4

Miller

Miller era arrivato a metà della cena quando il sistema di comunicazione del suo buco emise un trillo. Diede un’occhiata al codice mittente: il Blue Frog. Era un bar portuale che serviva quel milione di abitanti in continuo surplus di Ceres e che era famoso per essere la replica esatta di un famoso locale terrestre di Mumbai, tranne che per il fatto che forniva legalmente anche prostitute e droghe. Miller inforcò un altro boccone di fagioli di muffa e riso coltivato in vitro e si chiese se fosse il caso di accettare quella chiamata.

Avrei dovuto prevederlo, pensò.

«Che c’è?» chiese.

Si aprì uno schermo. Hasini, il vicedirettore, era un uomo dalla pelle scura con gli occhi color del ghiaccio. Il ghigno sul suo viso era il risultato di un danno al nervo facciale. Miller gli aveva fatto un favore quando Hasini aveva avuto la malaugurata idea di prendere a cuore il caso di una prostituta senza licenza. Da allora, l’ispettore del servizio di sicurezza e il barista del porto avevano cominciato a scambiarsi favori: i meccanismi economici sommersi e fumosi della civiltà.

«Il tuo partner è di nuovo qui» disse Hasini sovrastando la pulsazione ritmica della musica bhangra. «Credo che sia una serata storta. Devo continuare a servirlo?»

«Sì» rispose Miller. «Fallo contento per, diciamo... Dammi venti minuti.»

«Non vuole essere contento. Anzi, direi che sta cercando un motivo per diventare infelice.»

«Fa’ in modo che non lo trovi. Sto arrivando.»

Hasini annuì, sorridendo con il suo ghigno lesionato, e chiuse la comunicazione. Miller fissò la sua cena consumata per metà, sospirò e fece scivolare i resti nel tubo di riciclo. Si mise una camicia pulita, poi esitò. Al Blue Frog faceva sempre troppo caldo per i suoi gusti, e detestava indossare l’antiproiettile. Alla fine si limitò a infilare una pistola di plastica compatta nella fondina da caviglia. Non era di aiuto nell’estrazione rapida ma, se la situazione fosse degenerata a quel livello, sarebbe comunque stato fottuto.

La Ceres notturna era indistinguibile da quella diurna. Quando la sua stazione aveva aperto i battenti, avevano compiuto la mossa di abbassare e aumentare le luci secondo il tradizionale ciclo umano di ventiquattr’ore, imitando la rotazione terrestre. Quella farsa era durata quattro mesi prima di essere cassata dall’amministrazione locale.

Se fosse stato in servizio, Miller avrebbe preso un cart elettrico per andare giù per gli ampi tunnel fino ai livelli del porto. Era tentato di farlo pur non essendo in servizio, ma una scaramanzia radicata in lui glielo impediva. Prendere il cart significava andare in veste di poliziotto, e in fondo la metro funzionava bene.

Miller si avviò verso la stazione più vicina, controllò i tempi di percorrenza e si sedette su una bassa panchina di pietra. Un minuto dopo, giunse un uomo dell’età di Miller con una bambina che non doveva avere più di tre anni; i due si sedettero in fondo alla panchina. La bimba parlava veloce, dicendo cose senza senso, come un rubinetto che perde, e suo padre rispondeva con grugniti e annuiva nei momenti più o meno appropriati.

Miller e l’uomo si salutarono con un cenno del capo. La bambina tirò la manica del padre, esigendo la sua completa attenzione. Miller la osservò: occhi scuri, capelli chiari, pelle liscia. Era già troppo alta per essere scambiata per una bimba della Terra, con gli arti lunghi ed esili. La sua pelle aveva il colorito rosaceo dei bambini cinturiani, effetto collaterale dei cocktail di farmaci che venivano somministrati loro per assicurarsi che ossa e muscoli crescessero robusti. Miller vide che il padre notava la sua attenzione. Sorrise e indicò la piccola con un cenno del capo.

«Quanti anni ha?» chiese.

«Due e mezzo» rispose il padre.

«Una bella età.»

Il padre si strinse nelle spalle ma sorrise.

«Lei ha figli?» chiese.

«No» disse Miller. «Ma ho un divorzio più o meno della stessa età.»

Ridacchiarono insieme come se fosse stato divertente. Nella mente di Miller, Candace incrociò le braccia e distolse lo sguardo sdegnosa. La folata d’aria con un velato odore d’olio e ozono annunciò l’arrivo del tubo. Miller lasciò salire prima padre e figlia, poi scelse uno scompartimento separato.

I vagoni del tubo erano cilindrici, costruiti per attraversare i passaggi evacuati. Non c’erano finestre: l’unica vista sarebbe stata quella della pietra che sfrecciava ronzando a tre centimetri dalla carrozza. Al loro posto c’erano grossi schermi che trasmettevano réclame o approfondimenti sugli scandali politici dei pianeti interni; alcuni pubblicizzavano la possibilità di giocarsi e perdere una settimana di stipendio in casinò talmente belli che un’esperienza del genere non avrebbe potuto far altro che arricchire la vita di chi avesse abboccato. Miller lasciò che tutti quei colori brillanti e vuoti danzassero davanti ai suoi occhi senza far caso al contenuto. Era intento ad analizzare il suo problema, girandolo e rigirandolo nella propria testa, senza nemmeno cercare una soluzione.

Era un semplice esercizio mentale. Guardare ai fatti, scevri da giudizi di alcun tipo: Havelock era un terrestre; era di nuovo in un bar del porto e in cerca di una rissa; era il suo partner. Frase dopo frase, fatto dopo fatto, risvolto dopo risvolto. Non cercò di metterli in ordine o di ricavarne una narrazione; quello l’avrebbe fatto dopo. Per il momento era sufficiente riuscire a togliersi dalla testa i casi del giorno e prepararsi alla situazione imminente. Quando il tubo raggiunse la sua fermata, Miller si sentiva in equilibrio. Era come camminare appoggiando per bene tutto il piede – così aveva descritto quello stato d’animo quando aveva ancora qualcuno accanto a cui spiegarlo.

Il Blue Frog era affollato, con il calore da stalla dei corpi che si aggiungeva alla temperatura simil-Mumbai e all’inquinamento artificiale dell’aria. Quel posto era pieno di luci che brillavano e lampeggiavano in modalità da crisi epilettica. I tavoli erano curvi e ondulati e le luci di sottofondo li facevano sembrare più scuri che semplicemente neri. La musica si muoveva attraverso l’aria come una presenza fisica, ogni pulsazione era una piccola botta. Hasini, in piedi in mezzo a un crocchio di buttafuori gonfi di steroidi e cameriere svestite, attirò l’attenzione di Miller e indicò il fondo del locale con un cenno del capo. Miller non rispose nemmeno; si voltò e si fece largo tra la folla.

I bar portuali erano sempre esplosivi: Miller fece attenzione a non sbattere contro nessuno, se poteva. Quando non aveva altra scelta, cercava di andare a sbattere addosso ai cinturiani piuttosto che a gente dei pianeti interni, a donne piuttosto che a uomini. Il suo viso era una smorfia di scuse continue.

Havelock era seduto da solo, con una manona avvolta attorno a una flûte di vetro. Quando Miller gli si sedette accanto, Havelock si voltò verso di lui, pronto ad attaccar briga, con le narici spalancate e gli occhi sgranati. Poi fece una faccia sorpresa. Infine comparve qualcosa di simile a vergogna imbronciata.

«Miller» disse. Nei tunnel fuori da lì sarebbe stato un grido. Ma in quel posto era a malapena sufficiente ad arrivare fino alla sua sedia. «Che ci fai qui?»

«Non avevo niente da fare là nel buco» disse Miller. «Ho pensato di venire qui a cercar guai.»

«Hai scelto la serata giusta» rispose Havelock.

Era vero. Anche nei locali che servivano clienti dei pianeti interni, la presenza di terrestri o marziani tra i nativi della Fascia superava raramente la proporzione di uno a dieci. Dando un’occhiata alla folla intorno a sé, Miller si accorse che gli uomini e le donne più bassi e robusti degli altri erano quasi un terzo degli avventori.

«È arrivata qualche nave?» domandò.

«Già.»

«MCTM?» chiese. I mezzi della Marina della Coalizione Terra-Marte passavano spesso da Ceres quando facevano rotta verso Saturno, Giove e le altre stazioni della Fascia, ma Miller non aveva mai fatto troppo caso alle relative posizioni dei pianeti per conoscere con certezza le loro orbite. Havelock scosse la testa.

«Paramilitari corporativi in rotazione da Eros» disse. «Della Protogen, credo.» Una cameriera si avvicinò a Miller, con i tatuaggi che le scivolavano sulla pelle e i denti brillanti nella luce delle lampade UV. Miller accettò la bevanda che gli offrì anche se non aveva ordinato niente: acqua frizzante.

«Sai,» disse Miller, chinandosi abbastanza vicino per farsi sentire anche se parlava con tono normale «non importa quanti dei loro culi riesci a prendere a calci. La cosa non ti renderà comunque più simpatico a Shaddid.»

Havelock si voltò di scatto per fulminare Miller con lo sguardo, ma la rabbia bastava a malapena a coprirne l’onta e la sofferenza.

«È la verità» disse Miller.

Havelock si alzò barcollando e si diresse verso l’uscita. Stava cercando di pestare i piedi ma, tra la gravità di rotazione e la sbornia, fece male i calcoli. Sembrava che stesse saltellando. Miller, con il bicchiere ancora in mano, scivolò tra la folla sulla scia di Havelock, provando a calmare con un sorriso imbarazzato e un’alzata di spalle le facce offese che il suo partner si lasciava alle spalle.

I tunnel comuni della zona del porto erano coperti da uno strato di lerciume e grasso di cui né i pulitori a vapore, né gli astringenti chimici riuscivano mai a venire del tutto a capo. Havelock uscì dal locale con le spalle curve, le labbra serrate, emanando rabbia come fosse calore da un radiatore. Le porte del Blue Frog si richiusero alle loro spalle, tagliando fuori la musica come se qualcuno avesse appena azzerato il volume. Il pericolo peggiore era passato.

«Non sono ubriaco» disse Havelock, a voce troppo alta.

«Non ho detto che lo fossi.»

«E tu» riprese Havelock, voltandosi e piantando un dito accusatore sul petto di Miller. «Tu non sei la mia badante.»

«Anche questo è vero.»

Camminarono affiancati per un quarto di chilometro. I cartelli a LED li invitavano da ogni parte. Bordelli e poligoni di tiro, caffè e circoli di poesia, casinò e combattimenti di ogni genere. L’aria puzzava di piscio e cibo stantio. Havelock cominciò a rallentare il passo e le spalle iniziarono a scendergli sotto le orecchie.

«Ero nella omicidi a Terrytown» disse Havelock. «Mi sono fatto tre anni alla buoncostume al livello meno cinque. Hai una minima idea di come potesse essere? Ci smerciavano i bambini, da lì, e io sono uno dei tre uomini che ha smantellato tutto. Sono un bravo poliziotto.»

«Sì, lo sei.»

«Sono dannatamente bravo.»

«Lo sei.»

Superarono un ramen bar. Un albergo a capsule. Un terminale pubblico su cui si susseguivano le notizie ricevute in tempo reale: ‘Guasto alle comunicazioni affligge Stazione scientifica di Phoebe.’ ‘Nuovo gioco di andreas k raggiunge cifra di 6 miliardi di dollari in 4 ore.’ ‘Nessun accordo su Marte per contratto su fornitura di titanio con la fascia. Gli schermi baluginavano negli occhi di Havelock, ma lui aveva lo sguardo nel vuoto.

«Sono un poliziotto dannatamente bravo» ripeté. Poi, un momento dopo: «E allora quale diavolo è il problema?»

«Non è niente di personale» disse Miller. «La gente ti guarda e non vede Dmitri Havelock, il bravo poliziotto. La gente vede la Terra

«Stronzate. Ho passato otto anni sugli orbitali e su Marte prima di venire qui. Sulla Terra ci avrò lavorato sì e no sei mesi.»

«Terra, Marte... Non sono così diversi» disse Miller.

«Prova a dirlo a un marziano» rispose Havelock con una risata amara. «Ti prenderebbe a calci nel culo.»

«Non intendevo... Senti, sono sicuro che ci siano un sacco di differenze. La Terra odia Marte perché ha una flotta migliore. Marte odia la Terra perché ha una flotta più grande. Può darsi che il calcio sia meglio a piena gravità; o magari è peggio. Non lo so. Sto soltanto dicendo che, così lontano dal sole... Alla gente non frega niente. Da questa distanza si riescono a coprire sia Marte che la Terra con un polpastrello. E...»

«E io non appartengo a questo posto» aggiunse Havelock.

Le porte del ramen bar alle loro spalle si aprirono e dal locale uscirono quattro cinturiani in uniforme grigioverde. Uno di loro esibiva il cerchio spezzato dell’APE sulla manica. Miller si tese, ma i tizi non vennero verso di loro e Havelock non li notò. C’era mancato poco.

«Lo so» disse Havelock. «Quando ho firmato il contratto della Star Helix sapevo che avrei dovuto lavorare sodo per ambientarmi. Pensavo che sarebbe stato come da ogni altra parte, sai? Quando arrivi, ti fai mettere sotto per un po’. Poi, quando capiscono che sai fare buon viso a cattivo gioco, ti trattano come uno della squadra. Qui però non è così.»

«Non lo è» confermò Miller.

Havelock scosse la testa, sputò a terra e fissò il bicchiere che aveva in mano.

«Mi sa che abbiamo appena rubato due bicchieri al Blue Frog» disse Havelock.

«Siamo anche in un corridoio pubblico con dell’alcol non sigillato» aggiunse Miller. «Be’, quantomeno tu lo sei. La mia è acqua minerale.»

Havelock ridacchiò, ma in quel verso c’era esasperazione. Quando parlò di nuovo, la sua voce era colma di tristezza.

«Pensi che io venga quaggiù per fare a botte con gente dei pianeti interni solo per farmi apprezzare da Shaddid, Ramachandra e tutti gli altri?»

«Mi è passato per la testa, sì.»

«Be’, ti sbagli» replicò Havelock.

«Va bene» disse Miller. Sapeva che non era così.

Havelock alzò il bicchiere. «Riportiamo questi al locale?» chiese.

«Che ne dici di andare al Distinguished Hyacinth, invece?» ribatté Miller. «Offro io.»

Il lounge bar del Distinguished Hyacinth era tre livelli più in alto, abbastanza lontano da mantenere al minimo i frequentatori provenienti dalla zona portuale. Ed era un bar di sbirri. Più che altro, di gente della Star Helix Security, ma ai tavoli c’erano anche altri dipendenti delle agenzie minori – Protogen, Pinkwater, Al Abbiq... Miller era abbastanza sicuro di essere riuscito a evitare l’ennesima scenata del suo partner ma, se si fosse sbagliato, tanto valeva lavare i panni sporchi in famiglia.

L’arredamento era tipicamente cinturiano: tavoli pieghevoli da nave in vecchio stile e sedie inchiavardate alle pareti e al soffitto, come se la gravità fosse potuta venir meno da un momento all’altro. Sansevierie e potos – largamente usate dalla prima generazione per le loro proprietà di riciclo dell’aria – abbellivano le pareti e alcune colonne decorative. La musica era a volume abbastanza basso da poter conversare, e abbastanza alto da far sì che una conversazione privata rimanesse tale. Il primo proprietario, Javier Liu, era un ingegnere strutturista di Tycho che era venuto lì per l’avviamento della rotazione e a cui Ceres era piaciuta tanto da volerci restare. Adesso era suo nipote a gestire il locale. Javier Terzo era in piedi dietro il bancone, chiacchierando con mezza squadra della buoncostume. Miller andò verso un tavolo in fondo al locale, salutando con un cenno del capo uomini e donne che conosceva. Mentre al Blue Frog era stato attento e diplomatico, lì scelse di mostrare una mascolinità più rude. Anche quella era tutta una facciata.

«Allora...» disse Havelock mentre la figlia di Javier, Kate – la quarta generazione di gestori del locale – lasciava il tavolo con i bicchieri del Blue Frog sul suo vassoio. «Che cos’è questa investigazione supersegreta e privata che ti ha accollato Shaddid? O il terrestre non lo deve sapere?»

«È questo che ti ha fatto innervosire?» chiese Miller. «Non è niente. Alcuni azionisti hanno smarrito la figlia e vogliono che io la rintracci e la spedisca a casa. Una patacca di caso.»

«Sembra più una roba di loro competenza» disse Havelock, facendo un cenno verso il crocchio di agenti della buoncostume.

«La ragazza non è minorenne» rispose Miller. «È un incarico di rapimento.»

«E tu te ne intendi di rapimenti?»

Miller si appoggiò allo schienale. Il potos sopra di loro ondeggiò. Havelock rimase in attesa, e Miller ebbe la sgradevole impressione di aver perso il controllo della conversazione.

«È il mio lavoro» disse Miller.

«Già, ma qui stiamo parlando di un’adulta, giusto? Non è che non possa tornare a casa, semmai le venisse voglia di andarci. E invece i suoi genitori ingaggiano una guardia per riportarla indietro, che lei lo voglia o meno. Qui non si tratta più di attività di polizia. E nemmeno di sicurezza della stazione. Queste sono solo famiglie disfunzionali che muovono le loro guerre di potere.»

A Miller tornò in mente l’esile ragazzina accanto alla pinaccia da corsa, il suo sorriso felice.

«Te l’ho detto che era una patacca» disse Miller.

Kate Liu tornò al tavolo con una birra locale e un bicchiere di whisky sul vassoio. Miller le fu grato per quella distrazione. La birra era sua. Chiara e intensa, con appena una nota di amaro. Un’intera ecologia fondata su muffe e fermentazione significava anche la possibilità di produrre ottime birre.

Havelock era intento a girare il whisky nel suo bicchiere. Miller lo prese come il segno che avesse abbandonato l’idea di sbronzarsi. Non c’era niente di simile all’essere circondato da gente dell’ufficio per farti passare la voglia di perdere il controllo.

«Ehi, Miller! Havelock!» disse una voce familiare. Yevgeny Cobb, della omicidi. Miller gli fece segno di avvicinarsi e la conversazione virò sulle fanfaronate della omicidi, che aveva appena risolto un caso particolarmente spinoso. Tre mesi di lavoro passati a cercare di capire da dove fossero uscite quelle tossine, culminati con la moglie del morto che riceveva l’intera liquidazione della copertura assicurativa e una puttana del mercato grigio che veniva deportata di nuovo su Eros.

A fine serata, Havelock se la rideva della grossa e scambiava battute con tutti gli altri. Quando qualcuno gli scoccava un’occhiataccia o una frecciatina, la ignorava sull’onda dell’euforia.

Miller stava andando verso il bancone per un altro giro quando il suo terminale squillò. E poi, come un’onda che s’increspava nel locale, ci furono altri cinquanta squilli nella sala. Miller sentì un nodo allo stomaco mentre tirava fuori il terminale insieme a tutti gli altri agenti presenti sul posto.

Sullo schermo apparve il capitano Shaddid. Aveva gli occhi torpidi e colmi d’ira contenuta: l’immagine perfetta di una donna potente disturbata durante il sonno.

«Signore e signori» disse. «Qualunque cosa stiate facendo, interrompetela e recatevi immediatamente alle vostre postazioni per decreto di urgenza. Abbiamo un problema.

«Dieci minuti fa ci è giunto un messaggio in chiaro, firmato, dalla direzione approssimativa di Saturno. Non abbiamo ancora confermato la sua autenticità; tuttavia la firma corrisponde alle informazioni che abbiamo in registro. Ho fatto segretare il video, ma possiamo dare per scontato che ci sarà qualche stronzo che lo metterà in rete, e più o meno cinque minuti dopo comincerà a pioverci addosso un mare di merda. Se avete vicino dei civili, interrompete la comunicazione in questo medesimo istante. Per il resto di voi, ecco di che si tratta.»

Shaddid si spostò da un lato, picchiettando con un dito sull’interfaccia del suo sistema. Lo schermo si fece nero. Un attimo dopo apparvero il viso e le spalle di un uomo. Indossava una tuta pressurizzata arancione, senza casco. Era un terrestre, più o meno sui trent’anni. Colorito pallido, occhi azzurri, capelli corti e scuri. Ancor prima che costui aprisse la bocca per parlare, Miller individuò i segni di sconcerto e rabbia nei suoi occhi e nel modo in cui teneva la testa chinata in avanti.

«Il mio nome» disse l’uomo «è James Holden.»