4.
Il ragazzo aveva dormito. Quel fatto incredibile bastò a farlo tornare nel proprio corpo. Era un posto terrificante in cui trovarsi. Si svegliò rannicchiato contro il muro dove si era accasciato, esausto. La coscienza si era spenta all’improvviso, come una lampadina. E ora, sempre all’improvviso, si era riaccesa. Lui era ancora se stesso.
La parete scrostata contro la quale poggiava la testa sembrava premere contro di lui, come se stesse per crollargli addosso. Si sentiva schiacciato dall’impossibilità di alzarsi e fare qualcosa. L’enormità di ciò che aveva commesso si era solidificata in un fatto, durante la notte. Era lì, non poteva sfuggirgli.
Eppure, stranamente, non faceva parte di lui. La sensazione non era quella di aver fatto qualcosa, ma di aver preso parte a un evento esterno, come un’esplosione. Vide il corpo della ragazza, le gambe allargate in modo strano, la testa inclinata in un modo assurdamente umano, la posizione in cui era stata gettata dalla forza dello scoppio. Provò pietà per lei.
Ma si chiedeva cosa ci facesse lì. Era successo qualcosa di cui lui era solo una parte. Di cosa si trattava, esattamente? Non lo sapeva. Era in una stanza estranea, era sporco, aveva molto freddo. Arrivare da dove si trovava a cosa era successo sembrava impossibile. Ma era ciò che doveva fare.
Chiudere di nuovo gli occhi e cercare di nascondersi non serviva. La febbre terribile era passata. Il lusso di lasciarsi sopraffare dal senso di colpa era finito. Aveva pensato di annegarci dentro, invece era stato spinto a riva. Era stato lasciato lì, a capire come continuare a vivere, come abitare ciò che era successo.
Provò ad alzarsi e scoprì che poteva farlo. Il dolore alle gambe stava ridiventando gestibile. Osservò le mani che spolveravano automaticamente i pantaloni. Cominciò a camminare. Le scale, del tutto estranee, gli diedero la sensazione di lasciare un posto senza esserci stato. Doveva fare attenzione alla ringhiera rotta. La luce filtrava attraverso la lamiera ondulata sul portone, nel punto in cui l’aveva forzato per entrare. Il metallo si curvò sotto alle sue mani e guardò fuori.
Fuori non c’era nessuno. Uscì. Il sole per un attimo dissipò i suoi propositi. Restò in piedi nella strada deserta, frastornato, come fosse parte della polvere e del silenzio. Era difficile capire se andare a destra o a sinistra. Scelse a destra. Pochi metri dopo c’era un incrocio. Fu allora che riconobbe il luogo.
Di fronte a lui c’era il parco di Glasgow Green. Il Clyde era un centinaio di metri più a destra. Un posto reale voleva dire un posto dove la gente poteva trovarlo. Quella consapevolezza lo spaventò, e la paura lo spinse a proseguire. Attraversò la strada.
Fuori dal Green c’era una cabina telefonica. Quando entrò la porta a molla sembrò spingerlo dentro. Alzò la cornetta e la tenne all’orecchio. Il telefono era in servizio. La rimise sul sostegno. Vicino alla fessura in cui mettere le monete, era scritta la parola CUMBIE, in lettere nere. Più sopra c’era scritto BLACKIE. Blackie era il nome di un’altra gang? O il soprannome di qualcuno? Prese di tasca degli spiccioli e li mise sulla mensolina nera. Sollevò di nuovo la cornetta e l’avvicinò all’orecchio.
Compose il numero senza bisogno di ricordarlo. Quando sentì squillare fu sorpreso di essere riuscito a far succedere qualcosa. Attese con un terrore paziente, intrappolato nel silenzio della città, mentre il telefono perforava la distanza, cercando di rompere il suo isolamento.