1.

Correre era strano. Il rumore dei piedi contro l’asfalto. I fari delle auto colpivano le pupille. Le braccia salivano davanti al corpo, scomposte, separate tra loro e anche da te. Come fossero mani altrui, le mani di gente sul punto di annegare. E notare tutto questo era inutile. Era come la radio dell’auto che continua a trasmettere musica dopo un incidente, anche se il conducente è morto.

Una voce sotto un berretto disse: “Dov’è l’incendio, figliolo?”.

Correre era pericoloso. Era un cartellone pubblicitario del panico, un’insegna al neon della colpevolezza. Camminare era sicuro. Come una maschera. Passeggiare. Chi passeggia è normale.

La cosa più strana era la mancanza di preavviso. Indossavi il solito vestito, sceglievi con cura la cravatta. Sull’autobus c’era stato un errore con il tuo resto. Mezz’ora prima avevi riso. Poi le tue mani ti avevano teso un’imboscata. Ti avevano tradito. Era successo in fretta. Le mani che sollevavano tazze e tenevano monete e salutavano, all’improvviso erano diventate selvagge. Una collera breve, le cui conseguenze erano per sempre.

E il significato di tutto cambiava. Non aveva senso, o ne aveva troppi, tutti misteriosi. Mani brutte. Il tuo corpo era un luogo strano. Pieno di nascondigli e angoli bui. Da quale di essi era venuta fuori la creatura che si era servita di te? Da nessuno che tu conoscessi.

Ma tu non conoscevi nessun luogo. Neppure quello in cui ti trovavi ora, tra le persone, come se fossi uno di loro. Potevi vedere riflesso nel vetro opaco l’uomo che pensavano che fossi. Un tizio con i capelli neri, occhi castani, bocca che non gridava. Odiavi la sua bruttezza. All’interno c’era una bottiglia verde, con dentro qualcosa che somigliava a un rametto di felce. C’era un naso con narici enormi. Sulla superficie scura del vetro c’erano strisce appannate lasciate da uno straccio. Un uomo stava parlando.

“Dovresti vedere mia moglie, amico.” Parlava verso il punto in cui ti trovavi tu. “Dovresti vederla quando torno a casa stasera. Sarà Iwo Jima, deserto di fuoco. Sono via da ieri mattina. Ho incontrato un vecchio amico ieri, dopo il lavoro. Cristo, abbiamo passato la notte a casa sua. Ci siamo appoggiati l’uno all’altro, capisci? Volevo aiutarlo a superare la morte della moglie. È morta dieci anni fa.” Bevve. “Penso che uscirò di qui e mi prenderò una bella sbronza. Almeno mi darà una scusa.”

Anche tu in passato pensavi che cose come quella fossero problemi. Dopo aver rotto un vaso a cui tua madre teneva molto, avevi pianto. Avevi nascosto i pezzi in uno stipo. Ti preoccupavi se arrivavi in ritardo, se offendevi qualcuno, se dicevi qualcosa che non avresti dovuto dire. Quell’epoca non sarebbe più tornata.

Tutto era cambiato. Potevi camminare per la città quanto volevi. Non ti avrebbe riconosciuto. Potevi chiamarne per nome ogni singola parte. Ma non ti avrebbe risposto. St. George’s Cross era solo macchine, che inventavano destinazioni per le persone che contenevano. Le auto controllavano la gente. Sauchiehall Street era un cimitero di lapidi illuminate. Buchanan Street era una scala mobile piena di estranei.

George Square. Avresti dovuto saperlo. Quante volte avevi aspettato un autobus notturno? La piazza ti rifiutava. Il tuo passato non significava nulla. Anche l’uomo nero sul cavallo nero era di un’altra nazione, di un altro tempo. Sir John Moore. “Lo seppellirono oscuramente, in piena notte,” diceva la poesia. Chi ti aveva detto il suo nome? Un insegnante di inglese sempre stanco. Sbadiglio Johnson. Ti aveva detto cose interessanti, fra uno sbadiglio e l’altro. Ma non ti aveva detto la verità. Nessuno te l’aveva detta. Quella era la verità.

Tu eri un mostro. Come eri riuscito a nasconderti per tanto tempo? Un giocoliere che lancia in aria una ruota di sorrisi, cenni del capo, coltelli e forchette, e due passi fino all’autobus, e sfogliare il giornale, per vent’anni, facendo della tua vita una macchia indistinta dietro la quale nascondere il vero te stesso. Finché lui si è presentato: io sono te.

George Square non aveva nulla a che fare con te. Apparteneva ai tre ragazzi che facevano gli equilibristi sullo schienale di una panchina, alle persone in fila in attesa dell’autobus per tornare a casa. Tu non potevi più tornare a casa.

Potevi solo camminare ed essere rifiutato dai posti in cui arrivavi, tranne dai più derelitti. Un grande caseggiato buio, che ospitava vecchi dolori, rabbie terribili. Incarcerava il passato. Accoglieva i fantasmi.

L’ingresso era umido. Il buio era tranquillizzante. Procedevi a tentoni tra gli odori. Lo zampettio morbido doveva essere di ratti. Le scale sarebbero state pericolose, per qualcuno che avesse qualcosa da perdere. In cima, c’era una porta rotta. Si poteva chiudere. Dalla strada arrivava pochissima luce. La stanza era vuota, un po’ d’intonaco era caduto dal soffitto.

Era strano quanto fosse poco il sangue, appena qualche macchiolina scura sui pantaloni, così potevi immaginare che non fosse mai successo. Ma era successo. Tu eri lì. Il corpo era come una lebbra, e tu eri il lebbroso, un contagio accucciato a terra, che dondolava sui talloni.

Eri diventato la solitudine. Il freddo era la cosa giusta. Da ora in poi saresti stato solo. Era quello che meritavi. Fuori, la città ti odiava. Forse ti aveva sempre escluso. Era sempre stata sicura di sé, così piena di persone dalla camminata presuntuosa, persone che non aprivano porte. Era una città dura. E ora tutta la sua durezza era rivolta a te. Una folla di facce acide girate verso di te, una folla di rabbie dirette contro di te. Non avevi nemmeno una possibilità.

Niente da fare, se non startene seduto e diventare quello che eri sempre stato. Ammettere il giusto odio contro tutti gli altri. In tutta la città non c’era nessuno che potesse capire ciò che avevi fatto, per condividerlo con te. Nessuno, nessuno.