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Miller
Quando aveva preso le parti di Holden contro il suo nuovo datore di lavoro, Miller era consapevole che ci sarebbero state delle conseguenze. La propria posizione nei confronti di Fred e dell’APE era già debole in partenza, e far presente che Holden e il suo equipaggio erano non soltanto più zelanti ma anche più fidati della gente di Fred non era la cosa giusta da fare in luna di miele. Il fatto che fosse la verità non faceva che peggiorare le cose.
Si era aspettato una sorta di ritorsione. Sarebbe stato ingenuo a non farlo.
‘Alzatevi, o uomini di Dio, siate uniti’ cantavano i manifestanti. ‘Aprite la porta ai giorni di fratellanza, e serratela alla notte del peccato...’
Miller si tolse il cappello e passò le dita tra i capelli che diradavano. Non sarebbe stata una bella giornata.
L’interno della Nauvoo mostrava più giunti e complicazioni di quanto non suggerisse la chiglia esterna. Lunga due chilometri, i suoi progettisti l’avevano disegnata per essere qualcosa di più di una grossa nave. Grandi livelli impilati gli uni sugli altri; ponti a travata in lega elaborati organicamente con ciò che sarebbero state radure dall’aspetto bucolico... L’intera struttura riecheggiava le grandi cattedrali della Terra e di Marte, elevandosi nello spazio e conferendo così stabilità gravitazionale d’accelerazione e dando maggior gloria a Dio. C’erano ancora soltanto ossature metalliche e orditure di substrati agricoli, ma Miller vedeva bene che direzione avrebbe intrapreso il tutto.
Una nave generazionale era una dichiarazione di ambizione onnicomprensiva e di profonda fede. I mormoni lo sapevano bene. Avevano abbracciato quel progetto. Avrebbero costruito una nave che era al contempo preghiera, compassione e celebrazione. La Nauvoo sarebbe stato il più grande tempio che l’umanità avesse mai edificato. Avrebbe guidato il suo gregge attraverso gli invalicabili golfi dello spazio interstellare, sarebbe stata la migliore speranza del genere umano di raggiungere le stelle.
Se non fosse stato per lui.
«Vuoi che li gassiamo, Pampaw?» chiese Diogo.
Miller considerò i manifestanti; a occhio e croce potevano essere in duecento, disposti a catena lungo le rampe di accesso e i condotti di lavorazione. I montacarichi e le gru industriali rimanevano immobili, con gli schermi spenti e le batterie azzerate.
«Sì, probabilmente dovremmo» sospirò Miller.
La squadra di sicurezza, la sua squadra, contava meno di tre dozzine di uomini e donne. Individui uniti più dai loro bracciali dell’APE che dall’addestramento ricevuto, dall’esperienza, dalla lealtà o dalla politica. Se i mormoni avessero scelto la via della violenza, sarebbe stato un bagno di sangue. Se avessero indossato le tute ambientali, la loro protesta sarebbe potuta andare avanti per ore. Forse per giorni. Diogo diede il segnale e, tre minuti più tardi, quattro piccole comete tracciarono un arco nello spazio a gravità zero, lasciandosi dietro scie esitanti di NNLP-alpha e tetraidrocannabinolo.
Era lo strumento di controllo antisommossa più blando e delicato che avessero in arsenale. Se qualcuno dei contestatori avesse avuto problemi polmonari, sarebbe probabilmente stato in pericolo ma, nell’arco di mezz’ora, si sarebbero tutti ritrovati in uno stato di rilassato torpore, fatti come pigne. NNLPa e THC era una combinazione che Miller non aveva mai usato su Ceres. Se avessero provato a metterla in magazzino, sarebbe stata rubata per i festini della centrale. Cercò di trarre un po’ di conforto da quel pensiero. Come se avesse potuto compensare le vite di sogni e di fatica che stava mandando in fumo.
Accanto a lui, Diogo scoppiò a ridere.
Gli ci vollero tre ore per completare un primo rastrellamento sulla nave, e altre cinque per acciuffare tutti i clandestini che si erano nascosti nei condotti e nelle stanze blindate, in attesa di dichiarare la loro presenza all’ultimo momento per sabotare la missione. Mentre venivano portati via in lacrime dalla nave, Miller si chiese se non avesse appena salvato le loro vite. Se tutto ciò che avesse fatto nella sua vita fosse stato evitare a Fred Johnson la scelta di dover decidere tra il mandare a morire una manciata di innocenti sulla Nauvoo e il rischiare di tenersi Eros con i pianeti interni in agguato, in fondo non sarebbe stato male.
Non appena Miller diede il via libera, la squadra tecnica dell’APE si mise in azione, riattivando gru ed elevatori, riparando le centinaia di piccoli atti di sabotaggio che avrebbero impedito ai motori della Nauvoo di accendersi, portando fuori l’equipaggiamento che volevano salvare. Miller osservò montacarichi industriali, abbastanza grandi da ospitare una famiglia di cinque persone, spostare cassa dopo cassa, portando fuori cose che erano state appena portate dentro. I moli erano affollati come quelli di Ceres a metà turno. Miller si aspettava quasi di vedere i suoi vecchi compagni di lavoro aggirarsi tra gli stivatori e i tubi di carico, mantenendo quella che passava per pace.
Nei momenti più tranquilli, impostava il suo terminale palmare sui canali di Eros. Quando era bambino, c’era stata un’artista molto in voga... Jila Sorormaya, si chiamava. Da quel che ricordava, l’artista aveva intenzionalmente corrotto degli apparati d’immagazzinamento dei dati per poi far passare il loro flusso attraverso il suo impianto musicale. Era finita nei guai quando alcuni dei codici riservati del software dell’apparato d’immagazzinamento erano passati nella sua musica ed erano stati postati. Miller non era un tipo sofisticato. Aveva semplicemente pensato che un’altra artista svitata si sarebbe dovuta trovare un lavoro vero, e che l’universo non poteva che essere un posto migliore per questo.
Ascoltando la trasmissione radio di Eros – Radio Eros Libera, l’aveva chiamata – pensò che forse era stato un po’ troppo severo con la povera Jila. Gli stridii e i sussurri sovrapposti, il flusso di rumori insensati punteggiati da voci erano inquietanti e coinvolgenti. Proprio come quella marea di dati violati, era la musica della corruzione.
‘...blot away the pus so that they may feel better...’
‘...ja minä nousivat kuolleista ja halventaa kohtalo pakottaa minut ja siskoni...’
‘...fa’ quel che devi...’
Aveva ascoltato quelle parole per ore, individuando le singole voci. Una volta, l’intero canale aveva vacillato, andando e venendo come un altoparlante sull’orlo della rottura. Soltanto dopo che ebbe ripreso a trasmettere normalmente, Miller si chiese se quei momenti di silenzio fossero stati una sorta di codice morse. Si appoggiò alla paratia, con l’immensa massa della Nauvoo che torreggiava sopra di lui. Una nave non ancora nata e già segnata per il sacrificio. Julie era seduta accanto a lui, con gli occhi puntati verso l’alto. I suoi capelli le fluttuavano intorno al viso; i suoi occhi non smettevano mai di sorridere. Miller era grato a qualunque artificio dell’immaginazione avesse impedito che la sua Juliette Andromeda Mao tornasse da lui con l’aspetto del suo cadavere.
Sarebbe stato una bella roba, eh?, disse lei. Volare nel vuoto senza una tuta. Dormire per cento anni e risvegliarsi nella luce di un sole diverso.
«Non gli ho sparato abbastanza in fretta, a quello stronzo» disse Miller ad alta voce.
Avrebbe potuto darci le stelle.
Una nuova voce s’intromise. Una voce umana, vibrante di rabbia.
«Anticristo!»
Miller sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e spense il canale di Eros. Un veicolo di trasporto prigionieri si avviava pigramente lungo il molo, con una dozzina di tecnici mormoni incatenati ai suoi pali di contenimento. Uno di loro era un giovane uomo con il viso butterato e gli occhi carichi di odio. Stava fissando Miller.
«Sei l’Anticristo, sei solo una caricatura di essere umano! Dio ti conosce! Si ricorderà di te!»
Miller si toccò il cappello in segno di saluto mentre i prigionieri venivano portati via.
«Le stelle stanno molto meglio senza di noi» disse, troppo piano perché qualcuno potesse udirlo a parte Julie.
Una dozzina di rimorchiatori precedevano la Nauvoo, con la ragnatela di nanotubi da traino invisibile da quella distanza. Tutto ciò che Miller vide fu quell’enorme mostro, che faceva parte di Tycho quanto le paratie e l’aria che respiravano, spostarsi nel suo letto, stirarsi e cominciare a muoversi. I razzi propulsori dei rimorchiatori illuminavano lo spazio interno della stazione, scintillando nelle loro manovre perfettamente coreografate come tante luci di Natale, e un brivido quasi subliminale attraversò le lunghe ossa d’acciaio di Tycho. In otto ore, la Nauvoo sarebbe stata abbastanza lontana da poter accendere i suoi giganteschi motori senza mettere in pericolo la stazione con la loro coda di scarico. Ci sarebbero volute più di due settimane prima che raggiungesse Eros.
Miller l’avrebbe preceduta di diciotto ore.
«Ehi, Pampaw» disse Diogo. «Fatto-fatto?»
«Già» rispose Miller con un sospiro. «Sono pronto. Raduniamo tutti quanti.»
Il ragazzo sorrise. Nelle ore passate dalla requisizione della Nauvoo, Diogo aveva aggiunto delle decorazioni di plastica rossa a tre dei suoi incisivi. A quanto pareva, avevano un significato profondo nella cultura giovanile della Stazione di Tycho: indicavano abilità, possibilmente con risvolti sessuali. Miller sentì un istante di sollievo nel non dover più condividere il buco del ragazzo.
Ora che stava a capo del servizio di sicurezza per conto dell’APE, la natura irregolare di quella milizia gli era più chiara che mai. C’era stato un tempo in cui aveva pensato che l’APE potesse essere una forza in grado di contrastare la Terra o Marte, in caso di guerra reale. E, certamente, avevano molte più risorse economiche di quanto avesse pensato. Avevano Fred Johnson. E avevano Ceres, ora, fintantoché fossero riusciti a tenerla. Avevano assaltato la Stazione di Thoth e avevano vinto.
Eppure, gli stessi ragazzini con cui era andato all’assalto erano stati impiegati come squadra antisommossa sulla Nauvoo, e più della metà di loro sarebbe stata sulla nave di demolizione quando sarebbe partita per Eros. Era la cosa che Havelock non avrebbe mai capito. Per quel che importava, era la cosa che neppure Holden avrebbe mai capito. Forse nessuno che avesse vissuto con la certezza e il sostegno di un’atmosfera naturale avrebbe mai potuto accettare completamente la forza e la fragilità di una società fondata sul principio di ciò che doveva essere fatto, del diventare rapidi e flessibili, come aveva fatto l’APE. Del diventare articolati.
Se Fred non fosse riuscito a costruire un trattato di pace, l’APE non avrebbe mai vinto contro la disciplina e l’unità d’intenti della marina militare di un pianeta interno. Ma non avrebbe nemmeno mai perso. Una guerra senza fine.
Be’, del resto cos’era la storia, se non questo?
E come avrebbe potuto mai cambiare qualcosa il raggiungere le stelle?
Mentre si dirigeva verso il suo appartamento, aprì una richiesta di linea sul terminale palmare. Sullo schermo comparve Fred Johnson: sembrava stanco ma all’erta.
«Miller» disse.
«Ci stiamo preparando a salpare non appena le cariche saranno pronte.»
«La stiamo caricando in questo istante» rispose Fred. «Abbiamo abbastanza materiale fissionabile da far sì che la superficie di Eros sia inavvicinabile per anni. Fate attenzione a come vi muovete. Se uno dei suoi ragazzi scende a fumarsi una sigaretta nel posto sbagliato, non saremo in grado di sostituire le mine. Non faremmo in tempo.»
Non aveva detto ‘sarete tutti morti’. A essere preziose erano le armi, non le persone.
«Sì. Ci starò attento» disse Miller.
«La Rocinante è già in viaggio.»
Non era qualcosa che Miller avesse bisogno di sapere, per cui doveva esserci un altro motivo per cui Fred gliene aveva parlato. Il suo tono attentamente neutro la rese quasi un’accusa. L’unico campione di protomolecola sotto controllo aveva appena lasciato la sfera d’influenza di Fred.
«Saremo là fuori per accompagnarla e avremo tutto il tempo necessario per tenere lontano chicchessia da Eros» assicurò Miller. «Non dovrebbe essere un problema.»
Su quel piccolo schermo, era difficile dire quanto fosse genuino il sorriso del detective.
«Spero che i suoi amici siano davvero all’altezza del compito» replicò Fred.
Miller sentì qualcosa di strano. Un piccolo vuoto appena sotto lo sterno.
«Non sono miei amici» precisò, mantenendo un tono di voce disinvolto.
«Ah, no?»
«Non ho esattamente degli amici. È più un gruppo di persone con cui ho lavorato» spiegò.
«Lei sembrava fidarsi molto di Holden» disse Fred, rendendola quasi una domanda. Una sfida, perlomeno. Miller mostrò un sorriso, sapendo che Fred sarebbe stato incerto come lui sul fatto che fosse genuino o meno.
«Fidarmi, non direi. Si tratta di valutare le persone» replicò.
Fred eruppe in una risata.
«Ecco perché non ha amici, amico.»
«In parte» disse Miller.
Non c’era nient’altro da dire. Miller chiuse il collegamento. Ad ogni modo, era quasi arrivato al suo buco.
Non era niente di più. Un cubo anonimo sulla stazione, con ancor meno personalità del posto che aveva su Ceres. Si sedette sulla branda, controllò il terminale per verificare lo status della nave di demolizione. Sapeva che sarebbe dovuto salire ai moli. Diogo e gli altri si stavano radunando e, benché fosse improbabile che la nebbia di droghe dei festeggiamenti precedenti la missione avrebbe permesso loro di arrivare puntuali, era comunque una possibilità da non escludere. Non aveva nemmeno quella scusa.
Julie sedeva nello spazio tra i suoi occhi. Aveva le gambe piegate sotto di sé. Era bellissima. Era stata come Fred e Holden e Havelock. Una persona nata in un pozzo di gravità che era salita nella Fascia per scelta. Lei era morta per quella scelta. Era venuta a cercare aiuto, e aveva distrutto Eros nel farlo. Se fosse rimasta lì, su quella nave mimetica...
Julie inclinò la testa, con i capelli che pendevano contro la gravità di rotazione. Nei suoi occhi c’era una domanda. Aveva ragione, naturalmente. Forse avrebbe rallentato le cose. Non li avrebbe certo fermati. La Protogen e Dresden l’avrebbero trovata, alla fine. Avrebbero trovato la protomolecola. O sarebbero tornati e ne avrebbero estratto un nuovo campione. Niente avrebbe potuto fermarli.
E Miller sapeva, lo sapeva come sapeva di essere sé stesso, che Julie non era come le altre persone. Che aveva capito la Fascia e i cinturiani, e il bisogno di spingersi sempre oltre. Se non verso le stelle, perlomeno vicino a esse. Il lusso che le era stato concesso in vita era qualcosa che Miller non aveva mai sperimentato, e mai l’avrebbe fatto. Ma lei l’aveva rifiutato. Era venuta lì ed era rimasta perfino quando stavano per vendere la sua pinaccia da corsa. La sua infanzia. Il suo orgoglio.
Era per questo che l’amava.
Quando Miller raggiunse il molo, era chiaro che era successo qualcosa. Lo vide nella postura dei portuali e nell’espressione mezzo divertita, mezzo compiaciuta sui loro volti. Miller si registrò e strisciò attraverso il portellone stile Ojino-Gouch, in ritardo di settant’anni rispetto alla loro epoca e appena più largo di un mortaio per missili, fin sull’affollato ponte dell’equipaggio della Talbot Leeds. La nave sembrava essere il risultato della fusione di due navi più piccole, senza particolare attenzione per l’estetica. Le brande di accelerazione erano impilate a file di tre. L’aria puzzava di sudore vecchio e metallo caldo. Qualcuno aveva fumato marijuana abbastanza di recente da non aver lasciato il tempo ai filtri di eliminarne l’odore. Diogo era lì con un’altra mezza dozzina di ragazzi. Indossavano tutti uniformi diverse, ma avevano tutti il bracciale dell’APE.
«Ehi, Pampaw! Tenuto branda sopra á dir.»
«Grazie» disse Miller. «Lo apprezzo.»
Tredici giorni. Avrebbe trascorso tredici giorni condividendo quello spazio angusto con la squadra demolizioni. Tredici giorni schiacciati in quelle brandine, con megatoni di mine a fissione stipate nella stiva della nave. Eppure tutti gli altri stavano sorridendo. Miller si issò sulla branda di accelerazione che Diogo aveva riservato apposta per lui, e indicò gli altri con il mento.
«È per caso il compleanno di qualcuno?»
Diogo si strinse con fare innaturale nelle spalle.
«Perché sono tutti così fottutamente di buonumore?» domandò Miller, più bruscamente di quanto non intendesse. Diogo non se la prese. Sorrise con i suoi grossi denti rossi e bianchi.
«Audi-nichts?»
«No, non ho sentito, o non te lo chiederei» replicò Miller.
«Mars ha fatto la cosa giusta» disse Diogo. «Ha ricevuto le trasmissioni da Eros, ha fatto due più due, e...»
Il ragazzo schiantò un pugno contro il suo palmo aperto. Miller cercò di intuire che cosa intendesse dire. Avevano attaccato Eros? Avevano assaltato la Protogen?
Ah. Protogen. Protogen e Marte. Miller annuì. «La Stazione scientifica di Phoebe» disse. «Marte l’ha messa in quarantena.»
«Fanculo la quarantena, Pampaw. Autoclavata, l’hanno. La luna non c’è più. Le hanno rovesciato addosso abbastanza testate da disintegrarla in subatomiche.»
Sarà meglio che sia davvero così, pensò Miller. Non era una grossa luna. Se Marte l’aveva davvero distrutta e fosse rimasta una qualche protomolecola su un pezzo di detri...
«Tu sabez?» disse Diogo. «Sono dalla nostra parte, ora. L’hanno capito. Alleanza Marte-APE.»
«Non ci crederai davvero?» chiese Miller.
«Nah» rispose Diogo, compiaciuto con sé stesso nell’ammettere che quella speranza era fragile, nel migliore dei casi, e probabilmente falsa. «Ma sognare non fa male, que no?»
«Tu non credi?» disse Miller, e si sdraiò.
Il gel da accelerazione era troppo rigido per conformarsi al suo corpo al terzo di g dei moli, ma non era scomodo. Miller controllò i notiziari sul suo terminale palmare, e in effetti qualcuno all’interno della marina militare marziana doveva essersi avocato la responsabilità di una decisione. Erano un sacco di esplosivi da usare, specialmente nel bel mezzo di una guerra così accesa, ma avevano scelto di impiegarli. Saturno aveva una luna in meno, un altro piccolo anello non formato e filamentoso – sempre che ci fosse abbastanza materia rimasta dopo le detonazioni da formare perfino quello. All’occhio inesperto di Miller sembrò come se quelle esplosioni fossero state progettate per gettare i detriti nella zona di gravità protettiva e schiacciante del gigante gassoso.
Era sciocco pensare che la cosa significasse che il governo marziano non avrebbe desiderato avere un campione della protomolecola. Era ingenuo pretendere che qualsiasi organizzazione di quelle dimensioni e complessità avesse un parere univoco su un qualunque argomento, figurarsi su qualcosa di tanto pericoloso e mutevole.
Eppure...
Forse era già abbastanza sapere che qualcuno, dall’altra parte della trincea politica e militare, si era reso conto dell’evidenza degli stessi fatti che avevano visto loro ed era giunto alle medesime conclusioni. Forse lasciava un po’ di spazio per sperare. Miller cercò di nuovo il canale con le trasmissioni di Eros. Una forte pulsazione danzava in sottofondo a una cascata di rumori. Voci che salivano, che scendevano e che salivano di nuovo. Flussi di dati che si allacciavano compenetrandosi l’un l’altro, e i server di riconoscimento modulari che bruciavano ogni ciclo rimanente, creando qualcosa dalla confusione che ne risultava. Julie lo prese per mano; quel sogno era così convincente che poteva quasi far finta di sentirla.
Il tuo posto è qui con me, gli disse.
Non appena sarà tutto finito, pensò lui. Era vero che continuava a rimandare il punto finale del caso. Prima trovare Julie, poi vendicarla, e ora distruggere il progetto che aveva reclamato la sua vita. Una volta che avesse compiuto anche quello, avrebbe potuto lasciarsi andare.
C’era solo quell’ultima cosa che aveva bisogno di fare.
Venti minuti più tardi, suonò l’allarme. Trenta minuti dopo, i motori si accesero e lo schiacciarono nel gel a un’accelerazione tanto elevata da spaccare le articolazioni; sarebbe stato così per tredici giorni, con pause a un g ogni quattro ore, per l’espletamento delle funzioni fisiologiche. E, una volta arrivati, quella ciurma tuttofare addestrata alla bell’e meglio si sarebbe ritrovata a maneggiare mine nucleari capaci di annichilirli completamente se avessero fatto il minimo errore.
Almeno, però, Julie sarebbe stata con lui. Non per davvero, ma era già qualcosa.
Sognare non poteva far male.