capitolo ventitré
Uno dei maggiori vanti di Scathach era che nessuna prigione potesse mai trattenerla e che nessuno dei suoi amici potesse mai essere imprigionato contro la sua volontà. Ma stava cominciando a scoprire che quella prigione di Danu Talis era diversa. — Forse siamo nei guai — disse Scatty. — Guai seri.
La Guerriera era di fronte all’ingresso di una rozza caverna scavata nelle pareti della bocca di un vulcano attivo. La grotta era la sua cella.
Nel corso della sua lunga vita, Scathach era stata imprigionata dozzine di volte. Ma mai in quel modo. Era stata inseguita e intrappolata in micidiali Regni d’Ombra, era stata abbandonata su isole deserte e in alcuni dei luoghi più isolati e pericolosi della Terra. Era evasa dal temutissimo Castello di Elmina nel Ghana ed era fuggita con l’inganno anche dal Castello d’If, nel Mediterraneo.
Scatty si guardò intorno. Le pareti svettanti del vulcano erano punteggiate di centinaia di grotte; più della metà erano occupate, mentre altre erano piene di ossa fuse e brandelli di vestiti. Osservò il vimana muoversi verso l’alto, l’odore metallico che per un attimo disperdeva la puzza di zolfo.
La navicella si fermò di fronte a un’altra grotta, il tempo necessario per permettere a Jeanne di saltarci dentro. Un secondo disco volante si calò nella bocca del vulcano e si fermò quasi di fronte a lei. La cupola si aprì e Saint-Germain fu spinto in una grotta. L’immortale si spolverò i vestiti, quindi vide Scatty e Jeanne. Si salutarono con la mano. Il Conte si portò le mani a coppa davanti alla bocca e urlò, ma il boato del magma coprì le sue parole. Scrollò elegantemente le spalle e scomparve nella sua cella… per riapparire un attimo dopo, scuotendo la testa.
Anche Scathach entrò a guardarsi intorno. La cella – e immaginava che le altre fossero più o meno identiche – era più una nicchia che una grotta. Era alta a malapena per permetterle di stare in piedi, e così stretta che, a braccia aperte, si potevano toccare entrambe le pareti. Scathach scoppiò quasi a ridere al pensiero di Palamede chiuso in una cella del genere; a meno che non ce ne fossero di più grandi, sarebbe stato molto scomodo. Non c’erano porte, ma del resto non ce n’era bisogno: proprio sotto l’ingresso – molto, molto in basso – c’era una massa di lava bollente, rossa e nera, e c’erano solo tre passi fra il fondo della grotta e il precipizio. Solo Jeanne, la più minuta del gruppo, avrebbe avuto modo di stendersi. L’unica luce disponibile proveniva dai riflessi del magma. Il tanfo e il calore erano indescrivibili.
L’Ombra incrociò le braccia al petto e si guardò intorno. Non c’erano scale, scalette o ponti; l’unica via d’accesso alle grotte erano i vimana. E aveva appena visto l’ultimo disco volante roteare su e uscire dal vulcano.
Guardò prima verso Saint-Germain e poi verso la cella in cui William Shakespeare, appoggiato come se niente fosse alla parete, stava guardando giù, verso di lei. Di fronte al bardo intravide Palamede, seduto nella sua grotta con le gambe a penzoloni nel vuoto. Quando infine Scathach guardò in su, vide che Jeanne si stava sporgendo dal bordo e la guardava. Si salutarono con la mano. Stavano tutti guardando lei.
La Guerriera sapeva perché. Aveva salvato Nicholas dalla prigione della Lubyanka, a Mosca, a poche ore dall’esecuzione, e aveva liberato Saint-Germain – sebbene non avesse una gran simpatia per lui – dalla famigerata prigione dell’Isola del Diavolo. Quando Perenelle era stata rinchiusa nella Torre di Londra, Scathach aveva sbaragliato un centinaio di guardie e di mercenari armati; ci aveva messo meno di trenta minuti a liberare la Fattucchiera. E, naturalmente, aveva fatto irruzione a cavallo nel cuore stesso di Rouen per liberare Jeanne dalla morte certa sul rogo.
Distesa con la pancia a terra, Scathach esaminò le pareti di roccia, cercando appigli per i piedi e per le mani, ma erano troppo lisce. Si mise supina, ed esaminò la roccia sopra la sua testa: anche il soffitto sembrava levigato. Drizzandosi a sedere, piegò le gambe nella posizione del loto e posò le mani in grembo. — Forse sarà un tantino complicato — mormorò.
Spesso, perfino la minaccia dell’Ombra bastava ad assicurare la libertà di un prigioniero. Quando Hel aveva catturato Jeanne e l’aveva trascinata nel suo Regno d’Ombra, Scathach aveva fatto sapere che si sarebbe trovata sul ponte di Gjallarbrù all’ingresso del regno di Hel allo scoccare della mezzanotte. Se Jeanne non fosse stata rilasciata illesa, Scathach aveva promesso che avrebbe attraversato il ponte d’oro e sarebbe entrata nel regno… e che, alla fine, di quel mondo non sarebbe rimasto altro che polvere. Un minuto prima della mezzanotte, Hel in persona aveva scortato Jeanne sul ponte per consegnarla nelle mani della Guerriera.
D’un tratto un ciottolo le piombò sulla testa, e Scathach guardò in su.
Jeanne faceva capolino dal bordo della sua grotta, tre metri sopra di lei. — Allora, su una scala da uno a dieci, quanto siamo nei guai adesso?
“Abbiamo superato ogni limite” pensò Scatty, ma disse solo: — Stiamo andando per i tredici. — Vide le sopracciglia dell’amica inarcarsi per l’incredulità. — E va bene, facciamo quattordici.
— Be’, per fortuna non esiste nessuna prigione al mondo capace di trattenerti — replicò Jeanne, senza un’ombra di sarcasmo nella voce.
“Tranne forse questa” pensò la Guerriera.