11.
Il Bridgegate era deserto. Harry Rayburn aveva parcheggiato a una buona distanza, proseguendo a piedi. Superò il negozio di mobili usati e l’Alice’s Restaurant, un vecchio caffè la cui unica pretesa era il nome. Il portone coperto di lamiera ondulata era il numero diciassette. Si fermò, si voltò a guardare la strada, poi scrutò l’angolo con Jocelyn Square, dove il pub The Old Ship Bank era chiuso, come tutto il resto.
Il metallo sul portone era piegato, come Tommy aveva detto. Ma il portone era restato così a lungo in quella posizione che dovette spingerlo con forza per entrare. E non fu facile far passare la borsa da viaggio attraverso l’apertura.
L’ingresso era buio. Pensò di chiamare Tommy, ma riflettendoci meglio capì che doveva esser di sopra. In cima alle scale salì gli ultimi gradini con attenzione, perché erano corrosi. Anche la ringhiera non era sicura. Delle due porte, una era coperta di ragnatele. Quella giusta doveva essere l’altra.
L’aprì. Nel piccolo ingresso c’erano tre porte. Una proprio davanti a lui, che sembrava un armadio a muro, e altre due l’una di fronte all’altra. Rayburn esitò e aprì quella alla sua sinistra, che dava su una stanza vuota. La richiuse e aprì l’altra.
Vide subito Tommy. Non come un elemento isolato, ma come parte di una scena più grande, che interpretò immediatamente. Era schiacciato contro un angolo, voltato a metà verso di lui. Rayburn notò la parete scrostata. Vari strati di carta da parati non riuscivano a coprirne lo squallore. Notò il caminetto vuoto, i resti di una tenda di chintz sulla finestra, come la bandiera di una rispettabilità sconfitta. Al centro di quella rovina domestica c’era Tommy, che ne sembrava allo stesso tempo il distruttore e la vittima. Era ciò che quella rovina negava, perciò era stato obbligato a negarla a sua volta, per poter esistere. Era arrivato nel luogo in cui, dentro se stesso, probabilmente era sempre stato.
Si guardarono. Rayburn fece per avvicinarsi, e Tommy alzò una mano.
“Non toccarmi, Harry. Questa è la prima cosa. Non provare a toccarmi.”
Rayburn lasciò la borsa da viaggio al centro della stanza, come un’esca, e si ritirò sulla soglia. Tommy guardò la borsa.
“Hai portato la roba per scrivere?”
“È tutto lì. Ci sono anche cibo e coperte. E candele e fiammiferi. Ma perché non vieni via con me? Possiamo andarcene subito.”
“Hai visto mia madre?”
“Sì.”
“Cosa le hai raccontato?”
“Che sei nei guai con la polizia e non puoi tornare a casa. Non le ho detto perché. Ma questo dovevo spiegarglielo. Perché le ho chiesto di dire, se glielo avessero chiesto, che sei andato a Londra per due settimane. È tutto a posto.”
Rayburn pensò alla piccola donna dai capelli grigi con cui aveva parlato quella mattina. Pulita come l’acciaio inossidabile e altrettanto malleabile. Le interessava solo una cosa, che Tommy stesse bene. Doveva aver capito che il figlio aveva commesso qualcosa di grave, ma non aveva esitato ad accettare il compito che Rayburn le aveva assegnato.
“Chi era, Tommy?”
Tommy scosse la testa.
“Era quella ragazza di cui mi hai parlato?”
Lui annuì. Aveva tenuto la mano destra in tasca tutto il tempo. La tirò fuori e Rayburn si rese conto che stringeva un paio di mutandine. Con sopra del sangue.
“Tommy, io posso aiutarti. Posso portarti via di qui.” Cominciò ad avvicinarsi di nuovo. “Lasciami...”
Tommy fremette. “Non voglio essere toccato da nessuno!” gridò. “Non voglio parlare. Non voglio nessuno qui dentro.”
Rayburn lo fissò. Nell’isolamento di Tommy, vedeva un impegno totale. Tommy era la prova di ciò che Rayburn era riuscito a evitare.
“Tornerò, Tommy. Ti ho parlato di Matt Mason. Lui può aiutarti.”
Si voltò per uscire.
“Torna domani, Harry, per favore.”
Rayburn annuì e uscì. Sapeva che finché non avesse portato Tommy via di lì senza fargli correre rischi, non avrebbe trovato pace.