Marte Ultore…

Era chiuso nella sua prigione da così tanto tempo, che aveva perso la capacità di distinguere fra i sogni e i ricordi. Le immagini e i pensieri che turbinavano nella sua mente erano davvero suoi, o vi erano stati impiantati da Clarent? Quando ripensava al passato, ricordava la propria storia, quella della spada, o le storie di quelli che avevano impugnato la spada prima di lui? O era piuttosto una mescolanza confusa di tutte e tre? Qual era la verità?

Erano tante le cose di cui Marte Ultore non era sicuro, e tuttavia c’erano alcuni ricordi a cui si aggrappava. Ricordi che costituivano una parte fondamentale del suo essere. Erano i ricordi che lo rendevano chi era.

Ricordava i suoi figli, Romolo e Remo. Quei ricordi non lo abbandonavano mai. Ma per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare il volto di sua moglie.

Marte…

Ricordava certe battaglie fino al più piccolo particolare. Conosceva il nome di ogni re e di ogni bifolco contro cui si era battuto, ogni eroe che aveva ucciso e ogni codardo che era fuggito al suo cospetto. Ricordava i viaggi di scoperta, quando insieme a Prometeo aveva esplorato il mondo sconosciuto, addentrandosi perfino nei Regni d’Ombra appena creati.

Divino Marte…

Aveva assistito a meraviglie e orrori. Aveva combattuto contro Antichi Signori e Arconti, contro i Grandi Antichi e perfino contro i pochi esemplari rimasti dei leggendari Signori della Terra. In quei giorni era stato adorato come un eroe, il salvatore degli homines.

Marte… Svegliati.

Non gli piaceva svegliarsi, perché la veglia portava con sé il dolore, e peggio ancora la consapevolezza di essere un prigioniero, e che tale sarebbe rimasto fino alla fine dei tempi. Quando era sveglio, la sua punizione, la sua pena, gli rammentavano i tempi in cui gli homines erano giunti a temerlo e a odiarlo.

Svegliati.

MarteMarteMarte

Quella voce – o era più di una? – era insistente, irritante e vagamente familiare.

Svegliati!

Nella sua prigione d’avorio, sepolta nelle profondità delle catacombe di Parigi, l’Antico Signore aprì gli occhi. Rimasero azzurri e luminosi un solo istante prima di diventare rossi e ardenti. — Che c’è? — ringhiò. La sua voce riecheggiò nell’elmo che non lasciava mai la sua testa.

Di fronte a lui c’era quella che aveva tutta l’aria di essere una coppia di homines. Erano alti e slanciati, con la pelle abbronzatissima che risaltava sul bianco dei jeans, della maglietta e delle scarpe da ginnastica. La donna aveva i capelli scuri molto corti, mentre la testa dell’uomo era rasata. Gli occhi di entrambi erano nascosti dietro identici occhiali scuri a fascia; se li sfilarono all’unisono, rivelando occhi luminosi, di un azzurro brillante, le pupille come minuscoli puntini neri.

Perfino nella sofferenza della sua aura che ardeva e si solidificava in eterno, Marte Ultore li riconobbe. Non erano homines, ma Antichi Signori. — Iside? — gracchiò nell’antica lingua di Danu Talis.

— È bello rivederti, amico mio.

— Osiride?

— Ti abbiamo cercato a lungo — disse l’uomo. — E ora ti abbiamo trovato.

— Ma guarda che cosa ti ha fatto la Strega — sussurrò Iside, addolorata.

La Strega di Endor aveva intrappolato Marte in quella prigione, che lei stessa aveva creato dal teschio di una creatura che non aveva mai abitato la Terra. Ma non si era accontenta di imprigionarlo: aveva creato un tormento ulteriore per il prigioniero. Aveva fatto in modo che l’aura di Marte ardesse in eterno, per poi indurirsi come lava sulla superficie della pelle, lasciandolo intrappolato in quell’enorme teschio a soffrire una perenne agonia.

Marte Ultore rise, e il suono fu come il riecheggiare di un ringhio. — Ho trascorso millenni senza vedere nessuno, e a un tratto sono di nuovo popolare.

Iside e Osiride si separarono, portandosi ai due lati di quella che somigliava a un’enorme statua grigia fissata per sempre nell’atto di sollevarsi. La metà inferiore del corpo di Marte Ultore, dalla vita in giù, era affondata nel terreno, che Dee aveva trasformato in avorio liquido e poi solidificato di nuovo, intrappolandolo. Dal braccio sinistro dell’Antico Signore colavano stalattiti di avorio, e arrampicate sulla sua schiena c’erano le sagome pietrificate dei due orribili satiri, Fobos e Deimos, con le bocche spalancate. Alle sue spalle c’era un lungo plinto di pietra rettangolare, dove era rimasto disteso e indisturbato per migliaia di anni. Ora la spessa lastra era spezzata in due.

— Sappiamo che Dee è stato qui — disse Iside.

— Sì. Mi ha trovato — confermò Marte. — Mi sorprende che vi abbia detto dove sono. Abbiamo combattuto. È lui che mi ha intrappolato qui nel terreno.

— Dee non ci ha detto nulla — replicò Osiride mentre esaminava fin nei minimi particolari le statue dei satiri. — Ti ha tradito. Ci ha traditi tutti.

Marte sibilò dal dolore. — Non avrei mai dovuto fidarmi di lui. Mi ha chiesto di risvegliare un ragazzo. Un gemello d’oro.

— E poi lo ha usato per evocare Coatlicue — bisbigliò Osiride.

— Coatlicue… — Un fumo nero e rosso si levò dagli occhi di Marte. Uno spasimo ne scosse il corpo, e grossi pezzi di aura indurita caddero a terra. L’aria secca si impregnò dell’odore di carne bruciata. — Ho combattuto contro l’Arconte l’ultima volta che ha imperversato nei Regni d’Ombra — boccheggiò nel dolore della sua aura ardente. — Ho perso molti buoni amici.

La donna vestita di bianco annuì. — Tutti abbiamo perso amici e parenti per causa sua. Il dottore è riuscito a scoprire dove si trovava e l’ha evocata.

— Ma perché? — tuonò Marte. — Non ci sono Antichi Signori a sufficienza in questo Regno d’Ombra per soddisfare il suo appetito…

Osiride tamburellò con le nocche sulla schiena dell’Antico Signore, come per testarne la forza. — Riteniamo che volesse sguinzagliarla in tutti i Regni d’Ombra. Abbiamo dichiarato Dee utlaga in seguito ai suoi molti fallimenti. Ora vuole vendetta, e c’è il rischio che la sua vendetta distrugga tutti i Regni d’Ombra e infine anche questo mondo. Vuole sterminarci tutti.

Iside e Osiride avevano compiuto un cerchio perfetto intorno all’Antico Signore e ora si trovavano nuovamente di fronte a lui. — Ma seguendo il suo fetore, siamo riusciti a rintracciarlo fin qui… fino a te — disse Iside.

— Liberatemi — supplicò Marte. — Lasciate che sia io a dare la caccia al dottore.

I due scossero la testa. — Non possiamo — replicò Iside mestamente. — Sofonia ti ha imprigionato usando dottrine degli Arconti e incantesimi dei Signori della Terra, a noi ignoti. Qualcosa che senza dubbio le aveva insegnato Abramo.

— Allora perché siete qui? — ringhiò Marte. — Cosa vi ha indotto a lasciare la vostra isola?

Una sagoma si mosse sulla soglia. — Gliel’ho chiesto io.

Vestita con una camicetta grigia e una gonna dello stesso colore, una donna dall’aspetto anziano si addentrò nella grotta. Era bassa e pingue, con i capelli dalle sfumature bluastre arricciati. Ampi occhiali scuri coprivano gran parte del suo viso, e la mano destra stringeva un bastone per ciechi. Picchiettando il bastone a terra, si portò di fronte all’Antico Signore, fermandosi quando il legno colpì la pietra.

— Chi sei? — domandò Marte.

— Non mi riconosci? — Sottili volute di aura bruna si levarono dalla pelle dell’anziana donna, e nell’aria si diffuse l’odore dolceamaro del legno bruciato.

Marte trasse un lungo respiro tremante, mentre ricordi a lungo sepolti riaffioravano alla sua memoria. — Sofonia!

— Marito… — sussurrò la Strega di Endor.

Gli occhi di Marte scintillarono, passando dal rosso all’azzurro e poi di nuovo al rosso. L’elmo cominciò a fumare. La pelle di pietra si ricoprì di mille crepe e cominciò a disfarsi in fetide squame. L’Antico Signore riuscì ad avanzare di pochi millimetri prima che il guscio si indurisse di nuovo. Quindi urlò e strillò finché la grotta non si riempì del tanfo della sua rabbia e della sua paura, un miscuglio di carne bruciata e ossa carbonizzate. Infine, esausto, guardò la donna che un tempo era stata sua moglie, la donna che aveva amato più di ogni altra, la donna che lo aveva condannato a quell’eternità di sofferenza. — Che cosa vuoi, Sofonia? Sei venuta a prenderti gioco di me?

— Sono venuta a liberarti — replicò l’anziana donna, con un sorriso sdentato. — È giunta l’ora. Questo mondo ha di nuovo bisogno di te.