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Miller
Il detective Miller tornò a sedersi sulla sedia di schiuma con un sorriso di cortese incoraggiamento mentre si sforzava di dare un senso alla storia di quella ragazza.
«E poi è stato tutto un bam! La stanza era piena di sgherrilama che ululavano e sbattevano tibie» disse la ragazza, agitando una mano. «Sembra come un balletto, solo che Bomie fa una faccia che non ne sa niente mai e poi mai amen. Hai presente, que?»
Havelock, in piedi accanto alla porta, sbatté le palpebre un paio di volte. Il viso di quell’uomo tarchiato si velò d’impazienza. Era per questo che non sarebbe mai diventato ispettore capo. Ed era per questo che faceva schifo a poker.
Miller invece era molto bravo a poker.
«Assolutamente» disse Miller. La sua voce aveva assunto la cadenza di un residente di livello interno. Agitò la mano tracciando lo stesso arco pigro che aveva descritto la ragazza. «Bomie, mica ha visto. Braccio dimenticato.»
«Cazzo, braccio dimenticato, sì» confermò la ragazza, come se Miller avesse appena pronunciato un versetto del vangelo. Miller annuì e la giovane lo imitò per tutta risposta, come se fossero stati due uccelli intenti in una danza di accoppiamento.
Quel buco in affitto era composto da tre stanze con le pareti crema a macchie nere: bagno, cucina, salone. Le assi di un soppalco retrattile che fungeva da letto erano state rotte e riparate tante di quelle volte che ormai la struttura non si ritraeva più. Così vicino al centro di rotazione di Ceres, quello non era tanto un danno provocato dalla gravità quanto da una massa in brusco movimento. L’aria puzzava di birra, di vecchio lievito proteico e funghi. Cibo locale, per cui chiunque si fosse sbattuto la ragazza tanto forte da spaccarle il letto sembrava non avesse pagato abbastanza per la cena. O magari sì, e la ragazza aveva scelto di spendere i soldi in eroina, malta o MCK.
Ad ogni modo, quelli erano affari suoi.
«Que segue?» chiese Miller.
«Bomie evacua come perdenza aria» disse la ragazza ridacchiando. «Testacalda salta, kennis tu?»
«Ken» disse Miller.
«Ora, tutti nuovi sgherrilama. Più in alto. Io sono fuori.»
«E Bomie?»
Gli occhi della ragazza squadrarono lentamente Miller, dalle scarpe alle ginocchia, fino al cappello pork pie. Miller ridacchiò. Si diede una lieve spintarella sulla sedia e lasciò che la bassa gravità assecondasse il suo movimento nell’alzarsi in piedi.
«Lui mostra, e io ho chiesto, que sí?» disse Miller.
«Como no?» rispose la ragazza. ‘Perché no?’
Nei punti in cui non erano coperte di lerciume, le pareti del corridoio esterno erano bianche. Era largo dieci metri, in leggera pendenza in entrambe le direzioni. Le luci bianche a LED non cercavano nemmeno di imitare la luce del sole. Mezzo chilometro più giù, qualcuno aveva sbattuto sul muro talmente forte che si vedeva la roccia sotto l’intonaco, e il danno non era ancora stato riparato. Forse non lo sarebbe stato mai. Quello era uno scavo profondo, vicinissimo al centro di rotazione. I turisti non ci venivano mai lì.
Havelock procedeva in testa verso il loro cart, balzando sempre un po’ troppo in alto a ogni passo. Non saliva spesso ai livelli a bassa gravità, e si sentiva strano. Miller aveva passato una vita intera su Ceres e, a dire il vero, a quell’altezza capitava che l’effetto Coriolis rendesse poco stabile anche lui.
«Allora,» disse Havelock mentre digitava il codice della loro destinazione «ti sei divertito?»
«Non so di che parli» rispose Miller.
I motori elettrici si destarono con un ronzio e il cart prese ad avanzare con uno strattone nel tunnel, con le ruote viscose di schiuma che cigolavano appena.
«A farti la tua bella chiacchierata da esterno di fronte al terrestre...» spiegò Havelock. «Non sono riuscito a seguire nemmeno la metà di quel che vi siete detti.»
«Non si è trattato di un caso di gente della Fascia che escludeva il terrestre» disse Miller. «Piuttosto di gente povera che escludeva il tipo educato. E in effetti è stato piuttosto divertente, ora che mi ci fai pensare.»
Havelock scoppiò a ridere. Sapeva tollerare una presa in giro e ci passava facilmente sopra. Era quello che lo rendeva bravo negli sport di squadra: calcio, pallacanestro, politica.
Miller non era un granché in quel campo.
Ceres, la città portuale della Fascia e dei pianeti esterni, aveva un diametro di duecentocinquanta chilometri e decine di migliaia di chilometri di tunnel costruiti strato dopo strato dopo strato. Farla girare a 0.3 g aveva richiesto gli sforzi delle menti migliori della Tycho Manufacturing per mezza generazione, e i suoi ingegneri se ne gloriavano ancora. Ora Ceres contava più di sei milioni di residenti stabili, e più o meno un migliaio di navi all’attracco ogni giorno dell’anno ne aumentava il totale a circa sette milioni.
Platino, ferro e titanio dalla Fascia. Acqua da Saturno, verdure e carne dalle grandi serre a specchio di Ganimede ed Europa, prodotti organici dalla Terra e da Marte. Celle energetiche da Io, elio-3 dalle raffinerie di Rea e Giapeto. Un flusso di benessere e ricchezza mai uguagliato nella storia dell’umanità attraversava Ceres. E chi dice commercio, dice criminalità. Chi dice criminalità, dice forze di sicurezza dedicate a controllarla. Uomini come Miller e Havelock, cui toccava farsi un giro sui cart elettrici che risalivano per quelle grandi rampe, con la gravità artificiale della rotazione che si perdeva alle loro spalle, e interrogare vistose puttane da strapazzo su quel che era successo la sera in cui Bomie Chatterjee aveva smesso di raccogliere il pizzo per la Golden Bough Society.
La centrale della Star Helix Security, referente delle forze di sicurezza e guarnigione militare per la Stazione di Ceres, era situata al terzo livello della superficie dell’asteroide, si estendeva per due chilometri quadrati ed era scavata in profondità nella roccia, di modo che Miller avrebbe potuto risalire cinque livelli dalla sua scrivania senza nemmeno dover lasciare gli uffici. Havelock riportò il cart al parcheggio mentre Miller tornava al suo stanzino, scaricava la registrazione del loro incontro con la ragazza e la ripassava. Era arrivato a metà del video quando il suo collega gli si avvicinò con passo pesante alle spalle.
«Scoperto niente?» chiese Havelock.
«Non molto» disse Miller. «Bomie è stato aggredito da un gruppetto indipendente di delinquenti locali. A volte capita che i pesci piccoli come lui assoldino gente che faccia finta di aggredirli per poter recitare la parte dei duri senza paura. È un modo per accrescere la propria reputazione. È quel che intendeva lei quando ha parlato di balletto. I tipi che gli stavano addosso erano di quel genere lì, solo che, invece di fare la parte dell’eroe cazzuto, Bomie se l’è data a gambe e non è più tornato.»
«E adesso?»
«E adesso niente» disse Miller. «È questo che non capisco. Qualcuno ha fatto fuori uno scagnozzo della Golden Bough, e non ci sono state rappresaglie. Voglio dire, va bene che Bomie è un pesce piccolo, ma...»
«Ma una volta che iniziano a far fuori i pesci piccoli, ai pesci grossi arriva meno grana» concluse Havelock. «Ma allora perché la Golden Bough non ha fatto ricorso a un po’ di giustizia sommaria?»
«Questa storia non mi piace» osservò Miller.
Havelock ridacchiò. «Voi cinturiani...» disse. «Una cosa va in modo strano, ed ecco che vi mettete a pensare che l’intero ecosistema si stia schiantando. Se la Golden Bough è troppo debole per farsi rispettare, per noi è un bene. Se per caso non te lo ricordassi, quelli sono i cattivi.»
«Già. Be’...» riconobbe Miller. «Di’ pure quel che vuoi del crimine organizzato, ma almeno è organizzato.»
Havelock si sedette sulla piccola sedia di plastica accanto alla scrivania di Miller e allungò il collo per vedere la registrazione.
«Okay» disse Havelock. «Che diavolo è il ‘braccio dimenticato’?»
«Gergo pugilistico» spiegò Miller. «È il colpo che non vedi arrivare.»
Il computer emise un trillo e dalle casse uscì la voce del capitano Shaddid.
«Miller? È lì?»
«Ahia» mormorò Havelock. «Brutte notizie.»
«Come ha detto?» chiese il capitano con voce tagliente. Non aveva mai superato del tutto il suo pregiudizio sulle origini da interno di Havelock. Miller alzò una mano per zittire il suo partner.
«Sono qui, capitano. Che cosa posso fare per lei?»
«Venga da me» disse lei.
«Sto arrivando.»
Miller si alzò in piedi e Havelock prese il suo posto sulla poltrona da ufficio. Non si dissero niente. Sapevano perfettamente che se il capitano Shaddid avesse voluto vedere anche Havelock li avrebbe convocati entrambi. Un’altra ragione per cui non sarebbe mai diventato ispettore capo. Miller lo lasciò da solo con la registrazione, a rimuginare sui dettagli sensibili alla classe e posizione sociale, origine e razza. Il lavoro di una vita.
L’ufficio del capitano Shaddid era decorato in maniera delicata e femminile. Tappezzerie di vero tessuto adornavano le pareti, e il profumo di caffè e cannella che permeava l’aria proveniva da un inserto nel suo impianto d’aerazione che costava un decimo di quel che avrebbe speso se quelle due sostanze fossero state autentiche. Indossava la sua uniforme con noncuranza, con i capelli sciolti in aperta violazione del regolamento aziendale. Se a Miller avessero mai chiesto di descriverla, la definizione di ‘colorazione ingannevole’ avrebbe certamente figurato tra le sue scelte. Lei gli indicò una sedia col mento, e lui obbedì.
«Cos’avete trovato?» chiese il capitano, ma il suo sguardo era fisso sul muro alle spalle di Miller. Non si trattava di una domanda a trabocchetto; stava semplicemente facendo conversazione.
«La Golden Bough sembra attraversare la stessa fase della banda di Sohiro e della Loca Greiga. Sono ancora attive, ma... distratte. Sì, si può dire così. Stanno lasciando correre un po’ troppe cose. Hanno meno scagnozzi sul campo, meno uomini d’azione. Almeno mezza dozzina d’intermediari sono scomparsi.»
Questo catturò l’attenzione di Shaddid.
«Morti?» chiese lei. «L’APE si sta muovendo?»
Un’azione da parte dell’Alleanza dei Pianeti Esterni era lo spauracchio costante delle forze di sicurezza di Ceres. Inscrittasi nel solco tracciato da Al Capone e Hamas, IRA e Marziali Rossi, l’APE era benvoluta dalla gente che aiutava e temuta da quelli che la osteggiavano. In parte movimento sociale, in parte aspirante nazione e in parte rete terroristica, mancava completamente di qualsivoglia coscienza istituzionale. Il capitano Shaddid poteva avere in antipatia Havelock perché veniva da un pozzo di gravità, ma comunque accettava di lavorare con lui. L’APE invece l’avrebbe rinchiuso in una camera pressurizzata. Gente come Miller non poteva sperare in niente di meglio che in una pallottola in fronte, e pure di plastica. Niente che si potesse frammentare nelle tubature.
«Non credo» disse Miller. «Non sento puzza di guerra. È più... Onestamente, signora, non so cosa diavolo possa essere. I numeri sono importanti. Il pizzo sta calando, le bische clandestine anche. Cooper e Hariri hanno chiuso il bordello minorile su al sesto livello e, da quel che si sa, non ha più riaperto. C’è un po’ più di movimento da parte degli indipendenti ma, a parte questo, tutto sembra andare alla grande. C’è puzza di bruciato, ma soltanto quella.»
Lei annuì, ma il suo sguardo era tornato sulla parete. Miller aveva perso la sua attenzione con la stessa rapidità con cui se l’era conquistata.
«Be’, metta da parte questi pensieri» disse lei. «Ho qualcosa per le mani. Un nuovo incarico. Soltanto per lei. Senza Havelock.»
Miller incrociò le braccia.
«Un nuovo incarico» ripeté lentamente lui. «Ovvero?»
«Ovvero la Star Helix Security ha accettato un contratto per la fornitura di servizi distinti dagli incarichi di sicurezza per Ceres e, in qualità di caposettore dell’azienda, io lo riassegno a lei.»
«Sono licenziato?» chiese lui.
Il capitano Shaddid assunse un’espressione dolorosamente infastidita.
«È un incarico addizionale» spiegò. «Manterrà gli incarichi che ricopre al momento su Ceres. Solo che, in aggiunta... Senta, Miller, penso che sia un lavoro di merda tanto quanto quello che già svolge. Non la sto trasferendo dalla centrale e non le sto togliendo l’incarico principale. Questo è un favore che qualcuno giù sulla Terra sta facendo a un nostro azionista.»
«Ci mettiamo a fare favori agli azionisti, ora?» chiese Miller.
«Sarà lei a farlo» disse il capitano Shaddid. Ogni delicatezza era svanita, e con essa il tono provvisoriamente conciliatorio. I suoi occhi erano scuri come pietra bagnata.
«Bene, allora» disse Miller. «Immagino che sarà così.»
Il capitano Shaddid alzò il terminale palmare. Miller le andò accanto, solerte, tirò fuori il proprio e accettò la trasmissione dati a raggio ridotto. Qualunque cosa fosse, Shaddid la stava mantenendo accuratamente fuori dalla rete condivisa. Un nuovo file intitolato JMAO apparve sul display.
«Si tratta di un caso di figlia scomparsa» disse il capitano Shaddid. «Ariadne e Jules-Pierre Mao.»
Quei nomi gli dicevano qualcosa. Miller premette i polpastrelli sullo schermo del suo palmare.
«Della compagnia mercantile Mao-Kwikowski?»
«Esattamente.»
Miller fece un fischio sommesso.
La Maokwik poteva anche non essere tra le prime dieci aziende della Fascia, ma di certo era tra le prime cinquanta. In origine era uno studio legale coinvolto nel clamoroso fallimento delle città nuvola venusiane. Avevano usato il denaro ricavato da quella controversia legale durata decenni per diversificare la propria attività ed espandersi, principalmente nel campo del trasporto interplanetario. Ora la loro stazione aziendale era indipendente, a galla tra la Fascia e i pianeti interni, con tutta la regale maestà di un transatlantico oceanico che solcava gli antichi mari. Il semplice fatto che Miller sapesse queste cose di loro significava che avevano abbastanza denaro da potersi permettere di comprare e vendere uomini come lui a viso aperto.
E lui era appena stato comprato.
«Hanno base su Luna» disse il capitano Shaddid. «Dispongono di tutti i diritti e i privilegi conferiti dalla cittadinanza terrestre. Ma fanno un sacco di commercio navale da queste parti.»
«E hanno perso una figlia?»
«La pecora nera della famiglia» disse il capitano. «Durante gli studi si è fatta invischiare in un’organizzazione chiamata Fondazione Orizzonte Lontano. Un gruppo di attivismo studentesco.»
«L’avanguardia dell’APE» disse Miller.
«Un gruppo associato» lo corresse Shaddid. Miller la lasciò continuare, ma una scintilla di curiosità continuava a impensierirlo. Si chiese da che parte sarebbe stata il capitano Shaddid se l’APE avesse sferrato il suo attacco. «La famiglia l’aveva imputata a una semplice fase di ribellione. Hanno altri due figli più grandi per controllare la maggioranza delle azioni, per cui, se a Julie veniva voglia di andarsene a zonzo per lo spazio definendosi combattente per la libertà, per loro non era un gran danno.»
«Adesso però vogliono ritrovarla» disse Miller.
«È così.»
«Che cosa è cambiato?»
«Non gli è parso opportuno condividere questa informazione.»
«Chiaro.»
«Le ultime notizie su di lei riportano che lavorava sulla Stazione di Tycho ma che aveva un appartamento da queste parti. Ho trovato la sua partizione in rete e l’ho inquadrata. La password è nei suoi file.»
«Va bene» disse Miller. «Qual è il mio incarico?»
«Trovare Julie Mao, catturarla e rispedirla a casa.»
«Un rapimento, quindi» osservò lui.
«Sì.»
Miller abbassò gli occhi verso il suo terminale palmare, aprendo le cartelle e scartabellando tra i file senza davvero guardarli. Gli si era formato uno strano nodo allo stomaco. Aveva lavorato per i servizi di sicurezza di Ceres per trent’anni, e non aveva cominciato la carriera facendosi chissà che illusioni. La cosa buffa era che Ceres non aveva leggi: aveva la polizia. Le sue mani non erano più pulite di quelle del capitano Shaddid. Capitava che della gente cadesse inavvertitamente fuori dai portelloni pressurizzati; capitava che delle prove svanissero dai cassetti. Il punto non era tanto stabilire se fosse giusto o sbagliato, quanto piuttosto se si trattasse di un atto giustificato. Passando una vita intera in una bolla di pietra dove il cibo, l’acqua, perfino l’aria che respiravi ti venivano portati da luoghi tanto remoti che a malapena si riuscivano a vedere con un telescopio, una certa flessibilità morale era necessaria. Miller però non aveva mai dovuto accettare un incarico di rapimento prima di allora.
«C’è qualche problema, ispettore?» chiese il capitano Shaddid.
«No, signora» rispose lui. «Me ne occupo io.»
«Non ci perda troppo tempo» disse Shaddid.
«Sì, signora. C’è altro?»
Lo sguardo del capitano Shaddid si addolcì, come se stesse mettendo una maschera. Sorrise.
«Tutto bene con il partner che le ho assegnato?»
«Havelock è a posto» disse Miller. «Averlo intorno fa sì che la gente mi apprezzi per contrasto. È piacevole.»
L’unico cambiamento percepibile nel sorriso di Shaddid fu quello di diventare di un pelo più genuino. Non c’era niente di meglio che un po’ di sano razzismo condiviso per consolidare i legami con il caposettore. Miller salutò rispettosamente con un cenno della testa e uscì dalla stanza.
La sua buca era all’ottavo livello, in un tunnel residenziale largo un centinaio di metri con una striscia di cinquanta metri di parco scrupolosamente coltivata che correva lungo il centro. Il soffitto a volta del corridoio principale era illuminato da luci nascoste e dipinto di un blu che Havelock gli aveva assicurato corrispondere perfettamente al cielo estivo della Terra. Vivere sulla superficie di un pianeta, con la massa che ti tirava ogni osso e muscolo, senza nient’altro che la gravità a trattenere l’aria, sembrava una vera e propria follia. Il blu però era gradevole.
C’era chi seguiva l’esempio del capitano Shaddid e profumava i propri ambienti. Non sempre con aromi di caffè e cannella, certo. Il buco di Havelock profumava di pane appena sfornato. Altri optavano per essenze floreali o semiferomoni. Candace, l’ex moglie di Miller, preferiva un profumo chiamato ‘giglio terrestre’, che a lui aveva sempre fatto venire in mente i livelli di raccolta e riciclo dei rifiuti. In quel periodo Miller lasciava gli odori vagamente astringenti della stazione: aria riciclata che era già passata attraverso un milione di polmoni. E l’acqua del rubinetto era così pura che poteva essere usata in laboratorio, ma prima era stata piscio, merda, lacrime e sangue, e lo sarebbe diventata di nuovo. Il ciclo della vita su Ceres era così limitato che se ne poteva vedere la curva a occhio nudo. A Miller piaceva così.
Si versò un bicchiere di whisky di muschio, un liquore tipico di Ceres ricavato da muffe sviluppate in laboratorio, poi si tolse le scarpe e si accomodò sul letto di schiuma. Riusciva ancora a vedere lo sguardo di rimprovero di Candace e a sentirla sospirare. Scrollò le spalle come a scusarsi con il suo ricordo, e tornò a concentrarsi sul lavoro.
Juliette Andromeda Mao. Diede una letta al suo curriculum lavorativo e accademico. Era stata un’abile pilota di pinaccia. C’era una sua foto a diciott’anni con una tuta anti-g su misura e senza casco: una ragazza carina con una sagoma slanciata da cittadina lunare e lunghi capelli neri. Sorrideva come se l’universo intero le avesse appena dato un bacio. Le due righe che accompagnavano l’immagine dicevano che era arrivata prima in una gara chiamata la Parrish/Dorn 500K. Miller fece una breve ricerca: si trattava di una specie di competizione a cui potevano permettersi di partecipare soltanto i ricconi. La sua pinaccia, la Razorback, aveva battuto il record precedente e l’aveva mantenuto per due anni consecutivi.
Miller sorseggiò il suo whisky e si chiese che cosa fosse potuto accadere a una ragazza tanto ricca da possedere un veicolo privato in grado di portarla fin lì. Tra il competere in costose gare spaziali e l’essere legata come un salame per venire rispedita a casa in una capsula, ce ne correva... O forse no.
«Povera piccola riccastra» disse Miller allo schermo. «Immagino quanto possa essere difficile essere te.»
Richiuse i file e bevve con espressione seria e in silenzio, fissando il soffitto vuoto sopra di sé. La poltrona su cui soleva sedersi Candace per chiedergli come fosse andata la giornata era vuota, ma lui riusciva a vederla lo stesso. Ora che non era più lì per farlo parlare, era più facile rispettare i propri impulsi. Candace si era sentita sola. Adesso lo capiva. Se la immaginò che alzava gli occhi al cielo.
Un’ora dopo, con il sangue rinfrancato dall’alcol, si scaldò una ciotola di riso vero e fagioli finti – muffe e funghi potevano somigliare a qualsiasi cosa se prima bevevi abbastanza whisky –, aprì la porta del suo buco e consumò la cena osservando il traffico che gli passava pigramente davanti. Il secondo turno stava uscendo dalle stazioni del tubo. I bambini che abitavano due buchi più avanti, una ragazzina di otto anni e il fratellino di quattro, andarono incontro al padre e lo accolsero con abbracci, gridolini, rimproveri e lacrime. Il cielo blu brillava nella luce riflessa del soffitto, immutabile, statico, rassicurante. Un passero svolazzò giù per il tunnel, planando in un modo che Havelock gli aveva detto essere impossibile sulla Terra. Miller gli gettò un fagiolo finto.
Cercò di pensare alla figlia dei Mao, ma in realtà non gliene importava un granché. Stava succedendo qualcosa tra le famiglie del crimine organizzato di Ceres, e la faccenda lo rendeva teso come una molla.
Quella storia di Julie Mao era soltanto una questione marginale.