
«In missione di soccorso», rispose lui. «Donzella in pericolo.» E si fermò di fronte a una villetta bianca in stile Cape Cod, a due isolati di distanza da Washington Avenue. Sgomenta, Ona capì subito dove si trovavano.
«Portiamo in viaggio con noi una madre svitata?»
«Ha chiesto lei di venire», ammise Quinn. «E non hai idea di che sollievo sia per me poter soddisfare un suo desiderio.»
Belle uscì di casa con una cartella stracolma, seguita a ruota da un’altra donna.
«Oh-oh», borbottò Quinn.
A differenza di Belle, la seconda donna era bruna e robusta. Da lontano aveva la stessa aria imperturbata e imperturbabile che Ona ricordava nelle ragazze della Henneford Academy, la scuola gemellata con la Lester, ma da vicino la facciata si sfaldò. Era triste, tesa e tormentata.
«Posso parlarti, per favore?» chiese a Quinn.
Appena lui scese dall’auto, Belle si mise al volante.
«Belle…»
«Guido io», annunciò lei. «Tu sei un pessimo autista.» Sotto agli occhi la pelle era violacea per la stanchezza; in base ai calcoli di Ona erano passati quasi tre mesi, troppo per resistere senza un sonno adeguato, ma lei aveva fatto lo stesso dopo la morte di Frankie.
Quinn la fissò un istante mentre la donna bruna li guardava tutti in cagnesco. «D’accordo», concesse, e poi si rivolse alla bruna, che cominciò a rimproverarlo in un sussurro volutamente udibile.
Belle lanciò la borsa sul sedile posteriore, dove si fuse in unione quasi coniugale con la sacca di Quinn. Ona si aggiustò i capelli rigidi e trasparenti. «Posso sapere com’è andata?»
«Ho detto a Quinn che da solo non ce l’avrebbe fatta.»
Ona si risentì. «Non ho bisogno di un’infermiera.»
«Non volevo farle da infermiera», ribatté Belle. «Volevo solo darmela a gambe.» Le si velarono gli occhi di lacrime. «Non sa quanto abbia bisogno di una scossa.»
Eccome se lo sapeva. Dopo la morte di Frankie, sarebbe stato un balsamo per lei montare in macchina e partire. Provò a ingoiare il dispiacere. Non voleva somigliare a una di quelle vecchie che detestano i cambiamenti: Louise l’aveva messa in guardia dal diventarlo. Ma la delusione continuava a confonderla. La sera prima aveva aperto a fatica i rubinetti e riempito la vasca fino all’orlo, per poi cospargere l’acqua di olio di mandorle. E quella mattina si era spruzzata il profumo dietro le orecchie. Non aveva previsto di essere il terzo incomodo. Già accaldata nella camicetta a maniche lunghe, si sentì come un budino malridotto, un avanzo che qualcuno aveva dimenticato sul sedile.
Belle aprì il vano portaoggetti. «Niente cartina?»
«Ce l’ho io, la cartina», replicò Ona. «Non sono così stupida da mettermi in viaggio senza mappa stradale.»
«Ci arrangeremo.» Belle armeggiò con lo specchietto retrovisore e Ona fu raggiunta da una zaffata di sudore. Fuori dall’auto, Quinn e la donna bruna erano impegnati in quella che si sarebbe potuta generosamente definire una discussione.
«Quella è mia sorella, nel caso se lo fosse chiesta.»
«Non l’ho fatto», ribatté Ona.
E fissò davanti a sé, vergognandosi di se stessa. Chi era lei per negare a quella poveretta un po’ di respiro?
«Quinn mi ha raccontato di suo figlio», la informò Belle. «Spero non le dispiaccia.»
«Non credo che importi, ormai.» La cosa strana, però, era che non le dispiaceva. Il suo segreto si era librato nell’aria, innocuo quanto una farfalla. Non ricordava neanche più perché l’avesse tenuto così stretto al petto. Per novant’anni.
«Stare con lei», continuò Belle, «mi aiuta a credere che mio figlio sia ancora al mondo.» Batté forte le ciglia. «E per questo la ringrazio.»
«Prego», replicò Ona. Ma per lei era il contrario. Aveva messo il ragazzino al sicuro fuori dal palco, in una specie di limbo. Non era del tutto reale ma era di certo molto di più che un ricordo: una voce che parlava dalle quinte, un’illusione di viva immobilità. Con quella madre tormentata che entrava barcollando nel fascio di luce dei riflettori, però, era impossibile dimenticare che era morto.
Ecco che tornava Quinn. «Amy ha chiamato tuo padre», disse, sedendosi dietro. «Il grand’uomo sta arrivando.»
La donna bruna corse al finestrino di Belle, con un piccolo cellulare rosa in mano. «Puoi almeno aspettare papà, piccola mia?»
«Digli che è un po’ tardi per fare la parte del vecchio paparino affettuoso», rispose Belle. «Niente più ditte da saccheggiare?»
«Chiamami quando arrivi», insistette la sorella. «Almeno questo lo puoi fare, per piacere?» Le mise il telefono in mano e poi le baciò la punta delle dita. «Non permetta a Quinn di convincere mia sorella a fare chissà che cosa», ordinò poi a Ona, alla quale non era nemmeno stata presentata.
Belle sospirò sonoramente. «Di’ a papà che portiamo una madre a trovare il figlio. Una madre gentilissima, il progetto sociale a cui si dedicava suo nipote.»
Ona fece per intromettersi: «Scusi ma…»
«Ho prenotato per voi all’Apple Country Motor Court, il motel», disse Amy rivolta a Quinn. «Lì, se non prenoti prima, finisce che dormi in macchina.»
«Era così quindici anni fa, Amy», replicò lui.
«Ted è furibondo, per la cronaca.»
«E allora dov’è?»
«Con i suoi figli», rispose lei. «A occuparsi dei suoi figli, ecco dove.» Poi sporse il busto fin dentro il finestrino. «È tutta colpa tua», aggiunse, indicando Quinn. Dopodiché diede una carezza materna ai capelli di Belle e tornò in casa.
«Poteva anche risparmiarselo», commentò Ona.
«In realtà, ci voleva», replicò Quinn dal sedile posteriore.
Belle si allacciò la cintura. «Amy è sempre stata un orso.»
«È proprio la parola adatta», commentò di nuovo Ona.
«E ringrazi il cielo che non ha insistito nell’accompagnarci lei.»
«Lo ringrazio sì. Sua sorella mi sembra il genere di autista per cui le compagnie di assicurazione decidono di alzare i premi a tutti quanti.»
«Questa è buona, Ona», disse Quinn, e lei si sentì stranamente compiaciuta.
Belle mise in moto l’auto – che ormai era diventata l’auto per la fuga, a quanto pareva – e armeggiò con i comandi. «Dov’è il condizionatore?»
«È una macchina, mica una cabina della Queen Mary», ribatté Ona. Era ancora seccata per essere stata definita un «progetto sociale».
Belle si sventagliò l’esile clavicola con il colletto della camicia. «Io invece guido benissimo, signorina Vitkus. Giungerà a destinazione sana e salva.»
«Non se arriva prima tuo padre», le fece presente Quinn. «Muoviti.»
Finalmente si misero in marcia, a una velocità moderata ma accettabile, e nel giro di qualche minuto erano già in autostrada. Con l’aumentare della distanza da casa, il rapporto tra i viaggiatori migliorò. Per un po’ parlarono delle elezioni imminenti, della guerra e dei Red Sox, ma poi la conversazione cominciò a languire. Nel dormiveglia Ona sbirciava nel proprio passato, trovandovi la madre in piedi accanto alla finestra, i capelli legati da un nastro sfrangiato. I rami sfregavano su una trave del tetto. Un cane bianco sospirava. Dove si trovava? Possibile che ricordasse una terra lasciata quando aveva solo quattro anni? Davvero si poteva risalire con la mente fino a cento anni prima?
Un’ora dopo, mentre attraversavano il confine del New Hampshire, Belle riprese un argomento già trattato: «Mio padre è un uomo duro», spiegò a Ona, «ma si è fatto da solo partendo da niente. Si è prefissato degli obiettivi. E per questo va ammirato. Ovviamente, ha sacrificato la sua famiglia». Dallo specchietto retrovisore lanciò a Quinn uno sguardo dalle molte sfaccettature. «Esistono figlie più indulgenti di noi. A papà sono toccate quelle che non perdonano.»
«Tu non sei una che non perdona», la contraddisse Quinn. Ona dovette tendere l’orecchio per sentirlo. «Lo sarà Amy. Ma tu no.»
Capì che parlavano in codice; forse non sapevano parlarsi in altro modo. Allora si eclissò finché non si accorse che era la sua stessa presenza a rendere possibile la loro comunicazione, per quanto penosa fosse. Aveva incontrato la donna solo una volta, ma non era forse probabile che quella versione di lei – quella della bisbetica avvezza a parlare in codice – fosse più vicina alla vera Belle della creaturina timorosa che le aveva infestato la casa la settimana prima? Era per questo che Quinn sembrava così contento, così poco preoccupato?
«Di cosa si occupa suo padre?» le domandò.
«Di giocattoli», rispose Quinn, «ma non lasciarti ingannare.» Teneva le braccia penzoloni sullo schienale dei sedili anteriori, come facevano Randall e Frankie nella vecchia Ford Model A di Howard.
«Ha cominciato con un aeroplanino», spiegò Belle, con un certo orgoglio. «Lo vendevano all’interno di un minuscolo hangar.»
«In sette mesi è diventato milionario», continuò Quinn, «dopodiché ha pagato qualcuno perché ricostruisse l’albero genealogico della famiglia Cosgrove fino a risalire a una combriccola di duchi minori, ed è finita che Belle e Amy sono cresciute nella convinzione di avere il sangue reale.»
Ona realizzò che stavano recitando un vecchio copione. Louise chiamava quel gioco «instaurazione di un legame di coppia» e lo equiparava all’abitudine degli uccelli di scambiarsi bacche da un becco all’altro.
«Non erano sette mesi», puntualizzò Belle.
«Così dice lui.»
«Erano sette anni», insistette Belle. «Quinn esagera sempre.»
«Cosgrove?» domandò Ona.
Belle annuì.
«Cosgrove della Cosgrove Toys? È lui suo padre?»
«Solo di nome. Veniva a trovarci da New York un paio di volte l’anno.» Belle sorpassò un camion guidato da un vecchio dall’aria terrorizzata. «Una volta ha vissuto tre anni interi a Taiwan, mentre noi siamo rimaste a casa. È un miracolo che i miei stiano ancora insieme. È tornato a vivere qui in pianta stabile solo quando è andato in pensione.»
«Credo la chiamino prigione», precisò Quinn. «Il grand’uomo si è fatto un breve periodo al fresco per frode fiscale.»
«Evasione fiscale. Quella è quasi legale.»
«Me lo ricordo, quell’aeroplanino», disse Ona. «Il Future Flyer.»
«Esatto!» esclamò Belle, illuminandosi tutta. «Il Future Flyer.»
«I ragazzi della Lester li portavano a scuola di nascosto, quegli aeroplanini. La Lester Academy. L’avrà sentita nominare. Ero segretaria personale del preside.»
Belle le gettò una rapida occhiata, poi tornò a guardare la strada. «Immaginavo che avesse avuto un impiego.»
Ona gioì interiormente all’idea di aver dato l’impressione della lavoratrice. «Adesso è un complesso residenziale. Tutti quegli splendidi edifici sfigurati dai graticci più orrendi che abbia mai visto. Ecco per cosa si dovrebbe andare in galera, mica per altro.»
Belle sorrise. Ona ricordava quella parte, lo sforzo di presentare al mondo un’altra immagine di sé, la fatica che costava sostenere una semplice conversazione.
«Vive sola?» domandò Belle.
«Avevo un’amica, ma è morta.»
«Animali?»
«Due gatti, ma sono morti anche loro.»
«Non vi sento da qua dietro», si intromise Quinn. E appena si sporse di nuovo in avanti, Ona fu investita da una folata di shampoo, il profumo dei centrini inamidati che le ricordava il salotto di Maud-Lucy.
«Stavo raccontando alla tua signora dei miei gatti», lo informò. Il primo ad andarsene era stato Ginger, un soriano arancione. Quando era stata la volta di Kit, Ona non l’aveva rimpiazzata, rifiutandosi di lasciare che un gattino indifeso sopravvivesse alla propria padrona.
Era successo quando ancora le crescevano i capelli. Avrebbe avuto tutto il tempo per un altro gatto e mezzo, da allora.
Mentre i chilometri correvano, Quinn rinunciò a sforzarsi di sentire quello che dicevano le due donne e si limitò ad annuire da dietro. Ogni tanto facevano qualche osservazione – falco su un cartello, Harley troppo veloce – e tenevano d’occhio la strada insieme. «Sai», disse Ona, «a casa potrei anche avercelo uno di quegli aeroplanini, da qualche parte. Se lo trovo, te lo regalo volentieri.» Eppure non gliene era capitato tra le mani neanche uno, durante la sua folle e infruttuosa ricerca del certificato di nascita.
Belle sorrise davvero, stavolta. «Sei proprio come ti ha descritta», aggiunse poi, e la sola risposta di Ona fu di arrossire così tanto che le si scaldarono le palpebre. Quinn russava leggermente, adesso, e Ona si rese conto che, tutto sommato, non era lei il terzo incomodo, ma lui.
A Keene si fermarono in un diner, dove lei si offrì di pagare il pranzo a tutti con i soldi del suo fondo destinato ai viaggi, inattivo da un sacco di tempo.
«No, no», si oppose Belle.
«Lasciala fare», intervenne Quinn. «Non è mica un’incapace.» E picchiettò il polso di Ona con la nocca facendolo risuonare davvero, osso contro osso. La stava esibendo, ormai Ona l’aveva capito, come fosse un trofeo, come un gatto che trascini un passero insanguinato davanti alla padrona di casa. Normalmente una cosa del genere l’avrebbe fatta infuriare, ma poiché Quinn non aveva altri trofei da offrire – e sapeva che Ona l’aveva capito –, lei sentì di potergli essere d’aiuto e quasi esultò di gioia. Si stava divertendo un mondo. Se anche l’incontro con Laurentas non fosse andato come sperava, solo per il viaggio ne sarebbe valsa la pena lo stesso.
Quando aprì il menù, per un attimo sentì di non essere ancora nata, come se la sua lunga vita fosse stata solo una prova prima dello spettacolo vero e il sipario stesse per alzarsi. Ordinò un piatto di formaggio grigliato e una fetta di torta di fragole, con l’intenzione di mangiarsi tutto quanto.
Questa è la signorina Ona Vitkus. E questi sono i ricordi e i frammenti della sua vita su nastro. Parte quinta.
…
In realtà, lo vidi ancora, sì. Maud-Lucy glielo aveva fatto promettere. Una promessa in punto di morte, difficile rifiutare.
…
Novembre 1963. Lo stesso giorno in cui spararono al presidente.
…
Non Lincoln. Perdindirindina! Kennedy. Era lì che girava in auto per Dallas a capo scoperto e bum, la fine dell’America. La notizia circolava da meno di due ore quando Laurentas si presentò alla mia porta.
…
Di preciso non mi ricordo. «Salve», direi. Potrebbe anche avermi chiamato «madre». Frankie mi chiamava così per scherzo. «Sì, madre, subito, madre», per farmi capire che intendeva fare il contrario di quello che gli avevo chiesto.
…
Direi… imbarazzante, come potrai ben immaginare. Dopo tutto quel tempo! Aveva quarantotto anni. Gli chiesi di sedersi. Occupò una sedia del tavolo di cucina e pianse per cinque minuti circa.
…
Infatti. Oh, semplicemente spaventoso.
…
A essere sincera, non ho mai capito se fosse sconvolto per il presidente o per avermi vista.
…
Be’, certo, è vero. Lei era sua madre, dopo tutto, ed era morta in malo modo. Lui ne aveva sofferto molto. C’era in ballo anche un divorzio. Dalla sua seconda moglie, se ricordo bene.
…
Sì, immagino di sì. Molto dura. Ma a volte il divorzio è un bene.
…
No? Mai?
…
D’accordo. Il divorzio non è mai un bene. Però a volte ci vuole. E di sicuro c’è voluto nel mio caso. Howard stava diventando pazzo.
…
Dunque, siamo d’accordo che «a volte» sia la risposta giusta. Ma non per tutto esiste una risposta giusta. Dovrai fartene una ragione, prima o poi. Possiamo?…
…
Sì. Dunque, lasciai la tv accesa a basso volume tutta la sera. Continuavano a raccontare quello che faceva Jackie.
…
Era la moglie del presidente. Aveva del sangue sul tailleur. Non riuscivano a smettere di pensare a quello. Chiesi a Laurentas della sua infanzia divisa tra le mele, gli zii e il pianoforte, ma alla fine lui esaurì gli argomenti e fissò lo sguardo sullo schermo. Preparai la cena e poi lo mandai a comprare una torta in onore di Maud-Lucy, che adorava i dolci. E lui obbedì, come un figlio vero, abbottonandosi il cappotto mentre si avviava alla porta.
…
Prego?
…
Oh, sì. Certo. Fu terribile sapere di Maud-Lucy. Era rimasta nell’ombra per decenni, ma la notizia… be’, fece suonare in me tanti di quei campanelli. Din don dan, tutte quelle ferite che tornavano a farsi sentire. Buon Dio, che giornata spaventosa fu quella.
…
Certo che lo fece. Chiese subito di Viktor. Perché altro credi che fosse venuto? Aveva gli occhi di Viktor, sai, con le iridi spruzzate di pagliuzze. Io non mi ci ritrovavo affatto.
…
Be’, Maud-Lucy gli aveva già raccontato tutto sul letto di morte. In più non mi venne da aggiungere altro se non che suo padre, almeno quando aveva diciotto anni, era stato un tatuatore straordinario. Era garbato, gli spiegai, e lo era davvero se ti rivolgevi a lui per avere un tatuaggio. La sua specialità erano le rose. Molto meticoloso e accurato.
…
Avevano qualche riccioletto, un paio di spine, ed erano realizzate con discrezione.
…
Temo che non siano affari tuoi.
…
No, no, fa niente. Sei un bambino. Non sai cosa sia lecito chiedere a una signora e cosa non lo sia. Ma se proprio ci tieni a saperlo, ce l’ho anch’io, un tatuaggio, solo che è in un posto che non posso mostrarti.
…
Non scusarti. A essere sincera, mi fa piacere che tu me l’abbia chiesto. E che non ti sia stupito della risposta.
…
Perché molti pensano che io sia una statua senza un passato, ecco perché. E poi arrivi tu e nella mia cucina mi ricordi chi sono. Dunque, dove?...
…
Giusto. «Sei un dottore?» domandai a Laurentas. Maud-Lucy mi aveva promesso che sarebbe diventato un dottore. «Sono un chirurgo», rispose. «Anche il tuo nonno naturale era un chirurgo», gli dissi, «ma non in America, qui era addetto alla cottura della cellulosa. E il tuo padre naturale era bravo con gli aghi. Aveva delle mani eccezionali.»
…
Be’, grazie. All’epoca non pensai che Laurentas potesse aver ereditato le mani da me, perché quello che mi disse subito dopo rischiò di mandarmi a fuoco i capelli.
…
«Se avessi saputo della tua esistenza, madre, sarei venuto prima.»
…
Esatto. Maud-Lucy non gliel’aveva detto come prima cosa. Tutte quelle lettere che mi scriveva, Carissima di qui e Carissima di là. Quando Laurentas aveva compiuto due anni mi aveva chiesto una fotografia da mettere accanto al suo letto. Hai idea di quanto mi fosse costato procurarmi una fotografia nel 1917? In quell’occasione avevo pensato che il mio viso le avrebbe ricordato la bambina che aveva istruito e amato, e che si sarebbe premurata che Laurentas si facesse una buona opinione di me, quando per tutto il tempo non aveva fatto che cancellarmi impiegando ogni astuzia possibile e immaginabile.
…
Sì, proprio lei! La stessa Maud-Lucy Stokes che era finita a Kimball per caso ed era rimasta per me. Quarant’anni dopo ecco nostro figlio, in piedi nel mio appartamento il giorno della deplorevole uccisione del presidente, un chirurgo con un bell’abito e le lacrime agli occhi, a cui mancava tanto sua madre.
…
Oh, gli dipinsi un bel quadretto: i suoi gatti sul pianoforte, i suoi libri nel salotto, le sue piante, le sue tovaglie. Gli raccontai dei bambini e delle bambine che aspettavano in fila davanti alla porta in attesa delle sue lezioni; persino i figli del fondatore della città, che aveva finanziato e arredato l’intero edificio scolastico di Kimball.
…
Perché era come raccontargli di me. Io ero la creatura di Maud-Lucy. Diedi a Laurentas tutte le lettere che mi aveva inviato, tutte quelle splendide missive scritte su carta color pastello, tutte le sue riflessioni poetiche sulla musica, sui meleti che si riempivano o spogliavano dei frutti, tutti i suoi consigli di madre su come portare la veletta o evitare che i guanti ingiallissero. Ormai non mi appartenevano più. «Ci troverai un delizioso resoconto della tua infanzia», gli dissi.
…
Maud-Lucy aveva smesso di scrivere quando Laurentas aveva compiuto otto anni.
…
Forse per paura che mi mettessi in mente di fargli visita. Aveva raggiunto un’età in cui un minimo di spiegazioni bisognava darle. Ma all’epoca avevo già i miei figli e non ero in condizione di viaggiare.
…
Laurentas? Si disse dispiaciuto. E credo che lo fosse davvero.
…
Gli spiegai: «Ho avuto altri due figli. Tua madre è sempre stata Maud-Lucy». Ma non mi sentivo ottimista quanto volevo apparire. Dentro ribollivo di rabbia. E per tutto il tempo non aveva fatto che arrivarmi la voce di Walter Cronkite, via via più provato ogni secondo che passava.
…
Un giornalista, dell’epoca in cui i giornalisti avevano ancora l’obbligo di essere informati. Laurentas prese le lettere. Le tenevo avvolte nella mussola.
…
Mi disse: «Grazie per queste. È stata una madre meravigliosa».
…
Io concordai, naturalmente. Chi meglio di me avrebbe potuto saperlo? «Le mie condoglianze, Laurentas», gli dissi, e a quel punto lui si alzò e si avviò alla porta. Scese le scale e io rimasi sul terrazzo, con le braccia strette attorno al corpo per ripararmi dal freddo, in attesa di vederlo riapparire in strada. Si sentivano i televisori accesi ovunque, le persone erano tutte prese da quella tragedia nazionale, e io lì sul terrazzo, nel mio golfino di lana sottile, con la mia banale tragedia personale che si dipanava sopra quella vera, la mia sciocca storiella di ragazza tradita da una donna, che di colpo si abbatté su di me, con una tale… violenza, con molta più forza di quanto avrebbe fatto, suppongo, in un giorno in cui la povera Jackie non avesse avuto il tailleur macchiato di sangue.
…
Niente, in realtà. Che altro c’era da fare? Era venuto su richiesta di Maud-Lucy. La sua famiglia era già abbastanza grande e complicata; di problemi ne aveva d’avanzo.
…
Seguii con gli occhi la sua bella Chrysler fino in fondo alla strada. Mi domandai dove avesse programmato di trascorrere la notte. Forse avrei dovuto chiedergli di restare con me.
…
E poi?… Immagino che rientrai in casa. Spensi la luce dell’ingresso, tornai in salotto, mi sedetti sul divano e piansi tutte le mie lacrime per il presidente.