25.

“Avresti potuto affittare un appartamento con un ingresso più riservato,” disse Harry.

Era una battuta stupida, ma in quel posto non c’erano battute buone da dire. Il suono spento delle sue parole fu come un diapason. Lì solo il silenzio era armonico.

Tommy era in piedi contro il muro. Aveva bisogno di una rasatura, e i suoi vestiti erano pieni di polvere. Gli occhi, arrossati dalla mancanza di sonno, sembravano vedere al massimo a pochi centimetri di distanza. Sembrava già derelitto proprio come l’edificio. Quando Harry era entrato l’aveva trovato rannicchiato contro il muro. Sentendo aprire la porta si era alzato. La paura per un attimo gli aveva dato concentrazione. Ma un attimo dopo era tornato come prima e fissava oltre Harry, ormai dimentico di dove si trovava.

Harry pensava di capire quella mancanza di reazione al suo ingresso. Chi era entrato non era Harry Rayburn. Era la non-apparizione del mostro di paura che Tommy stava costruendo nella propria mente. Quindi era irrilevante, perché quell’ossessione poteva occuparsi solo di se stessa.

“Ti ho portato ancora qualcosa. Hai mangiato?”

Tommy annuì vagamente. Ma il cibo che Harry gli aveva portato il giorno prima sembrava non essere diminuito. Un panino giaceva sul pavimento con sopra il segno di un morso. Non era imbottito, solo farina cotta.

“Tommy,” disse Harry. “Lascia che ti porti via di qui, stasera, va bene?”

Tommy non lo guardava.

“Per favore.”

Lui si mosse lungo il muro, fino ad arrivare nell’angolo in fondo alla stanza. Era una specie di risposta.

“La polizia è venuta da me.”

L’attenzione di Tommy aumentò per un attimo, poi si spostò di nuovo. La sua immobilità prendeva il posto delle domande. Stava aspettando di saperne di più.

“Non sanno ancora nulla, ma stanno indagando. Se resti qui ti troveranno. Devi andartene, Tommy. Fuori città.”

L’immobilità di Tommy era assoluta. Osservandolo, Harry restò senza parole. Con gli occhi fuori fuoco, davanti a sé vedeva solo Tommy, enorme, implacabile. Udiva i rumori del traffico, delle grida, e vedeva Tommy, completamente solo, in mezzo a tutto ciò. Non riuscì a parlare.

“Non c’è nessun posto dove andare.”

Tommy lo disse tranquillamente, come un inciso. Aveva il suono della certezza assoluta, qualcosa che non ha bisogno di forza per sostenersi. Per Harry, che aveva imparato la disperazione come risultato necessario di ciò che era, fu un suono familiare, tanto che lo udì non come un’espressione di quello che Tommy aveva fatto, ma di quello che gli avevano fatto credere di essere. La rotta non era importante, perché la destinazione era sempre la stessa. Tommy si trovava dove tanta gente voleva che stessero gli omosessuali: in un ghetto di schifo di se stessi.

Lo aveva visto succedere spesso, a persone che gli erano care. Opponevano alle supposizioni degli altri la realtà di se stessi, finché la pressione da sopportare diventava troppa. Perdevano la tensione necessaria della propria natura e diventavano caricature di se stessi, capaci solo di offrire il culo al mondo, come animali la cui unica risorsa è la conciliazione.

Harry disprezzava quell’atteggiamento. Gli era stata insegnata la disperazione, ma aveva imparato la sfida. Dalla tensione della sfida si era guadagnato il rispetto di sé. Non era una checca, che prendeva la propria identità dal fallimento del tentativo di essere qualcos’altro. Non era un gay, che pretendeva in pubblico una uniformità che nel privato non aveva senso. Era un omosessuale, ed era unico, come chiunque altro.

Era la cosa più difficile. Guardando Tommy si sentì urtato di nuovo da quella tremenda difficoltà, e il suo amore per lui crebbe ancora. Vide una natura spinta da esigenze incompatibili con la realtà che abitava. Ricordò come erano stati bene a letto insieme, così bene che Tommy era rimasto spaventato da ciò che questo faceva di lui. Scoprendo che stava diventando una certa cosa, si era precipitato a voler provare di essere un’altra. Harry pensava di capire lo stress che lo aveva spinto a fare quel tentativo. Quello stress era una specie di assoluzione, per quanto lo riguardava. Quell’omicidio era colpa di tanti. Perché solo uno doveva risponderne?

Tommy adesso si era messo a parlare. Frasi strane, sconnesse. “Thomasina, così mi chiamavano. Mio zio mi portò fuori a bere, una volta. Ma lo misi in imbarazzo. Semplicemente essendo me stesso. Ho sempre sentito il bisogno di provare che gli altri si sbagliavano. Una volta giocavo con un ragazzo e mi eccitai, senza sapere perché. Il modo in cui lui mi guardò. Come se avessi in faccia una macchia che non avevo mai notato. Avevano ragione loro, Harry. Non c’è nessun posto per me dove andare.”

Quelle frasi lasciarono perplesso Harry, finché vide dei fogli di carta sul pavimento e comprese che Tommy stava recitando alcuni pezzi delle cose che aveva scritto per trovare un senso al proprio passato. Aveva cercato di comprendere l’accaduto, e ogni momento di sofferenza che aveva disseppellito aveva solo aumentato la sua disperazione. Comparati con l’enormità di ciò che aveva fatto, quei momenti erano irrilevanti. Non costituivano una difesa. Ma questo non succedeva mai, pensò Harry, a meno che le proprie esperienze fossero viste attraverso la compassione di un’altra persona.

“Non è così, Tommy,” disse. “Ci sono dei posti in cui puoi andare. Sto sistemando le cose. Tutto ciò che ti chiedo è di lasciarti portare via di qui. Sono in contatto con un amico, che ti aiuterà. Uscirai da questo posto e andrà tutto bene.”

Tommy scosse la testa. Ma Harry era riuscito a convincersi di nuovo. La disperazione di Tommy intensificava il suo amore per lui. Sarebbe successo. Si erano guadagnati il diritto di stare insieme, indipendentemente da ciò che avevano fatto.

La squallida stanza in cui si trovavano, per Harry, era una specie di precipitato chimico della loro esperienza. La loro porzione del rumore e delle attività che li circondavano. In quel momento, si indurì in lui una consapevolezza che aveva acquisito nel corso del tempo. Conosceva l’aggressività della virtù pubblica, che prospera attraverso l’invenzione del suo opposto. Per sé, aveva tracciato una regola semplice: la sofferenza ingiusta è un assegno in bianco per chi la subisce. E ora loro due avrebbero incassato quegli assegni.

“Uscirai, Tommy. Te la caverai,” disse. “E più avanti io ti raggiungerò. Vivremo in un altro posto. Insieme. Andrà tutto bene. E questa è la verità.”

Non gli sembrò una vaga promessa da innamorato. La sua stessa esperienza impediva che lo fosse. Conosceva il pericolo rappresentato dalla polizia. E il rischio di aver coinvolto Matt Mason. Ma conosceva anche la propria forza, che stava nel rifiuto degli altri, nella solitudine che gli avevano insegnato.

Si meravigliò della propria capacità di seppellire nell’indifferenza una ragazza morta e tutti i propri scrupoli al riguardo. Ma significava solo che gli avevano insegnato bene.

“Andrà tutto bene,” ripeté.

Tommy restò in attesa.