Prologo

Julie

La Scopuli era stata presa otto giorni prima, e Julie Mao era finalmente pronta a farsi sparare.

Le ci erano voluti otto giorni trascorsi rinchiusa in un ripostiglio per arrivare a quel punto. Durante i primi due era rimasta immobile, certa che gli uomini in armatura che l’avevano imprigionata lì dicessero sul serio. Nelle prime ore, la nave su cui era stata portata non era in accelerazione, per cui lei aveva fluttuato nel ripostiglio, usando piccoli tocchi delicati per evitare di sbattere sulle pareti o sulla tuta ambientale con cui condivideva quello spazio angusto. Quando la nave si era cominciata a muovere e l’accelerazione le aveva conferito un peso, Julie era rimasta in piedi in silenzio finché non le erano venuti i crampi alle gambe, poi si era accovacciata in posizione fetale. Aveva urinato nella sua tuta, senza fare caso a quella tiepida, fastidiosa umidità o alla puzza, preoccupandosi soltanto di non scivolare e cadere sulla pozza che aveva lasciato a terra. Non poteva fare rumore. Le avrebbero sparato.

Il terzo giorno, la sete l’aveva spinta ad agire. Era completamente circondata dai suoni della nave: il ronzio subsonico dei reattori e della trasmissione meccanica; il sibilo e il battito costante degli ammortizzatori idraulici e delle serrature di acciaio dei portelloni pressurizzati che si aprivano e si chiudevano tra i ponti; il passo pesante di grossi stivali che avanzavano sulle passerelle di metallo. Julie aveva atteso finché tutti quei rumori non le fossero sembrati distanti, poi aveva tirato giù dai ganci la tuta ambientale e l’aveva adagiata sul pavimento del ripostiglio. Con l’orecchio teso per cogliere eventuali rumori in avvicinamento, aveva smontato con cautela la tuta e ne aveva estratto la scorta d’acqua. Era vecchia e stantia; evidentemente non era stata usata né revisionata da parecchio tempo. Ma Julie non beveva da giorni e quell’acqua tiepida e argillosa nella sacca di riserva della tuta le era sembrata la cosa più buona che avesse mai assaggiato. Imporsi di non mandarla giù a grandi sorsate per evitare di vomitare le era costato un notevole sforzo di volontà.

Quando aveva sentito di nuovo il bisogno di urinare, aveva tirato fuori la sacca collegata al catetere della tuta e si era liberata. Poi si era seduta sul pavimento – con la tuta imbottita da usare come cuscino era quasi confortevole – e si era chiesta chi mai potessero essere i suoi aguzzini: Marina della Coalizione, pirati... o magari qualcosa di peggio. Di tanto in tanto era riuscita a dormire.

Il quarto giorno l’isolamento, la fame, la noia e il numero sempre minore di posti in cui depositare i suoi bisogni, l’avevano finalmente spinta a cercare un contatto con loro. Aveva udito delle grida di dolore attutite. Da qualche parte, nelle vicinanze, stavano picchiando o torturando i suoi compagni di equipaggio. Se fosse riuscita ad attirare l’attenzione dei rapitori, magari l’avrebbero messa insieme agli altri. Sarebbe stato un bene. Poteva sopportare le percosse. Le era parso un piccolo prezzo da pagare, pur di poter vedere di nuovo qualcuno.

Il ripostiglio si trovava accanto al portellone pressurizzato interno. Durante il volo, quella normalmente non era una zona ad alta percorrenza, benché Julie non sapesse niente di questa particolare aeronave. Aveva pensato a cosa dire, a come presentarsi. Quando finalmente aveva sentito qualcuno venire dalle sue parti, aveva provato a gridare che voleva uscire da lì. Il rantolo secco che le era uscito dalla gola l’aveva sorpresa. Aveva deglutito a forza, usando la lingua per cercare di secernere un po’ di saliva, e aveva provato di nuovo: un altro debole rantolo.

C’era della gente, appena fuori dalla porta del suo ripostiglio. Aveva sentito una voce che parlava piano. Julie aveva caricato un pugno per picchiare sulla porta, poi aveva udito quel che diceva la voce.

«No. Vi prego, no. Vi prego, non fatelo.»

Dave. Il meccanico della sua nave. Dave, che collezionava brani dei vecchi cartoni animati e conosceva un milione di barzellette, stava implorando con voce rotta.

«No. Vi prego, no. Vi prego, non fatelo» aveva detto.

Gli ammortizzatori idraulici e i pistoni della serratura erano scattati all’apertura del portellone interno. Poi un tonfo carnoso, come di un corpo che veniva gettato dentro. Altri scatti quando avevano richiuso il portellone. Un sibilo d’aria in estrazione.

Quando il processo di pressurizzazione del portellone era terminato, la gente fuori dal suo ripostiglio se n’era andata. Julie aveva evitato di attirare la loro attenzione.

Avevano ripulito la nave. Essere arrestati dalla marina di uno dei pianeti interni era uno scenario decisamente indesiderabile, ma erano stati tutti addestrati nel caso si presentasse quell’evenienza. I dati sensibili dell’APE erano stati cancellati e sovrascritti con registri di carico dall’aspetto innocente e bolle di accompagnamento false. Qualunque informazione troppo sensibile per essere affidata a un computer, il capitano l’aveva distrutta. Così, quando gli assalitori erano saliti a bordo, l’equipaggio aveva potuto far finta di niente.

Invano.

Quella gente non era lì né per il carico, né per controllare i permessi. Gli intrusi avevano fatto irruzione come se fossero stati a casa loro, e il capitano Darren aveva fatto da zerbino. Tutti gli altri – Mike, Dave, Wan Li – si erano limitati ad alzare le mani e a lasciarli fare. I pirati, o schiavisti, o qualunque altra cosa fossero, li avevano trascinati fuori dal piccolo cargo, che era stata la loro casa, e giù lungo un tubo di attracco senza nemmeno fargli indossare una tuta pressurizzata. Il sottile strato di polietilene tereftalato del tubo era stato l’unica cosa che si frapponeva tra loro e il vuoto. Non avevano potuto far altro che pregare che non si strappasse: se l’avesse fatto, addio polmoni.

Anche Julie si era arresa; poi però quei bastardi avevano cercato di metterle le mani addosso, di strapparle via i vestiti.

Cinque anni di addestramento jiu-jitsu in assetto variabile e loro in un ambiente ristretto in assenza di gravità: Julie aveva fatto molti danni. Aveva quasi cominciato a credere di poter avere la meglio, quando un pugno guantato venuto dal nulla le si era schiantato in faccia. Da quel momento le cose erano state molto confuse. Poi il ripostiglio, e quel ‘Se fa un fiato, sparatele’. Quattro giorni passati a non fare un fiato mentre i suoi amici venivano picchiati da qualche parte sotto di lei, e poi uno di loro era stato gettato fuori dal portellone.

Dopo sei giorni, il mondo era diventato silenzioso.

Passando da momenti di veglia a sogni frammentati, Julie era scivolata in uno stato di semincoscienza mentre il rumore dei passi, delle voci e dei portelloni pressurizzati, del ronzio subsonico del reattore e dell’accelerazione si attutivano a poco a poco fino a svanire del tutto. Quando l’accelerazione era cessata, anche la gravità era venuta meno, e Julie si era risvegliata da un sogno in cui sfrecciava con la sua vecchia pinaccia per ritrovarsi invece a fluttuare a mezz’aria, con i muscoli che protestavano per la tensione prima di rilassarsi a poco a poco.

Si era avvicinata alla porta e aveva premuto l’orecchio sul metallo freddo. Si era sentita attraversare da un’ondata di panico, poi aveva percepito il ronzio basso dei riciclatori d’aria. La nave aveva ancora energia e ossigeno, ma l’accelerazione era stata interrotta, e non si udiva nessun rumore di portelloni, di passi o di voci. Forse l’equipaggio era in riunione. O stava facendo festa su un altro ponte. O forse ancora erano tutti impegnati in sala macchine, per aggiustare un guasto grave.

Julie aveva passato un giorno intero a origliare e ad aspettare.

Il settimo giorno aveva terminato l’ultimo sorso d’acqua. In quelle ventiquattr’ore non aveva udito alcun movimento sulla nave. Aveva succhiato una targhetta di plastica che aveva strappato dalla tuta ambientale finché non era riuscita a secernere un po’ di saliva; poi aveva cominciato a gridare. Aveva urlato fino a perdere la voce.

Non era venuto nessuno.

All’ottavo giorno, era pronta a farsi sparare. Aveva terminato l’acqua da due giorni e la sua sacca di evacuazione era piena da quattro. Si mise con le spalle contro la parete di fondo e puntellò le mani sulle pareti laterali del ripostiglio, poi diede calci alla porta con entrambe le gambe, più forte che poteva. I crampi lancinanti provocati dal primo calcio per poco non la fecero svenire. Cominciò a gridare.

Che stupida, si disse. Era disidratata. Otto giorni senza la benché minima attività fisica erano più che sufficienti per dare inizio al processo di atrofia. Avrebbe dovuto almeno fare un po’ di stretching, prima.

Si massaggiò i muscoli irrigiditi fino a far passare i crampi, poi fece qualche stiramento, concentrandosi come se si fosse trovata nel dojo. Quando fu di nuovo sicura di avere il pieno controllo del proprio corpo, diede un altro calcio. E ancora. E ancora, finché non cominciò a vedere una luce filtrare dall’esterno del ripostiglio. E ancora, finché la porta non fu talmente piegata che le tre cerniere e la serratura erano gli unici punti di contatto con il telaio.

Tirò un ultimo calcio, incurvandola ancora e riuscendo così a dislocare la serratura dalla controbocchetta e a spalancare la porta.

Julie si precipitò fuori dal ripostiglio con le mani a mezz’aria, pronta ad apparire minacciosa o terrorizzata, secondo quello che si fosse rivelato più utile.

Non c’era anima viva sull’intero ponte: la cabina di pressurizzazione, il ripostiglio per le tute dove aveva passato gli ultimi otto giorni e una mezza dozzina di altri magazzini... Completamente vuoti. Prese una chiave a pappagallo magnetica di dimensioni adatte a spaccare crani da un kit EVA, poi scese sul ponte di sotto attraverso la scala di servizio. E poi sul ponte ancora inferiore. Trovò le cabine del personale in perfetto ordine, in stile quasi militare. La cambusa recava segni di una colluttazione. L’infermeria era vuota. E nella sala siluri... nessuno. La stazione radio era deserta, completamente spenta, e sigillata. I pochi sensori rimasti attivi non mostravano alcun segno della Scopuli. Una nuova angoscia le annodò lo stomaco. Ponte dopo ponte, sala dopo sala, non trovò il minimo segno di vita. Doveva essere successo qualcosa. Una fuga radioattiva. Del veleno nell’aria. Qualcosa che aveva obbligato a un’evacuazione. Si chiese se sarebbe stata in grado di manovrare la nave da sola.

Però, se davvero avevano evacuato la nave, lei avrebbe comunque dovuto sentirli uscire dal portellone...

Raggiunse quello dell’ultimo ponte, che conduceva alla sala macchine, e si fermò quando non si aprì automaticamente al suo passaggio. Una luce rossa sul pannello di controllo indicava che la sala era stata sigillata dall’interno. Pensò di nuovo alla possibilità di radiazioni o di danni gravi al sistema. Ma se anche fosse stato quello il caso, perché chiudere la porta dall’interno? E aveva passato un portellone dopo l’altro: nessuno di quelli aveva presentato allarmi di alcun tipo. No, non doveva trattarsi di radiazioni, ma di qualcos’altro.

C’era più confusione, lì. Sangue. Attrezzature e cassoni gettati alla rinfusa. Qualunque cosa fosse successa, era successa lì. Anzi, era iniziata lì. Ed era finita dietro quella porta sigillata.

Le ci vollero due ore con una fiamma ossidrica e gli arnesi da scasso presi dall’officina per riuscire a tagliare un accesso attraverso il portellone. Con gli ammortizzatori idraulici ormai compromessi, dovette aprirlo a mano. Ne venne fuori una folata d’aria calda e umida che portava con sé un lezzo da ospedale senza antisettici. Un odore come di rame, nauseante. Doveva essere la sala delle torture. I suoi amici dovevano essere lì dentro, pestati a morte o fatti a pezzi. Julie impugnò la chiave inglese e si preparò a spaccare almeno una testa prima di farsi ammazzare. Fluttuò giù.

Il ponte meccanico era enorme, con il soffitto a volta come quello di una cattedrale. Il reattore a fusione nucleare dominava il centro della sala. Ma c’era qualcosa che non andava. Laddove si era aspettata di vedere display, scudi termici e monitor, uno strato di qualcosa di simile a fango sembrava fluire tutto intorno al nucleo del reattore. Julie fluttuò cautamente in quella direzione, tenendo una mano sulla scala. Lo strano odore che aveva sentito nell’entrare divenne soverchiante.

Il fango che si era raccolto attorno al reattore possedeva una struttura che non aveva mai visto prima di allora. Per tutta la sua lunghezza correvano dei tubi simili a vene, o canali di ventilazione. Parti di quella guaina sembravano pulsare. Non era fango.

Era carne.

Un’appendice di quella cosa si mosse verso di lei. Paragonata al tutto, sembrava essere non più grande di un dito mignolo. Era la testa del capitano Darren.

«Aiutami» le disse.