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Holden

Centocinquant’anni prima, quando i disaccordi territoriali tra la Terra e Marte avevano condotto i due pianeti sull’orlo della guerra, la Fascia era stata un lontano orizzonte di inestimabili ricchezze minerarie al di là di ogni ragionevole portata, e i pianeti esterni erano ben oltre le possibilità perfino dei sogni più irrealistici di qualunque società. Poi, però, Solomon Epstein aveva costruito il suo piccolo propulsore a fusione modificato, l’aveva schiaffato a poppa del suo yacht e l’aveva acceso. Con un buon telescopio, si poteva ancora vedere la sua nave procedere a una velocità marginalmente inferiore a quella della luce, diretta verso l’immensità del nulla. Il miglior funerale, sicuramente il più lungo, della storia dell’umanità. Fortunatamente, aveva lasciato il progetto nel suo computer di casa. Il propulsore Epstein non aveva permesso alla specie umana di raggiungere le stelle, ma le aveva consegnato i pianeti.

Con i suoi tre quarti di chilometro di lunghezza, un quarto di larghezza e il suo spazio interno perlopiù vuoto, la Canterbury era un cargo coloniale riattrezzato dalla forma vagamente simile a un estintore. Un tempo, la nave era stata piena di persone, provviste, diagrammi, macchinari, bolle ambientali e speranza. E sulla luna di Saturno ora abitavano qualcosa come venti milioni di persone. La Canterbury aveva trasportato lì quasi un milione dei loro antenati. Sulle lune di Giove erano in quarantacinque milioni. Una delle lune di Urano aveva cinquemila abitanti: era l’avamposto più remoto della civiltà umana, perlomeno finché i Mormoni non avessero terminato la costruzione della loro nave generazionale e non si fossero diretti verso le stelle e la libertà dalle restrizioni alla procreazione.

E poi c’era la Fascia.

Chiedendolo a un reclutatore dell’APE brillo e un po’ espansivo, ci si poteva sentir dire che nella Fascia c’erano cento milioni di persone. Un rilevatore di censimento dei pianeti interni avrebbe detto all’incirca cinquanta. In un verso o nell’altro, la popolazione era numerosa e abbisognava di molta acqua.

Per cui la Canterbury e le altre decine di navi sorelle della Pur’n’Kleen Water Company facevano ora avanti e indietro tra i generosi anelli di Saturno e la Fascia trasportando interi ghiacciai, e avrebbero continuato a farlo finché non si fossero consumate fino a diventare rottami inservibili.

Jim Holden lo trovava poetico.

«Holden?»

Lui si voltò verso il ponte dell’hangar. L’ingegnere capo Naomi Nagata torreggiava su di lui. Era alta quasi due metri, con la sua massa di capelli ribelli legati in una coda nera e un’espressione a metà strada tra divertimento e irritazione. Aveva l’abitudine, tipica dei cinturiani, di fare spallucce con le mani invece che con le spalle.

«Holden, mi stai ascoltando o stai solo fissando fuori dalla finestra?»

«C’è stato un problema» disse lui. «E siccome sei brava, ma brava davvero, sei in grado di sistemare la cosa anche se non hai abbastanza fondi o risorse.»

Naomi scoppiò a ridere.

«Lo sapevo: non mi stavi ascoltando» disse lei.

«Non proprio, no.»

«Be’, la prima parte comunque l’hai azzeccata. Il carrello di atterraggio del Knight non funzionerà in atmosfera finché non avrò sistemato quelle perdite. Pensi che sarà un problema?»

«Lo chiederò al vecchio» rispose Holden. «Ma quand’è stata l’ultima volta che abbiamo usato lo shuttle in atmosfera?»

«Mai, però la normativa ci impone di averne almeno uno in grado di navigare in essa.»

«Ehi, capo!» Amos Burton, l’assistente terrestre di Naomi, berciò dall’altra parte della baia d’attracco. Agitò un braccio robusto verso di loro. Intendeva Naomi. Quella poteva anche essere la nave del capitano McDowell e Holden poteva anche esserne il vicecomandante ma, nel mondo di Amos Burton, solo Naomi era ‘il capo’.

«Che succede?» gridò di rimando Naomi.

«Ho un cavo danneggiato. Puoi venire a tenere ferma questa stronzetta mentre cerco quello di riserva?»

Naomi fissò Holden con uno sguardo che diceva: ‘Abbiamo finito, qui?’ Lui le rivolse un saluto militare carico di sarcasmo e lei sbuffò, scuotendo la testa mentre si allontanava, una figura esile e slanciata in una lunga tuta da lavoro sporca di grasso.

Holden aveva passato sette anni nella Marina Militare della Terra, altri cinque a lavorare nello spazio con i civili, e non era mai riuscito ad abituarsi alle lunghe, sottili e improbabili ossa dei cinturiani. Un’infanzia trascorsa in gravità aveva modellato per sempre la sua visione delle cose.

Una volta nell’ascensore centrale, Holden tenne brevemente il dito sopra il tasto del ponte di navigazione, tentato dalla prospettiva di incontrare Ade Tukunbo – quel sorriso, la sua voce, il profumo di patchouli e vaniglia che usava mettersi nei capelli –, poi però premette il tasto dell’infermeria. Prima il dovere, poi il piacere.

Quando Holden entrò in sala operatoria, Shed Garvey, il medico di bordo, era chino sul suo tavolo da laboratorio, intento a sbrigliare con i suoi strumenti il moncone che rimaneva del braccio sinistro di Cameron Paj. Un mese prima, Paj si era ritrovato con il gomito schiacciato da un blocco di ghiaccio di trenta tonnellate che si spostava alla velocità di cinque millimetri al secondo. Non era un infortunio inconsueto tra quanti facevano il pericoloso lavoro di taglio e movimentazione di iceberg a gravità zero, e Paj stava affrontando quella situazione con il fatalismo di un vero professionista. Holden si sporse da sopra la spalla di Shed per dare un’occhiata mentre il tecnico tirava via una delle larve mediche dai tessuti necrotici.

«Che si dice?» chiese Holden.

«Direi che sta andando alla grande, signore» disse Paj. «Mi sono rimasti ancora un po’ di nervi. Shed, qui, mi stava spiegando come faranno ad agganciarci la protesi.»

«Posto che riusciamo a tenere la necrosi sotto controllo» precisò il medico «e che facciamo in modo che Paj non guarisca troppo prima che arriviamo su Ceres. Ho controllato la polizza, e il nostro Paj è stato con noi abbastanza a lungo da poter richiedere una protesi con force feedback, sensori di pressione e temperatura, e un software di calibrazione motoria di precisione. Il top. Sarà praticamente come un braccio vero. I pianeti interni hanno sviluppato un nuovo biogel che fa ricrescere l’arto, ma quello non è coperto dalla nostra assicurazione medica.»

«Fanculo gli interni, e fanculo la loro gelatina magica. Preferisco avere addosso una buona protesi artificiale costruita nella Fascia piuttosto che qualunque altra cosa coltivata in laboratorio da quei bastardi. Probabilmente mi basterebbe indossare il loro braccio da fighetto per rischiare di trasformarmi in un pezzo di merda» disse Paj. Poi aggiunse: «Uh, oh... Senza offesa, eh, vicecomandante.»

«Nessuna offesa. Sono contento che ti si possa rimettere a nuovo» rispose Holden.

«Digli l’altra cosa, doc» disse Paj con un ghigno sornione. Shed arrossì.

«Ne ho... ehm... Ne ho sentito parlare da altra gente che ha subìto questo genere d’impianti» iniziò Shed senza incontrare lo sguardo di Holden. «A quanto pare c’è un periodo, durante l’adattamento alla protesi, in cui, quando ci si dà piacere da soli, si ha l’impressione che sia qualcun altro a operare la masturbazione.»

Holden lasciò aleggiare quel commento nell’aria per un istante mentre le orecchie di Shed avvampavano.

«Buono a sapersi» disse Holden. «E la necrosi?»

«C’è un’infezione in corso» rispose Shed. «Ma le larve la stanno tenendo sotto controllo e anzi, in un contesto del genere, l’infiammazione è in realtà una reazione positiva, per cui evitiamo di curarla del tutto a meno che non cominci a diffondersi.»

«Sarà pronto per il prossimo carico?» chiese Holden.

Per la prima volta, Paj aggrottò la fronte.

«Cazzo, sì. Certo che sarò pronto. Sono sempre pronto. Questa è la mia vita, signore.»

«Probabilmente sì» disse Shed. «Dipende da come reagisce all’innesto. Se non sarà a questo giro, magari al prossimo.»

«Fanculo» replicò Paj. «Posso spaccare il ghiaccio con una mano sola meglio della metà delle femminucce che avete su questa carretta.»

«Ancora una volta,» disse Holden, trattenendo un sorriso «buono a sapersi. Procedete.»

Paj sbuffò. Shed estrasse un’altra larva. Holden tornò all’elevatore e stavolta non esitò.

Il ponte di navigazione della Canterbury era tutt’altro che impressionante. I grandi schermi a parete intera che Holden aveva immaginato quando era entrato come volontario in marina esistevano eccome, ma sulle navi ammiraglie, e anche in quel caso erano più orpelli di design che strumenti essenziali. Ade sedeva di fronte a un paio di monitor appena più grandi di un terminale palmare, con i grafici di efficienza e rendimento del reattore della Canterbury che si aggiornavano ai margini dello schermo e registri non elaborati che scorrevano sulla destra man mano che venivano trasmessi dal sistema. Un paio di grosse cuffie le coprivano le orecchie, da cui sfuggiva solo il tonfo sordo delle basse frequenze. Se la Canterbury avesse registrato un’anomalia, il sistema l’avrebbe avvertita. Se un elemento fosse incappato in un errore, il sistema l’avrebbe avvertita. Se il capitano McDowell avesse lasciato la plancia, il sistema l’avrebbe avvertita – cosicché avrebbe potuto spegnere la musica e farsi trovare indaffarata quando fosse arrivato da lei. Il suo futile edonismo era soltanto una delle mille cose che la rendeva attraente agli occhi di Holden. Lui le arrivò alle spalle, le tolse delicatamente le cuffie dalle orecchie e disse: «Ehi.»

Ade sorrise, picchiettò un dito sullo schermo e si passò le cuffie attorno al lungo collo slanciato, come fosse un gioiello tecnologico.

«Vicecomandante James Holden» disse con esagerata formalità, resa ancora più acuta dal suo forte accento nigeriano. «Che cosa posso fare per lei?»

«Sai, è buffo che tu me lo chieda» rispose lui. «Stavo giusto pensando a quanto sarebbe piacevole invitare qualcuno nella mia cabina alla fine del secondo turno. Magari per una cenetta romantica con la stessa sbobba che servono giù in mensa, per ascoltare un po’ di musica...»

«Bere un po’ di vino» continuò lei. «Infrangere un po’ di protocollo. È un pensiero carino, ma stasera non ho voglia di sesso.»

«Non stavo parlando di sesso. Un po’ di cibo, di conversazione...»

«Io stavo parlando di sesso» disse lei.

Holden si accovacciò accanto alla sedia. Con la loro velocità di crociera impostata a un terzo di g, era perfettamente a suo agio. Il sorriso di Ade si addolcì. Il file di registro mandò uno scampanellio; lei gli diede un’occhiata, inserì un codice e tornò a voltarsi verso di lui.

«Ade, tu mi piaci. Voglio dire, mi piace la tua compagnia» disse Holden. «Non capisco perché non possiamo passare un po’ di tempo insieme con i vestiti addosso.»

«Holden. Tesoro. Smettila, va bene?»

«Smettere cosa?»

«Smettila di cercare di trasformarmi nella tua ragazza. Sei un tipo a posto. Hai un bel culo, e a letto ci sai fare. Questo non significa che siamo fidanzati.»

Holden si dondolò sui talloni, sentendo la propria fronte che si aggrottava.

«Ade... Perché questa cosa funzioni, per me, dev’essere qualcosa di più.»

«Ma non lo è» disse lei, prendendogli la mano. «E va bene così. Sei il vicecomandante qui, mentre io sono solo di passaggio. Un altro carico, forse due, e poi non ci sarò più.»

«Non è che io sia incatenato a questa nave.»

La risata di Ade tradì affetto e incredulità.

«Da quanto tempo sei sulla Cant

«Cinque anni.»

«Non andrai da nessuna parte» disse lei. «Qui sei a tuo agio.»

«A mio agio?» replicò lui. «La Cant è un cargo frigorifero vecchio di un secolo. Si può trovare di peggio, come lavoro, in campo aerospaziale, ma bisogna davvero mettercela tutta. Tutti quelli che stanno qui sono terribilmente sottoqualificati, oppure hanno fatto qualche madornale cazzata sul loro ultimo posto di lavoro.»

«E tu ti senti a tuo agio qui.» I suoi occhi erano meno gentili, ora. Ade si morse il labbro, abbassò gli occhi sullo schermo e poi tornò ad alzarli.

«Questa non me la meritavo» disse lui.

«No, è vero» ammise lei. «Senti, ti ho detto che stasera non ero dell’umore adatto. Mi sento irritabile. Ho bisogno di una bella notte di sonno. Domani sarò più gentile.»

«Promesso?»

«Ti preparerò perfino la cena. Scuse accettate?»

Lui si sporse in avanti e premette le labbra sulle sue. Lei gli restituì il bacio, dapprima con garbo e poi con più calore. Le sue dita gli accarezzarono il collo per un istante, poi lo spinsero via.

«Ci sai davvero fare con queste cose, anche troppo. Ora dovresti andare» disse Ade. «Sai, siamo in servizio, e cose così.»

«Okay» rispose lui, senza accennare ad andarsene.

«Jim...» lo richiamò lei, appena prima che il sistema di comunicazione interna della nave crepitasse.

«Holden, sul ponte» disse il capitano McDowell, con voce piatta e riecheggiante. Holden replicò con un’oscenità che fece ridere Ade. Si chinò, le diede un bacio sulla guancia e tornò verso l’ascensore centrale, augurandosi in silenzio che il capitano McDowell potesse riempirsi di bubboni e patisse il pubblico ludibrio per quel suo tempismo inopportuno.

Il ponte era poco più grande degli alloggi di Holden e quanto la metà della mensa. Fatta eccezione per il monitor del capitano, vagamente sovradimensionato per via della vista calante di McDowell e della sua mancanza di fiducia nelle possibilità della chirurgia correttiva, sarebbe potuto essere il retrobottega di uno studio contabile. Nell’aria c’era un odore di astringente per le pulizie e di yerba mate lasciata in infusione troppo a lungo. McDowell si voltò sulla sua poltrona mentre Holden si avvicinava. Poi il capitano tornò ad appoggiarsi allo schienale, indicando con un dito la stazione radio alle proprie spalle.

«Becca!» sbottò McDowell. «Glielo dica.»

Rebecca Byers, l’ufficiale di collegamento in servizio, poteva essere nata da un incrocio tra uno squalo e un’accetta: occhi neri, tratti spigolosi, labbra tanto sottili che parevano del tutto inesistenti. A bordo girava voce che avesse accettato il posto per sfuggire al processo per l’omicidio del suo ex marito. A Holden, Rebecca stava simpatica.

«Una richiesta di soccorso» disse lei. «L’abbiamo ricevuta due ore fa. Ed è appena arrivato il riscontro radar dalla Callisto: il segnale è autentico.»

«Ah» disse Holden. Poi aggiunse: «Merda. Siamo i più vicini?»

«Siamo l’unica nave nel raggio di qualche milione di chilometri.»

«Be’. Direi che ci tocca» esclamò Holden.

Becca rivolse lo sguardo verso il capitano. McDowell fece scrocchiare le nocche e fissò il suo monitor. La luce dello schermo gli conferiva uno strano colorito verdastro.

«È vicino a un asteroide mappato estraneo alla Fascia» disse McDowell.

«Davvero?» esclamò Holden incredulo. «Cos’è, ci sono andati a sbattere? Non c’è nient’altro là fuori per milioni e milioni di chilometri!»

«Magari hanno fatto una sosta perché a qualcuno scappava la pupù. Tutto quello che sappiamo è che c’è un qualche imbecille laggiù che ha lanciato un segnale di emergenza, e che noi siamo i più vicini. Sempre che...»

La legge del sistema solare era inequivocabile. In un ambiente tanto ostile alla vita come lo spazio, l’aiuto e la buona fede di un collega umano non erano discrezionali. Il segnale d’emergenza, nel momento in cui veniva lanciato, obbligava la nave più vicina a fermarsi e a prestare soccorso. Il che non significava certo che la legge venisse universalmente rispettata.

La Canterbury era a pieno carico. Più di un milione di tonnellate di ghiaccio erano state fatte accelerare a poco a poco durante l’ultimo mese. E, proprio come il piccolo ghiacciaio che aveva schiacciato il braccio di Paj, sarebbe stato molto difficile farle rallentare. La tentazione di farsi venire un guasto inspiegabile nel sistema di comunicazione, di cancellare tutti i registri e di lasciar fare al buon dio Darwin era sempre presente.

Tuttavia, se fosse stata davvero quella l’intenzione di McDowell, non avrebbe convocato Holden. Né lo avrebbe dato a intendere in un ambiente in cui l’equipaggio avrebbe potuto sentirlo. Holden capì il suo giochino. Il capitano avrebbe fatto la parte di quello che avrebbe volentieri lasciato perdere se non ci fosse stato lui. L’equipaggio avrebbe rispettato il capitano per aver mostrato l’intenzione di non intaccare il profitto della spedizione. E d’altro canto avrebbe rispettato Holden per aver insistito sulla necessità di seguire le regole. A prescindere dal risultato, il capitano e Holden sarebbero comunque stati odiati per ciò che la legge e la mera decenza umana imponevano loro di fare.

«Dobbiamo fermarci» disse Holden. Poi aggiunse scherzosamente: «Potrebbe esserci un bel bottino.»

McDowell picchiettò sul suo schermo. La voce di Ade giunse dalla console, profonda e calda come se fosse stata lì nella sala.

«Capitano?»

«Mi servono i calcoli di arresto del carico» disse lui.

«Signore?»

«Cosa comporterebbe accostarci a CA-2216862

«Attracchiamo su un asteroide?»

«Glielo dirò quando avrà eseguito il mio ordine, navigatrice Tukunbo.»

«Sì, signore» disse lei. Holden udì una serie di ticchettii. «Se invertiamo la spinta immediatamente e apriamo a manetta per quasi due giorni, posso fare in modo di arrivare a cinquantamila chilometri, signore.»

«Definisca ‘apriamo a manetta’» disse McDowell.

«Tutto il personale dovrà restare confinato sulle brande di sicurezza.»

«Ovvio» sospirò McDowell, grattandosi la barba incolta. «E il ghiaccio in movimento ci farà soltanto un paio di milioni di danni sullo scafo, se ci dice bene. Sto diventando troppo vecchio per questa roba, Holden. Davvero.»

«Sì, signore. Ha ragione da vendere. E mi è sempre piaciuta la sua poltrona» disse Holden. McDowell lo fulminò con lo sguardo e rispose con un gesto osceno. Rebecca fece uno sbuffo che somigliava a una risata. McDowell si voltò verso di lei.

«Segnali al richiedente che stiamo arrivando. E informi Ceres che saremo in ritardo. Holden, a che punto siamo con il Knight

«Non possiamo operare in atmosfera finché non avremo sostituito alcune parti, ma non dovremmo avere problemi per cinquantamila chilometri nel vuoto.»

«Ne è certo?»

«Me lo ha confermato Naomi. Il che lo rende certo.»

McDowell si alzò, ergendosi in tutti i suoi due metri e venti, più magro di un adolescente terrestre. Tra la sua età e il fatto di non aver mai vissuto in un pozzo gravitazionale, l’imminente accelerazione sarebbe probabilmente stata un inferno per il vecchio capitano. Holden sentì un moto di compassione che non avrebbe mai espresso per non metterlo in imbarazzo.

«Il fatto è questo, Jim» disse McDowell, abbassando la voce per farsi sentire soltanto da Holden. «Ci viene richiesto di fermarci e di fare un tentativo, ma non è necessario scapicollarsi, se capisce cosa intendo.»

«Ormai ci saremo già fermati» disse Holden, e McDowell diede una pacca in aria con le sue grandi mani da ragno. Uno dei molti gesti dei cinturiani che si era evoluto fino a essere visibile anche indossando una tuta ambientale.

«Questo non posso evitarlo» disse il capitano. «Ma se là fuori dovesse sentire la minima puzza di bruciato, non faccia di nuovo l’eroe. Pianti baracca e burattini e faccia marcia indietro.»

«Lasciando tutto alla prossima nave in avvicinamento?»

«Riportando a casa la pelle» disse McDowell. «È un ordine. Ha capito?»

«Capito» rispose Holden.

Mentre il sistema di comunicazione interno prendeva vita e McDowell cominciava a spiegare la situazione all’equipaggio, Holden s’immaginò di riuscire a sentire il coro di mugugni che saliva dai ponti della nave. Andò da Rebecca.

«Allora» disse. «Che cosa abbiamo sulla nave in avaria?»

«Nave da trasporto leggera appartenente al registro marziano. Il porto di origine sarebbe Eros. Si chiama Scopuli...»