22
Miller
La nave passeggeri per Eros era piccola, scadente e sovraffollata. I riciclatori emanavano quell’odore di plastica e vernice tipico dei vecchi modelli industriali, che Miller associava a magazzini e depositi carburante. Le luci erano LED di bassa qualità con un filtro rosa che avrebbe dovuto migliorare l’incarnato, ma che invece conferiva alla gente un colorito da bistecca poco cotta. Non c’erano scompartimenti privati, soltanto file su file di sedili laminati e due lunghe pareti con cinque file di letti a castello che i passeggeri potevano usare a turno. Miller non era mai stato su una nave passeggeri economica prima di allora, ma sapeva come funzionava. Se ci fosse stata una rissa, l’equipaggio avrebbe iniettato gas antisommossa nello scomparto, mettendo tutti fuori combattimento e agli arresti chiunque fosse stato coinvolto. Era un sistema draconiano, ma tendeva a rendere molto più educati i passeggeri. Il bar era sempre aperto e l’alcol costava poco. Soltanto qualche giorno prima, Miller avrebbe trovato la cosa allettante.
Invece se ne stava seduto su una delle panchine, con il palmare aperto. Sullo schermo sotto i suoi occhi brillava il file di Julie, o quel che era riuscito a ricostruire dal fascicolo. C’era la foto di lei, fiera e sorridente, di fronte alla Razorback, date e registri d’imbarco, il suo percorso di addestramento jiu-jitsu. Gli parve molto poco, considerando quanto era diventata ingombrante quella donna nella sua vita.
Un piccolo avviso comparve in basso a sinistra sul suo schermo: la guerra tra Marte e la Fascia sembrava inasprirsi, incidente dopo incidente, ma la notizia principale era la secessione della Stazione di Ceres. La Terra veniva aspramente criticata dai commentatori marziani per non essersi schierata al fianco del pianeta interno, o quantomeno per non aver rimesso nelle mani di Marte il contratto per il mantenimento dell’ordine pubblico su Ceres. Le variegate reazioni della Fascia coprivano l’intero spettro di emozioni, dal piacere di vedere l’influenza della Terra ridursi fino a ripiombare in fondo al suo pozzo di gravità, a uno stridente panico per la perdita di neutralità di Ceres, al fiorire di una nuova serie di teorie cospirazioniste secondo cui la Terra stesse fomentando la guerra per un proprio tornaconto.
Miller sospendeva il suo giudizio.
«Mi fanno sempre venire in mente i banchi della chiesa.»
Miller alzò lo sguardo. L’uomo seduto accanto a lui doveva avere la sua età; con una striscia di capelli grigi e la pancia rilassata. Il sorriso del tizio disse a Miller che si trattava di un missionario, in rotta attraverso il vuoto per salvare qualche povera anima. O forse furono l’etichetta con il nome e la Bibbia a farlo.
«Questi sedili, dico» spiegò il missionario. «Mi hanno sempre fatto pensare a quelli di una chiesa, per come sono allineati, fila dopo fila. Solo che, invece di un pulpito, abbiamo i letti a castello.»
«Nostra Signora del Dormi che ti Passa» disse Miller, ben sapendo che così si sarebbe fatto trascinare nella conversazione, ma incapace di trattenersi. Il missionario rise.
«Una cosa del genere» replicò. «Lei va mai in chiesa?»
«Non ci vado da anni» rispose Miller. «Ero metodista, quando ero qualcosa. Lei che gusto vende?»
Il missionario alzò le mani in un gesto di inoffensività antico quanto le piane africane del Pleistocene. Come a dire: ‘Non ho armi; non cerco lo scontro.’
«Sto solo tornando su Eros da una conferenza su Luna» disse. «I miei giorni di proselitismo me li sono lasciati alle spalle da tempo.»
«Pensavo che non avessero mai fine» osservò Miller.
«È così. Ufficialmente, perlomeno. Dopo qualche decennio, però, arrivi a un punto in cui ti rendi conto che non c’è davvero nessuna differenza tra il provarci e il non provarci. Continuo a viaggiare. Continuo a parlare con la gente. A volte parliamo di Gesù Cristo. A volte di cucina. Se qualcuno è pronto ad accettare il Cristo, non ho grandi sforzi da compiere per spronarlo. Se non lo è, non c’è niente che io possa fare per aiutarlo. Per cui, perché provarci?»
«La gente le parla della guerra?» chiese Miller.
«Spesso» rispose il missionario.
«E qualcuno riesce a trovarci un senso?»
«No. Non credo che la guerra ne abbia mai uno. È una follia che fa parte della nostra natura. A volte si ripresenta; altre volte passa e se ne va.»
«Un po’ come una malattia.»
«L’herpes simplex della specie?» disse il missionario ridendo. «Suppongo che ci siano modi peggiori di vederla. Temo che, fintantoché saremo umani, la guerra resterà con noi.»
Miller fissò quel viso ampio e tondo come la luna.
«Fintantoché saremo umani?» chiese.
«Alcuni di noi credono che alla fine diventeremo angeli» rispose il missionario.
«Non i metodisti, no.»
«Alla fine lo diventeranno anche loro» disse l’uomo. «Ma probabilmente non saranno i primi. E lei, invece? Che cos’è che la porta qui su Nostra Signora del Dormi che ti Passa?»
Miller sospirò, appoggiandosi allo schienale inamovibile della panca. Due file più giù, una giovane donna sgridò due bambini che saltavano sulle panche, ma quelli la ignorarono. Un uomo alle loro spalle tossì. Miller trasse un lungo respiro e lo lasciò uscire piano.
«Ero un poliziotto, su Ceres» disse.
«Ah. Il cambio di contratto.»
«Già, quello» confermò Miller.
«Un nuovo incarico su Eros, allora?»
«Più che altro, sono alla ricerca di una vecchia amica» disse Miller. Poi, sorprendendo perfino sé stesso, continuò. «Sono nato su Ceres. Ho vissuto lì per tutta la vita. Questa è la... quinta? Sì, la quinta volta che esco dalla stazione.»
«Ha intenzione di tornare?»
«No» rispose Miller. Sembrò più sicuro di quanto non pensasse. «No, credo che quella parte della mia esistenza sia decisamente finita.»
«Dev’essere doloroso» disse il missionario.
Miller esitò, lasciando che quel commento penetrasse a fondo. Quell’uomo aveva ragione: sarebbe dovuto essere doloroso. Tutto ciò che aveva sempre avuto era andato. Il suo lavoro, la sua comunità. Non era più nemmeno uno sbirro, malgrado la pistola che aveva imbarcato come bagaglio registrato. Non avrebbe mai più mangiato al banchetto indiano ai margini del settore nove. La receptionist della centrale non l’avrebbe mai più salutato mentre si dirigeva verso la sua scrivania. Niente più notti passate al bar con gli altri poliziotti, niente più storie sboccate da condividere su qualche arresto andato storto, niente più bambini che facevano volare aquiloni negli ampi tunnel della stazione. Si tastò come un dottore in cerca di un’infiammazione. Faceva male, qui? E qui, sentiva il peso della perdita?
Non lo sentiva. C’era soltanto un’impressione di sollievo talmente profonda da avvicinarsi a un senso di vertigine.
«Mi dispiace» disse il missionario. «Ho detto qualcosa di buffo?»
Eros aveva una popolazione di un milione e mezzo di abitanti, poco più di quanti stranieri passavano per Ceres in qualunque momento. Aveva approssimativamente la forma di una patata, era stato molto più difficile impartirgli una rotazione, e la velocità percepita in superficie era sensibilmente più elevata rispetto a quella su Ceres, per ottenere la stessa gravità interna. I vecchi cantieri navali spuntavano dall’asteroide come grandi ragnatele d’acciaio e lega in carbonio intarsiate di luci di segnalazione e sensori per allontanare qualsiasi nave che potesse avvicinarsi troppo. Le caverne di Eros erano state la culla della Fascia. Dai minerali grezzi agli altoforni roventi, alle piattaforme di ricottura fino alle sue navi cisterna, ai cercatori di gas e alle navi prospettrici. Eros era stato uno scalo importante durante la prima generazione di un’umanità in espansione. Da lì, perfino il sole non era che un astro brillante tra miliardi di altre stelle.
L’economia della Fascia era andata avanti. La Stazione di Ceres aveva cominciato la sua rotazione con nuovi moli, un apparato industriale più avanzato e molta più gente. Le rotte commerciali si spostarono lì, mentre Eros rimaneva un centro di costruzioni e riparazioni navali. Il risultato era stato prevedibile come un calcolo di fisica. Su Ceres, più tempo si passava all’àncora e più si perdevano soldi, e la struttura tariffaria degli attracchi rifletteva questa realtà. Su Eros, una nave poteva aspettare per settimane, o mesi, senza ostacolare il flusso di traffico. Se un equipaggio voleva un posto in cui rilassarsi, distendersi un po’ e approfittarne per stare lontani gli uni dagli altri, Eros era il porto giusto. E, nonostante le sue tariffe più economiche, la Stazione di Eros aveva trovato altri modi per sfilare il denaro ai visitatori: casinò; bordelli; poligoni di tiro. Il vizio, in tutte le sue forme commerciali, trovava un nido su Eros, e l’indotto della stazione era fiorente come un fungo nutrito dai desideri dei cinturiani.
Per una felice coincidenza di meccaniche orbitali, Miller arrivò a destinazione con mezza giornata di anticipo sulla Rocinante. Si aggirò tra casinò da due soldi, bar da oppio, sex club e locali di combattimento dove uomini e donne facevano finta di picchiarsi a sangue per il piacere della folla. Miller s’immaginò Julie, lì accanto a lui, il suo sorriso furbo mentre leggevano i grossi cartelloni animati. RANDOLPH MAK, DETENTORE DELLA CINTURA DI CAMPIONE DI LOTTA SENZA ESCLUSIONE DI COLPI PER SEI ANNI CONSECUTIVI, CONTRO IL MARZIANO KIVRIN CARMICHAEL IN UN INCONTRO ALL’ULTIMO SANGUE!
Di sicuro non è truccato, disse sarcastica Julie nella sua mente.
Mi chiedo proprio chi possa vincere, pensò Miller, immaginandola ridere.
Si fermò a un banchetto di ramen; aveva appena comprato due nuovi yen di pasta all’uovo in salsa nera, belli fumanti nel loro cono, quando una mano gli diede una pacca sulla spalla.
«Detective Miller» disse una voce familiare. «Ho l’impressione che sia al di fuori della sua giurisdizione.»
«Accidenti, ispettore Sematimba» rispose Miller. «Questa sì che è una sorpresa. Rischia di far prendere un colpo a qualche ragazzina, avvicinandosi così di soppiatto alla gente.»
Sematimba scoppiò a ridere. Era alto, anche secondo gli standard cinturiani, e aveva la pelle più scura che Miller avesse mai visto. Anni prima, Sematimba e Miller si erano coordinati in occasione di un caso particolarmente spinoso: un contrabbandiere con un carico di sostanze euforiche sintetiche aveva rotto i rapporti con il suo fornitore. Durante la sparatoria su Ceres, tre persone erano rimaste uccise, colte da proiettili vaganti, e il contrabbandiere si era rifugiato su Eros. Per poco, la competitività e l’insularità delle rispettive forze di sicurezza delle due stazioni non avevano permesso che il criminale la facesse franca. Soltanto Miller e Sematimba erano stati disposti a collaborare al di fuori dei canali ufficiali.
«Che cosa ti porta» chiese Sematimba, appoggiandosi a una sottile ringhiera d’acciaio e facendo un gesto a indicare il tunnel «a viaggiare nel cuore della Fascia, fino alla gloriosa e potente Eros?»
«Sto seguendo una pista» rispose Miller.
«Non c’è niente di buono, qui» replicò Sematimba. «Da quando se n’è andata la Protogen, le cose sono peggiorate.»
Miller risucchiò rumorosamente un ramen.
«Chi è che si occupa della sicurezza, ora?» chiese.
«La CPM» disse Sematimba.
«Non ne ho mai sentito parlare.»
«Carne Por la Machina» spiegò Sematimba, e fece una smorfia a mimare un’esagerata, rude virilità. Si picchiò il petto e ringhiò, poi tornò serio e scosse la testa. «Una nuova agenzia di Luna. Hanno soprattutto cinturiani come agenti. Fanno i duri ma in realtà sono perlopiù dilettanti allo sbaraglio. Spacconi senza palle. La Protogen veniva dai pianeti interni, e questo era un bel problema, ma era gente seria, cazzo. Spaccavano teste ma mantenevano l’ordine. Questi nuovi pezzi di merda, invece, sono la manica di scagnozzi più corrotta per cui abbia mai lavorato. Non credo che il consiglio dei governatori gli rinnoverà il mandato, a fine contratto. Io non ho detto niente, eh... Ma è la verità.»
«Un mio ex collega ha firmato con la Protogen» disse Miller.
«Non sono male» rispose Sematimba. «A volte mi viene il desiderio di aver scelto loro, sai?»
«Perché non l’hai fatto?» chiese Miller.
«Sai com’è... Io sono di qui.»
«Già» disse Miller.
«Allora, non sapevi nemmeno chi fosse a capo dei giochi? Non devi esser venuto in cerca di lavoro, immagino.»
«No» rispose Miller. «È il mio anno sabbatico. Viaggio un po’ per conto mio, di questi tempi.»
«Hai abbastanza denaro per farlo?»
«Non proprio. Ma non mi pesa vivere in ristrettezze. Per un po’, almeno. Hai sentito niente su una certa Juliette Mao? Si fa chiamare Julie.»
Sematimba scosse la testa.
«Ha legami con la Mao-Kwikowski Mercantile» disse Miller. «È risalita dal pozzo ed è passata dalla parte dei nativi. APE. Era un caso di rapimento.»
«Era?»
Miller si appoggiò allo schienale. La sua Julie immaginaria inarcò le sopracciglia.
«Le cose sono un po’ cambiate da quando ho ricevuto l’incarico» rispose Miller. «Potrebbe essere collegato a qualcos’altro. Qualcosa di grosso.»
«Grosso quanto?» chiese Sematimba. Ogni traccia di giocosità era svanita dalla sua espressione. Era di nuovo uno sbirro. Chiunque tranne Miller sarebbe stato intimidito dal suo viso impassibile, quasi adirato.
«La guerra» rispose Miller. Sematimba incrociò le braccia.
«Non è divertente» replicò.
«Non sto scherzando.»
«Ritengo che noi due siamo amici, vecchio mio» disse Sematimba. «Ma non voglio problemi da queste parti. Le cose sono già abbastanza complicate così come sono.»
«Vedrò di essere discreto.»
Sematimba annuì. Un allarme cominciò a suonare in fondo al tunnel. Era una semplice questione di ordine pubblico, non si trattava del ditono assordante dell’allarme ambientale. Sematimba guardò giù lungo il tunnel, come se gli bastasse serrare gli occhi per vedere attraverso la calca di persone, biciclette e banchetti alimentari.
«Sarà meglio che vada a dare un’occhiata» disse con aria rassegnata. «Probabilmente sono solo i miei colleghi agenti di pace che si divertono a spaccare finestre.»
«Bello, far parte di una squadra così affiatata» disse Miller.
«L’hai detto, amico» rispose Sematimba con un sorriso. «Se hai bisogno di qualcosa...»
«Altrettanto» replicò Miller, e guardò il poliziotto che si faceva largo in quel mare di caos e umanità. Era un omone grande e grosso, ma c’era qualcosa nell’indifferenza assoluta di quella folla che lo faceva sembrare più piccolo. ‘Una pietra nell’oceano’, si diceva. Una stella tra milioni di altre stelle.
Miller controllò l’ora, poi esaminò il registro pubblico di attracco. La Rocinante era in orario. Le avevano già assegnato un molo. Miller risucchiò gli ultimi ramen, gettò il cono di schiuma con il resto della salsa nera nel riciclatore pubblico, entrò nella toilette più vicina e, quando ebbe finito, andò a passo svelto verso il livello dei casinò.
L’architettura di Eros era cambiata, dalla sua nascita. Laddove un tempo era stata come Ceres – un’intricata ragnatela di tunnel che si diramavano paralleli alle arterie principali –, Eros si era in seguito modificata assecondando il flusso del denaro: tutti i corridoi portavano al livello dei casinò. Ovunque volessi andare, dovevi passare attraverso la pancia di quella balena gonfia di luci e schermi colorati. Poker, blackjack, roulette, grandi vasche piene di trote in premio da pescare ed eviscerare, slot meccaniche, slot elettroniche, corse di grilli, dadi, giochi di abilità truccati. Lampi di luce colorata, clown danzanti al neon e pubblicità frenetiche che andavano e venivano sugli schermi aggredivano gli occhi dei passanti. Assordanti risate artificiali, allegre campane e fischietti li assicuravano che si stavano divertendo un mondo. Il tutto mentre l’odore di migliaia di persone affollate in uno spazio troppo piccolo faceva a pugni con quello della carne artificiale arrosto che veniva venduta a gran voce, coperta di spezie odorose, sui banchetti lungo il corridoio. L’avidità e l’architettura dei casinò avevano trasformato Eros in una sorta di gigantesca passerella obbligata per il bestiame.
Esattamente ciò di cui Miller aveva bisogno.
La stazione del tubo che arrivava dal porto aveva sei ampie porte d’accesso, che si riversavano sul piano dei casinò. Miller accettò un drink da una donna dall’aria stanca in perizoma e topless e si trovò una posizione da cui poter tenere d’occhio tutte e sei le uscite. L’equipaggio della Rocinante non aveva altra scelta che passare da una di quelle. Controllò il suo terminale palmare. I registri di attracco dicevano che la nave era arrivata da dieci minuti. Miller fece finta di sorseggiare il suo drink e si preparò all’attesa.