16
Miller
Miller guardò il notiziario da Marte insieme al resto della stazione. Il pulpito era ammantato di nero, il che non era un buon segno. La stella e le trenta strisce della Repubblica Congressuale Marziana apparvero sullo sfondo non una, ma ben otto volte. Il che era un segno ancor peggiore.
«Non può essere accaduto senza un’attenta pianificazione» disse il presidente marziano. «Le informazioni che hanno cercato di sottrarre avrebbero compromesso la sicurezza della flotta marziana in maniera profonda e vitale. Hanno fallito, ma al prezzo di duemilaottantasei vite marziane. Si tratta di un’aggressione che la Fascia stava preparando da anni, se non di più.»
La Fascia, notò Miller. Non l’APE. La Fascia.
«Nella settimana seguente il primo attacco, abbiamo assistito a non meno di trenta incursioni nel raggio di sicurezza di navi e basi marziane, tra cui la Stazione di Pallas. Se dovessimo perdere quelle raffinerie, l’economia di Marte potrebbe patire un danno irreversibile. Di fronte all’evidenza di una guerriglia armata e organizzata, non ci rimane altra scelta che imporre un cordone militare sulle stazioni, sulle basi e sulle navi della Fascia. Il Congresso ha comunicato i nuovi ordini a tutti gli elementi navali al momento non attivamente impegnati in missioni per conto della Coalizione, e speriamo vivamente che i nostri fratelli e sorelle della Terra approveranno manovre congiunte della Coalizione con la massima urgenza.
«Il nuovo mandato della marina militare marziana avrà lo scopo di garantire la sicurezza di tutti i cittadini onesti, di smantellare le infrastrutture del male che in questo stesso istante si annidano nella Fascia, e di portare i responsabili di questi attacchi di fronte alla giustizia. Sono felice di poter comunicare che le nostre prime azioni hanno conseguito la distruzione di diciotto navi da guerra illegali e...»
Miller spense il notiziario. Era fatta. La guerra segreta era ormai di pubblico dominio. Papà Mao aveva ragione a voler far tornare Julie, ma ormai era troppo tardi. La sua cara figliola avrebbe dovuto correre qualche rischio, proprio come tutti gli altri.
Come minimo, questo significava coprifuoco e monitoraggio del personale in tutta la Stazione di Ceres. Ufficialmente, la stazione era neutrale. Non apparteneva all’APE, né ad altri. E la Star Helix era un’agenzia terrestre, senza nessun vincolo contrattuale o di trattato con Marte. Nella migliore delle ipotesi, Marte e l’APE avrebbero tenuto Ceres fuori dai loro scontri. Nel peggiore dei casi, ci sarebbero state altre rivolte. Altre morti.
No, non era così. Nel peggiore dei casi, Marte o l’APE sganceranno una manciata di testate nucleari o un asteroide sulla stazione, tanto per compiere un gesto simbolico. O magari faranno saltare in aria il reattore a fusione di una nave all’àncora. Se le cose fossero sfuggite di mano, il risultato sarebbero stati sei o sette milioni di morti e la fine di tutto ciò che Miller aveva sempre conosciuto.
Strano come sembrasse quasi un sollievo.
Miller lo sapeva da settimane. Tutti sapevano. Ma non era successo, per cui ogni discussione, ogni battuta, ogni interazione fortuita, cenno semianonimo e occasione di conversazione casuale sul tubo erano sembrati come un’evasione. Miller non poteva contrastare il cancro della guerra né rallentarne la diffusione, ma almeno poteva ammettere che tutto ciò stava accadendo. Si stiracchiò, mangiò l’ultimo boccone di caglio fungino, scolò i resti di qualcosa di non completamente dissimile dal caffè, e si preparò a mantenere la pace in tempo di guerra.
Muss lo accolse con un vago cenno del capo quando arrivò alla centrale. La lavagna era piena di casi: crimini da investigare, documentare e archiviare. Erano il doppio del giorno prima.
«Nottataccia» disse Miller.
«Poteva essere peggio» replicò Muss.
«Ah, sì?»
«La Star Helix poteva essere un’agenzia di Marte. Fintantoché la Terra resterà neutrale, non ci toccherà fare la parte della Gestapo.»
«E quanto tempo ancora pensi che durerà?»
«Che ore sono?» chiese lei, ironica. «Ma sai che ti dico? Quando ci si arriverà, ricordami di fare una visita su verso il nucleo. C’era questo tizio, quando ero nella squadra antistupro, che non siamo mai riusciti a incastrare...»
«Perché aspettare?» chiese Miller. «Potremmo andare su, piantargli una pallottola in fronte e tornare prima di pranzo.»
«Già, ma sai com’è» disse lei. «Cerco di rimanere professionale. E comunque, se facessimo una cosa del genere, poi ci toccherebbe indagare, e sulla lavagna non c’è più spazio.»
Miller si sedette alla scrivania. Erano solo chiacchiere da bar. Il tipo di umorismo cinico e scorretto che veniva naturale quando avevi le giornate piene di prostitute minorenni e droghe velenose. Eppure, nella centrale c’era tensione. La percepiva dal modo in cui i suoi colleghi ridevano, dal loro portamento. C’erano più fondine in vista del solito, come se mostrando le proprie armi potessero sentirsi al sicuro.
«Credi che sia stata l’APE?» chiese Muss. Aveva abbassato la voce.
«A far fuori la Donnager, dici? E chi altro potrebbe essere stato? Senza contare il fatto che hanno rivendicato l’attacco.»
«Alcuni di loro, sì. Da quanto ho sentito, c’è più di un’APE. Quelli della vecchia guardia pare che non c’entrino un cazzo di niente con tutta questa storia. Se la stanno facendo addosso, cercando di rintracciare l’origine dei comunicati pirata che rivendicano le azioni di guerriglia.»
«A che pro?» chiese Miller. «Anche se riuscissero a smantellare ogni trasmettitore che quegli sbruffoni hanno nella Fascia, ormai non cambierebbe una virgola.»
«Se ci fosse una scissione all’interno dell’APE, però...» Muss fissò la lavagna.
Se ci fosse stata una scissione all’interno dell’APE, la lavagna com’era in quel momento sarebbe stata ben poca cosa. Miller aveva già vissuto due guerre nel mondo del crimine organizzato. La prima, quando la Loca Greiga aveva detronizzato e distrutto gli Aryan Flyers, e la seconda quando la Golden Bough si era divisa. L’APE era più grossa, più cattiva e più professionale di qualunque di queste bande criminali. Nella Fascia sarebbe scoppiata una guerra civile.
«Potrebbe non succedere» disse Miller.
Shaddid uscì dal suo ufficio, percorrendo con lo sguardo l’interno della centrale. Il brusio delle conversazioni si attenuò. Shaddid incrociò lo sguardo di Miller. Gli rivolse un gesto secco, intendendo dirgli: ‘Venga nel mio ufficio.’
«Beccato» disse Muss.
Nell’ufficio, Anderson Dawes sedeva a suo agio su una delle poltrone. Miller sentì il suo corpo sussultare mentre la sua mente archiviava quell’informazione. Marte e la Fascia in aperto conflitto armato. Il rappresentante dell’APE su Ceres seduto accanto al capitano delle forze di sicurezza.
Ecco come stanno le cose, allora, pensò.
«Lei sta lavorando sul caso Mao» disse Shaddid mentre si sedeva. Miller non era stato invitato a fare altrettanto, per cui si limitò a rimanere in piedi con le mani dietro la schiena.
«Me l’ha assegnato lei stessa» replicò.
«E le ho detto che non era una priorità» disse lei.
«Ho dissentito» ribatté Miller.
Dawes sorrise. Era un’espressione sorprendentemente calorosa, soprattutto in confronto a quella di Shaddid.
«Ispettore Miller» disse Dawes. «Lei non capisce la situazione in cui ci troviamo. Siamo in equilibrio su una pentola a pressione, e lei sta continuando a prenderla a picconate. Deve smettere.»
«Le tolgo il caso Mao» disse Shaddid. «Ha capito bene? La sto ufficialmente rimuovendo dall’indagine, con effetto immediato. Se lei dovesse persistere nell’indagine, la sanzionerò per aver lavorato al di fuori del suo perimetro professionale e per appropriazione indebita di risorse della Star Helix. Desidero che mi restituisca qualsiasi materiale in suo possesso e che cancelli dalla sua partizione qualsiasi documento faccia riferimento al caso in questione. E lo farà prima della fine di questo turno.»
Miller sentì un capogiro, ma mantenne il viso impassibile. Gli stavano portando via Julie. Non glielo avrebbe permesso. Quello era poco ma sicuro. Ma non era il problema principale.
«Ho delle domande in sospeso...» cominciò a dire.
«No, non ne ha» replicò Shaddid. «La sua letterina ai genitori della ragazza è stata un’infrazione al protocollo. Qualunque contatto con gli azionisti deve passare tramite me.»
«Mi sta forse dicendo che non è stata inviata?» disse Miller. Sottintendendo: ‘Mi ha fatto spiare.’
«Non è stata inviata» rispose Shaddid. Come a voler dire: ‘Sì, è così. Crede forse di poterci fare qualcosa?’
Non c’era niente che potesse fare.
«E le trascrizioni dell’interrogatorio di James Holden?» chiese Miller. «Sono per caso uscite prima che...»
Prima che la Donnager venisse distrutta, portando con sé gli unici testimoni della Scopuli e facendo sprofondare l’intero sistema in una guerra totale? Miller sapeva che la sua domanda sembrava più un guaito che altro. La mascella di Shaddid si tese. Non sarebbe stato sorpreso di udire i suoi denti che si spaccavano. Fu Dawes a rompere il silenzio.
«Credo che possiamo renderle la cosa meno amara» disse. «Detective, se ho ben capito, lei crede che stiamo insabbiando il caso. Non è così. Ma non è interesse di nessuno che sia la Star Helix a trovare le risposte che lei sta cercando. Ci pensi. Lei sarà anche un cinturiano, ma lavora per un’agenzia terrestre. In questo momento, la Terra è l’unica potenza in gioco a non essersi ancora schierata. L’unica che può ancora negoziare con tutte le parti in causa.»
«E allora perché non dovrebbero voler conoscere la verità?» chiese Miller.
«Non è questo il punto» rispose Dawes. «Il punto è che la Star Helix e la Terra non possono apparire come coinvolte, in un modo o nell’altro. È necessario che le loro mani restino pulite. E questo caso la porterebbe a uscire dal suo contratto. Juliette Mao non si trova su Ceres, e può darsi che ci sia stato un tempo in cui lei, detective, sarebbe potuto saltare su una nave diretta in qualunque posto l’avesse trovata per porre un freno al rapimento. All’estradizione. All’estrazione. O comunque voglia chiamarlo. Ma quel tempo è passato. La Star Helix è Ceres, parte di Ganimede e qualche dozzina di asteroidi deposito. Se uscisse da questo perimetro, si avventurerebbe in territorio nemico.»
«Ma l’APE lo fa» disse Miller.
«Abbiamo le risorse per farlo come si deve» replicò Dawes annuendo. «Mao è dei nostri. La Scopuli era dei nostri.»
«E la Scopuli era l’esca che ha portato alla distruzione della Canterbury» replicò Miller. «E la Canterbury era l’esca che ha portato alla distruzione della Donnager. Per cui, per quale motivo dovremmo sentirci più tranquilli lasciando che siate gli unici a investigare su una faccenda che potreste aver provocato voi stessi?»
«Lei pensa che siamo stati noi a bombardare la Canterbury?» chiese Dawes. «L’APE, con le sue avanzatissime navi da guerra marziane?»
«La Donnager è stata attirata dove poteva essere attaccata. Finché rimaneva con la flotta, non poteva venir abbordata.»
Dawes sembrò amareggiato.
«Questo è complottismo, signor Miller» disse. «Se disponessimo di navi mimetiche marziane, non staremmo perdendo.»
«Vi è bastato quel che avevate per far fuori la Donnager con sei navi soltanto.»
«No. Non è così. La nostra versione dell’assalto alla Donnager sarebbe un mucchio di cargo prospettori, carichi di testate nucleari, lanciati in missione suicida. Abbiamo molte, molte risorse. Quel che è successo alla Donnager non è farina del nostro sacco.»
Il silenzio era interrotto soltanto dal ronzio del sistema di riciclo dell’aria. Miller incrociò le braccia.
«Ma... non capisco» disse. «Se non è stata l’APE, allora chi?»
«Questo possono dircelo Juliette Mao e l’equipaggio della Scopuli» rispose Shaddid. «È la posta in gioco, Miller. Trovare chi, perché e, a dio piacendo, come fare per fermare tutto ciò.»
«E non volete che vengano ritrovati?» disse Miller.
«Non voglio che sia lei a farlo» rispose Dawes. «Non quando altri possono farlo meglio.»
Miller scosse la testa. Si stava spingendo troppo in là, e lo sapeva. D’altra parte, a volte spingersi oltre poteva portare a qualche risposta.
«Non la bevo» disse.
«Non c’è bisogno che lei la beva» replicò Shaddid. «Questa non è una negoziazione. Non l’abbiamo convocata per chiederle un fottuto favore. Io sono il suo capo. Il mio è un ordine. Riconosce queste parole? Un. Ordine.»
«Abbiamo Holden» disse Dawes.
«Cosa?» chiese Miller nello stesso istante in cui Shaddid diceva: «Di questo non si doveva parlare.»
Dawes alzò un braccio per farle segno, nell’idioma fisico dei cinturiani, di tacere. Con grande sorpresa di Miller, Shaddid fece come le diceva l’uomo dell’APE.
«Abbiamo Holden. Lui e il suo equipaggio non sono morti e si trovano ora, o a breve lo saranno, sotto la custodia dell’APE. Capisce quel che intendo, ispettore? Comprende il mio ragionamento? Posso svolgere questa indagine perché ho le risorse necessarie per farlo. Lei, invece, non è stato neanche in grado di scoprire quel che è successo alle vostre attrezzature antisommossa.»
Fu come uno schiaffo. Miller si guardò le scarpe. Aveva infranto la sua promessa di abbandonare il caso, e Dawes non glielo aveva ancora rinfacciato. Doveva dargliene credito. Per di più, se James Holden era realmente nelle mani di Dawes, Miller non aveva alcuna possibilità di accedere all’interrogatorio.
Quando Shaddid parlò, la sua voce fu sorprendentemente gentile.
«Ieri ci sono stati tre omicidi. Otto magazzini sono stati svaligiati, probabilmente dallo stesso gruppo. Abbiamo sei persone nei reparti ospedalieri della stazione con il sistema nervoso in poltiglia per via di una partita difettosa di pseudoeroina fatta in casa. L’intera stazione ha i nervi a fior di pelle» disse. «Lei può rendersi davvero utile, là fuori, Miller. Vada ad acciuffare i cattivi.»
«Sicuro, capitano» rispose Miller. «Ci può scommettere.»
Muss lo stava aspettando, appoggiata alla sua scrivania. Aveva le braccia incrociate e lo stesso sguardo annoiato di quando avevano avuto sotto gli occhi il cadavere di Dos Santos inchiodato alla parete del corridoio.
«Ti ha rotto il culo?» gli chiese.
«Già.»
«Vedrai che guarirà. Dagli tempo. Intanto ho rimediato per noi uno degli omicidi: un contabile associato della Naobi-Shears a cui hanno fatto saltare il cervello fuori da un locale. Mi è sembrato divertente.»
Miller tirò fuori il palmare ed esaminò le linee generali del caso. Non ne aveva alcuna voglia.
«Ehi, Muss» disse. «Ho una domanda da farti.»
«Spara.»
«Metti che hai per le mani un caso che non vuoi che venga risolto. Che cosa faresti?»
La sua nuova partner si accigliò, inclinò la testa, poi si strinse nelle spalle.
«Lo assegnerei a un pollo» rispose. «C’era un tipo, quando ero nel reparto violenze contro i minori... Se sapevamo che il sospettato era uno dei nostri informatori, gli mollavamo sempre il caso. Nessuno dei nostri infiltrati ha mai avuto un problema.»
«Già» disse Miller.
«Per dirla tutta, se ho bisogno di assegnare un partner di merda a qualcuno, farei la stessa cosa» continuò Muss. «Hai presente, no? Uno con cui non vuole lavorare nessuno, tipo con l’alitosi o un carattere di merda, e che però è necessario integrare in coppia. Sceglierei quello che magari un tempo era bravo, poi però ha divorziato e ha cominciato ad alzare troppo il gomito. Quello che pensa di essere ancora un asso della centrale, che si comporta come tale. Solo che le sue statistiche non sono migliori di quelle degli altri. Sceglierei un tipo così, e gli assegnerei i casi di merda. I partner di merda.»
Miller chiuse gli occhi. Sentiva un grumo allo stomaco.
«Tu che cosa hai combinato?» chiese.
«Per farmi assegnare a te?» ribatté Muss. «Uno dei superiori ci ha provato con me, e io l’ho mandato in bianco.»
«Quindi ora sei impantanata con me.»
«Direi proprio di sì. Andiamo, Miller. Non sei uno stupido» disse Muss. «Dovevi saperlo.»
Doveva saperlo che era lo zimbello dell’intera centrale. Quello che un tempo era un asso. Quello che aveva perso il tocco.
No, in effetti non lo sapeva. Aprì gli occhi. Muss non sembrava né felice né triste, compiaciuta del suo dolore o particolarmente dispiaciuta per lui. Per lei era soltanto lavoro. I morti, i feriti, i mutilati... non gliene importava niente. Era così che superava le sue giornate.
«Forse non avresti dovuto respingerlo» disse Miller.
«Bah, in fondo non sei così male» rispose Muss. «E poi, quello aveva i peli sulla schiena. Detesto i peli sulla schiena.»
«Mi fa piacere sentirlo» disse Miller. «Andiamo a fare un po’ di giustizia.»
«Sei ubriaco» disse lo stronzo.
«Sono uno sbirro» rispose Miller, puntando il dito in aria. «Non fare lo stronzo con me.»
«Lo so che sei uno sbirro. Vieni nel mio locale da tre anni. Sono io, Hasini. E tu sei ubriaco, amico mio. Ubriaco fradicio. Pericolosamente ubriaco.»
Miller si guardò intorno. In effetti era al Blue Frog. Non ricordava di essere venuto fin laggiù, eppure eccolo lì. E lo stronzo era davvero Hasini.
«Io...» cominciò Miller, poi perse il filo.
«Andiamo» disse Hasini, passandogli un braccio sotto l’ascella. «Non è così lontano. Ti riporto a casa.»
«Che ore sono?» chiese Miller.
«Tardi.»
Quella parola aveva un senso profondo. Tardi. Era tardi. Ogni possibilità che aveva di sistemare le cose era ormai passata. Il sistema era in guerra, e nessuno sapeva bene perché. Miller avrebbe compiuto cinquant’anni a giugno. Era tardi. Tardi per ricominciare da capo. Tardi per rendersi conto di quanti anni avesse passato a percorrere la strada sbagliata. Hasini lo accompagnò verso un cart elettrico che il bar aveva comprato per occasioni come quelle. Dalla cucina giunse una zaffata di grasso bollente.
«Aspetta» disse Miller.
«Devi vomitare?» chiese Hasini.
Miller ci pensò per un istante. No, era troppo tardi per vomitare. Barcollò in avanti. Hasini lo fece accomodare nel cart e accese i motori. Con un ronzio, i due si immisero nel corridoio. Le luci sopra di loro erano attenuate. Il cart vibrava mentre superavano un incrocio dopo l’altro. O forse no. Forse era soltanto una sua impressione.
«Pensavo di essere bravo» disse. «Sai, per tutto questo tempo, pensavo di essere almeno bravo.»
«Te la cavi alla grande» rispose Hasini. «È solo che hai un lavoro di merda.»
«Che ero bravo a fare.»
«Te la cavi alla grande» ripeté Hasini, come se dirlo potesse renderlo vero.
Miller si sdraiò sul sedile posteriore del cart. L’arcata della ruota in plastica rigida gli premeva sul fianco. Faceva male, ma muoversi sarebbe stato troppo faticoso. Pensare era troppo faticoso. Aveva superato quella giornata, con Muss al fianco. Aveva consegnato i dati e i materiali raccolti su Julie. Non aveva niente per cui valesse la pena di tornare al suo buco, e nessun altro posto in cui recarsi.
Le luci andavano e venivano dal suo campo visivo. Si chiese se guardare le stelle fosse così. Non aveva mai osservato il cielo. Quel pensiero gli ispirava una certa vertigine. Una sensazione di terrore dell’infinito che era quasi piacevole.
«C’è qualcuno che può occuparsi di te?» domandò Hasini quando raggiunsero il buco di Miller.
«Starò bene. Ho soltanto... avuto una brutta giornata.»
«Julie» disse Hasini, annuendo.
«Come fai a sapere di Julie?» chiese Miller.
«Non hai fatto che parlarne per tutta la sera» rispose Hasini. «È la ragazza di cui ti sei innamorato, giusto?»
Accigliandosi, Miller lasciò una mano posata sul cart. Julie. Aveva parlato di Julie. Era quello il problema. Non il suo lavoro. Non la sua reputazione. Gli avevano portato via Julie. Il caso speciale. Quello più importante di tutti.
«Sei innamorato di lei, no?» chiese Hasini.
«Già, più o meno» rispose Miller, mentre una sorta di rivelazione si faceva largo tra i fumi dell’alcol. «Credo di sì.»
«Mi dispiace per te» disse Hasini.