34

Miller

La tuta ambientale era migliore di quelle a cui era abituato Miller. Aveva fatto soltanto un paio di passeggiate fuori durante gli anni passati su Ceres, e l’equipaggiamento della Star Helix era già vecchio allora: grossi giunti corrugati, unità d’ossigeno separate, guanti che gli lasciavano le mani di trenta gradi più fredde rispetto al resto del corpo. Le tute della Rocinante erano di tipo militare e molto più recenti, non più ingombranti di una normale tenuta antisommossa, con supporti vitali integrati che sembravano in grado di tenere al caldo le dita anche quando la mano veniva staccata da uno sparo. Miller fluttuò nella camera di pressurizzazione, con una mano su una cinghia, e fletté le dita, osservando la copertura simile a pelle di squalo delle nocche.

Non sembrava abbastanza.

«Tutto a posto, Alex» disse Holden. «Siamo pronti. Fa’ bussare la Roci per noi.»

Una profonda vibrazione li scosse. Naomi si appoggiò con una mano alla paratia curva della camera di pressurizzazione per mantenersi in equilibrio. Amos si spostò per mettersi in prima linea, armato di un fucile automatico senza rinculo. Quando piegò il collo, Miller udì le vertebre che scrocchiavano nel canale radio. Era l’unico modo in cui avrebbe potuto sentirle; erano già nel vuoto.

«Okay, capitano» disse Alex. «Ho trovato un sigillo. L’esclusione standard del codice di sicurezza non funziona, per cui mi servirà un istante... per...»

«C’è qualche problema?» chiese Holden.

«Fatto. Ce l’ho. Abbiamo una connessione» disse Alex. Poi, un istante dopo, aggiunse: «Ah. Non sembra esserci molto da respirare, là dentro.»

«Niente?» chiese Holden.

«No. Vuoto pneumatico» rispose Alex. «Entrambi i portelloni della nave sono aperti.»

«E va bene, ragazzi» disse Holden. «Tenete d’occhio la vostra riserva di ossigeno. Andiamo.»

Miller fece un respiro profondo. Il portellone esterno passò dal rosso tenue al verde pallido. Holden lo aprì facendolo scivolare da un lato e Amos si lanciò in avanti, seguito dal capitano. Miller fece un cenno del capo a Naomi. Prima le signore.

Il ponte telescopico di collegamento era rinforzato, pronto a deviare eventuali attacchi con il laser o a rallentare i proiettili. Amos mise piede sull’altra nave mentre il portellone della Rocinante si chiudeva alle loro spalle. Miller ebbe una momentanea vertigine, mentre la nave che aveva di fronte passava di colpo da avanti a sotto nella sua percezione spaziale, come se stessero cadendo verso qualcosa.

«Tutto bene?» chiese Naomi.

Miller annuì, e Amos penetrò attraverso il portellone dell’altra nave. Entrarono uno a uno.

La nave era morta. Le luci delle loro tute ambientali si rincorrevano sulle curve morbide e quasi longilinee delle paratie, sulle pareti imbottite, sui ripostigli grigi delle tute. Uno di essi era stato deformato, come se qualcuno o qualcosa fosse uscito a forza dal suo interno. Amos avanzò cautamente. In circostanze normali, il vuoto pneumatico avrebbe dovuto essere sufficiente ad assicurare che niente e nessuno potesse saltar loro addosso. In quel preciso istante, Miller si rese conto che era soltanto un’ipotesi.

«Qui è tutto spento» disse Holden.

«Potrebbero esserci delle riserve nella sala motori» replicò Amos.

«Quindi dall’altra parte della nave rispetto a qui» disse Holden.

«Già.»

«Facciamo attenzione, però» disse Holden.

«Io vado a vedere in plancia» intervenne Naomi. «Se c’è qualcosa di collegato a una batteria, posso...»

«No, non ci vai» ribatté Holden. «Non divideremo il gruppo finché non sappiamo che cos’abbiamo per le mani. Restiamo uniti.»

Amos avanzò, affondando nell’oscurità. Holden lo seguì dappresso. Miller dopo di lui. Dal linguaggio corporeo di Naomi non seppe dire se la donna fosse infastidita o sollevata.

La cambusa era vuota, ma qua e là trovarono segni di colluttazione. Una sedia con una gamba piegata. Un lungo graffio frastagliato lungo la parete, fatto con qualcosa di affilato che ne aveva rovinato il colore. Due fori di proiettile, in alto su una paratia, dove gli spari erano andati a vuoto. Miller allungò una mano, afferrò uno dei tavoli e lo rivoltò lentamente.

«Miller» disse Holden. «Vieni con noi?»

«Guarda qui» lo invitò Miller.

La chiazza scura era color ambra, lucida e scintillante come vetro sotto il raggio luminoso della torcia. Holden si avvicinò fluttuando.

«Vomito di zombi?» chiese.

«Credo di sì.»

«Be’, immagino che siamo sulla nave giusta, allora. Per quanto possa valere la parola ‘giusto’.»

Gli alloggi dell’equipaggio erano vuoti e silenziosi. Li perlustrarono uno dopo l’altro, ma non c’era alcuna traccia personale: niente terminali, niente fotografie, nessun indizio che potesse rivelare i nomi degli uomini e delle donne che avevano vissuto, respirato, e che erano presumibilmente morti sulla nave. Perfino la cabina del capitano era indicata soltanto dalla presenza di una branda appena un po’ più grande delle altre e dello sportello frontale di una cassaforte chiusa.

C’era un enorme compartimento centrale, ampio e alto quanto la chiglia della Rocinante, in cui l’oscurità era dominata da dodici grossi cilindri incastrati tra strette passerelle e impalcature. Miller vide il viso di Naomi indurirsi.

«Che cosa sono?» le chiese.

«Camere missilistiche» rispose lei.

«Camere missilistiche?» esclamò Miller. «Gesù Cristo, quanti ne avevano equipaggiati? Un milione?»

«Dodici» disse Naomi. «Soltanto dodici.»

«Progettati per abbattere navi ammiraglie» aggiunse Amos. «Per distruggere praticamente qualsiasi cosa contro cui vengano puntati al primo colpo.»

«Anche qualcosa come la Donnager?» chiese Miller.

Holden lo guardò, con il bagliore del suo schermo del casco che gli metteva in risalto i tratti del viso.

«O come la Canterbury» disse.

Tutti e quattro passarono in silenzio attraverso quei grandi tubi neri.

Nell’officina meccanica e in quella di manifattura i segni della violenza erano ancor più evidenti. Pavimento e pareti erano macchiati di sangue, assieme a grosse chiazze di quella resina dorata simile a vetro che un tempo era stata vomito. Trovarono un’uniforme appallottolata. Il tessuto era stato ammucchiato e immerso in un qualche liquido prima che il freddo dello spazio lo congelasse. Le abitudini acquisite in tutti quegli anni passati ad attraversare scene del crimine aiutarono Miller a rimettere una decina di dettagli in prospettiva: il disegno dei graffi sul pavimento e sulle porte dell’ascensore, la chiazza di sangue e vomito, le impronte di piedi. Tutti insieme, raccontavano la storia di quel che era accaduto.

«Sono nella sala macchine» disse l’ex poliziotto.

«Chi?» domandò Holden.

«L’equipaggio. Chiunque si trovi su questa nave. Tutti, tranne una» disse, indicando con un cenno mezza impronta che sembrava portare verso l’ascensore. «Vedi come le impronte di lei sono sopra tutte le altre? E qui, dove ha pestato quella chiazza di sangue, era già secco. Si è disgregato, invece di sbavare.»

«Come fai a sapere che era una ragazza?» chiese Holden.

«Perché era Julie» rispose Miller.

«Be’, chiunque sia qui dentro, si è ciucciato il vuoto per un bel po’ di tempo» osservò Amos. «Vogliamo andare a vedere?»

Nessuno di loro disse di sì, ma fluttuarono avanti tutti insieme. Il portellone era aperto; il fatto che l’oscurità oltre l’accesso sembrasse più densa, più minacciosa, più personale di quanto non sembrasse nel resto della nave, probabilmente era dovuto soltanto all’immaginazione di Miller che gli faceva brutti scherzi. Esitò, cercando di rievocare l’immagine di Julie, ma lei non venne.

Fluttuare all’interno del ponte meccanico era come nuotare in una caverna. Miller vide le altre torce ballare sulle paratie e sui pannelli, alla ricerca dei comandi diretti o, in alternativa, di controlli che potessero essere ripristinati. Diresse il proprio fascio di luce al centro della stanza, dove fu inghiottito dal buio.

«Ci sono delle batterie, capitano» disse Amos. «E... pare che il reattore sia stato spento. Intenzionalmente.»

«Credi di riuscire a ripristinarlo?»

«Vorrei fare un po’ di diagnostica prima» rispose Amos. «Potrebbe esserci un buon motivo per averlo spento, e non ho voglia di scoprirlo nel peggiore dei modi.»

«Giusto.»

«Però posso almeno procurarci... un po’ di... E andiamo, dannatissimo affare.»

Una serie di luci blu illuminò all’improvviso l’intero ponte, accecando Miller per mezzo secondo. La vista gli tornò assieme a una sensazione di crescente confusione. Naomi sussultò, e Holden gridò. Qualcosa nella mente di Miller cominciò a strillare, ma lui la zittì. Era solo una scena del crimine. Erano soltanto cadaveri.

Solo che non lo erano.

Di fronte a lui c’era il reattore, quiescente e morto. Tutto intorno, uno strato di carne umana. Riusciva a individuare braccia, mani con le dita talmente allargate che facevano male soltanto a guardarle. La lunga striscia di una colonna vertebrale si snodava come un serpente, con le costole che si aprivano come le zampe di un qualche insetto mostruoso. Cercò di dare un senso a quel che aveva di fronte agli occhi. Aveva già visto degli uomini sventrati. Sapeva che quella lunga spirale simile a una corda sulla sinistra della cosa erano intestini. Vide il punto in cui il budello si allargava per diventare un colon. La forma familiare di un teschio gli restituì lo sguardo.

Poi, però, nel bel mezzo di quella familiare anatomia di morte e smembramento, c’erano altre cose: spirali di molluschi, ampi fasci di filamenti neri e mollicci, una pallida distesa di qualcosa che sarebbe potuta essere pelle tagliuzzata da una dozzina di squarci simili a branchie, un arto mezzo formato che sembrava tanto un insetto quanto un feto, senza essere nessuno dei due. Quella carne congelata, morta, circondava il reattore come la buccia di un’arancia. L’equipaggio della nave mimetica. E forse anche quello della Scopuli.

Erano tutti lì, tranne Julie.

«Già» disse Amos. «Potrebbe volerci un po’ più di quanto non pensassi, cap.»

«Non fa niente» rispose Holden. La sua voce in linea sembrava scossa. «Non c’è bisogno.»

«Non c’è problema. A meno che quella roba disgustosa non sia riuscita a penetrare nell’isolamento, il reattore dovrebbe accendersi senza troppa difficoltà.»

«Non ti dà fastidio stare in mezzo a quella... roba?» chiese Holden.

«Davvero, capitano, non ci penso e basta. Dammi venti minuti e ti saprò dire se c’è energia o se dobbiamo portare una linea ausiliaria dalla Roci

«Va bene» disse Holden. Poi lo ripeté, con voce più sicura. «Va bene, ma non toccare quella roba.»

«Non avevo intenzione di farlo» rispose Amos.

Riattraversarono il portellone, Holden e Naomi in testa, seguiti da Miller.

«Quello è...» disse Naomi, poi tossì e riprese a parlare. «È quello che sta succedendo su Eros?»

«Probabilmente» rispose Miller.

«Amos» disse Holden. «Hai abbastanza corrente per accendere i computer?»

Ci fu una pausa. Miller fece un respiro profondo e l’odore di plastica e ozono del sistema di ricircolo d’aria della tuta gli riempì le narici.

«Credo di sì» rispose Amos, dubbioso. «Ma se prima riusciamo ad accendere il reattore...»

«Accendi i computer.»

«Il capitano sei tu, cap» disse Amos. «Te li metto in linea tra cinque minuti.»

Risalirono in silenzio verso la camera di pressurizzazione, tornando sui loro passi, e la superarono per recarsi in plancia. Miller si teneva indietro, osservando come la traiettoria di Holden lo portasse accanto a Naomi e poi lontano da lei.

Protettivo e insieme scontroso, pensò Miller. Pessima combinazione.

Julie lo stava aspettando nella camera di pressurizzazione. Non subito, ovviamente. Miller scivolò indietro nello spazio, ripercorrendo tumultuosamente nella sua testa tutto ciò che aveva visto, proprio come se fosse un caso. Un caso qualunque. Il suo sguardo vagò verso il ripostiglio rotto. All’interno non c’era alcuna tuta. Per un istante fu di nuovo su Eros, nell’appartamento dove era morta Julie. Lì c’era una tuta ambientale. E poi Julie fu lì con lui, evadendo a forza da quel ripostiglio.

Che cosa ci facevi, lì dentro?, pensò.

«Niente celle» disse.

«Cosa?» chiese Holden.

«Ho appena notato» rispose Miller «che questa nave non ha celle. Non è costruita per ospitare prigionieri.»

Holden emise un basso grugnito di assenso.

«Viene da chiedersi che cosa pensassero di fare con l’equipaggio della Scopuli» disse Naomi. Il suo tono di voce lasciava intendere che non se lo chiedeva affatto.

«Non credo che ci abbiano pensato» rispose Miller lentamente. «Tutta questa cosa... stavano improvvisando.»

«Improvvisando?» disse Naomi.

«La nave stava trasportando qualcosa di infettivo o altro senza le strutture necessarie per isolarlo. Hanno fatto prigionieri senza disporre di celle in cui rinchiuderli. Hanno agito sul momento.»

«Oppure avevano fretta» ipotizzò Holden. «È successo qualcosa che gli ha messo fretta. Ma quel che hanno fatto su Eros deve aver richiesto mesi e mesi di pianificazione. Forse perfino anni. Per cui, può darsi che sia accaduto qualcosa all’ultimo minuto?»

«Sarebbe interessante sapere cosa» disse Miller.

Paragonata al resto della nave, la plancia sembrava un luogo tranquillo. Normale. I computer avevano finito l’esame diagnostico, con gli schermi che baluginavano placidi. Naomi si mise davanti a uno di essi, tenendosi allo schienale di un sedile con una mano in modo da non essere spinta via dal delicato tocco delle sue dita sul monitor.

«Farò quel che posso qui» disse. «Voi controllate pure il ponte.»

Ci fu un momento di pesante silenzio.

«Starò bene» disse Naomi.

«Okay. So che tu... io... andiamo, Miller.»

L’ex poliziotto lasciò che il capitano lo precedesse fluttuando sul ponte. Gli schermi illustravano una routine diagnostica talmente comune che perfino lui la riconobbe. Lo spazio su quel ponte era più ampio di quanto avesse immaginato, con cinque postazioni con sedili da massima accelerazione fatti su misura per i corpi di altre persone. Holden si sedette su uno di essi. Miller si fece un giro lento per il ponte. Niente sembrava fuori posto, lì; niente sangue, niente sedie rotte o imbottiture lacerate. Quando era successo, la lotta era stata giù, vicino al reattore. Non sapeva ancora bene che cosa potesse significare. Si sedette a quella che doveva essere, secondo una progettazione standard, la postazione di sicurezza, e aprì una linea privata con Holden.

«Stai cercando qualcosa in particolare?»

«Briefing. Rapporti» disse conciso Holden. Qualunque cosa possa tornare utile. E tu?»

«Vedo se riesco ad accedere ai monitor interni.»

«Che cosa speri di trovare?»

«Quello che ha trovato Julie» rispose Miller.

La postazione di sicurezza dava per scontato che chiunque fosse seduto alla console avesse accesso ai registri di basso livello. Gli ci volle comunque mezz’ora per analizzare la struttura dei comandi e l’interfaccia di navigazione. Una volta che le ebbe comprese, non fu difficile. Il timbro orario sul registro faceva risalire la voce al giorno in cui la Scopuli era scomparsa dai radar. La telecamera di sicurezza della camera di pressurizzazione mostrava il suo equipaggio – per la maggior parte composto da cinturiani – mentre veniva scortato sulla nuova nave. I loro aguzzini indossavano delle corazze con le visiere abbassate. Miller si chiese se fosse perché avessero intenzione di mantenere segreta la loro identità. Questo avrebbe autorizzato a supporre che stessero pianificando di tenere in vita i prigionieri. O forse erano soltanto cauti, in previsione di una possibile resistenza dell’ultimo minuto. L’equipaggio della Scopuli non indossava né tute ambientali, né corazze. Un paio dei loro non portavano nemmeno le uniformi.

Julie sì, però.

Era strano vederla muoversi. Con una sensazione dissociante, Miller si rese conto di non averla mai vista in movimento prima di allora. Tutte le foto che aveva avuto nel suo dossier su Ceres erano dei fermo immagine. E ora invece eccola lì, che fluttuava assieme ai suoi compatrioti d’elezione, con i capelli legati alti via dagli occhi e la mascella serrata. Sembrava davvero minuta, circondata dal resto del suo equipaggio e dagli uomini in armatura. La ragazzina ricca che aveva voltato le spalle al denaro e al proprio status per mettersi al fianco degli oppressi della Fascia. La ragazza che aveva detto a sua madre di vendere la Razorback, la nave che amava, piuttosto che cedere a un ricatto emotivo. In movimento sembrava vagamente differente dalla versione immaginaria che si era costruito di lei... Il modo in cui teneva le spalle tese all’indietro, l’abitudine di stare con i piedi verso il pavimento anche in assenza di gravità. Fondamentalmente, però, l’immagine era la stessa. Miller ebbe l’impressione che quei nuovi dettagli andassero a riempire gli spazi vuoti, anziché fargli immaginare da capo quella donna.

Le guardie dissero qualcosa – l’audio delle telecamere di sicurezza si perse nel vuoto – e l’equipaggio della Scopuli sembrò inorridire. Poi, esitando, il capitano cominciò a togliersi l’uniforme. Stavano facendo spogliare i prigionieri. Miller scosse la testa.

«Pessima idea.»

«Come?» chiese Holden.

«Niente. Scusa.»

Julie non si era mossa. Una delle guardie andò verso di lei, appoggiandosi con un braccio alla parete. Julie, che aveva subìto il trauma dello stupro, o di qualcosa di ugualmente orribile. Che dopo quell’episodio aveva studiato jiu-jitsu per potersi sentire al sicuro. Forse avevano pensato che stesse semplicemente facendo la pudica. O magari avevano temuto che potesse nascondere un’arma sotto i vestiti. Comunque fosse, avevano provato a forzarla. Una delle guardie le diede uno spintone e lei gli si avvinghiò al braccio come se ne andasse della sua stessa vita. Miller fece una smorfia quando vide il braccio dell’uomo piegarsi nel verso sbagliato, ma sorrise anche.

Brava ragazza, pensò. Fagliela vedere.

E lei lo fece. Per quasi trenta secondi, la camera pressurizzata fu un campo di battaglia. Perfino alcuni membri impauriti della Scopuli cercarono di darle man forte. Poi però Julie non vide arrivare l’uomo dalle spalle ampie che l’aveva attaccata da dietro. Miller sentì il colpo quando il pugno guantato colpì la tempia della giovane. Lei non perse i sensi, ma fu disorientata. L’uomo con le pistole la spogliò con fredda efficienza e, quando constatarono che non aveva né armi né dispositivi di comunicazione, le diedero una tuta ambientale e la spinsero in un ripostiglio. Gli altri, invece, li portarono nella pancia della nave. Miller incrociò il timbro orario e cambiò voce di registro.

I prigionieri vennero portati nella cambusa e legati ai tavoli. Una delle guardie impiegò un minuto per fare un discorso ma, con la visiera calata, gli unici indizi che Miller poteva avere sul contenuto di quel sermone erano le reazioni dell’equipaggio: incredulità, occhi sgranati, confusione, indignazione e timore. La guardia poteva aver detto qualsiasi cosa.

Miller cominciò a saltare interi passaggi del video. Qualche ora, e poi ancora qualcun’altra. La nave era in accelerazione, con i prigionieri seduti ai tavoli invece che fluttuanti intorno a essi. Miller cambiò file per osservare le altre parti della nave. Il ripostiglio di Julie era ancora chiuso. Se non avesse saputo con certezza il contrario, avrebbe senz’altro pensato che fosse morta.

Mandò avanti il video.

Centotrenta ore dopo, l’equipaggio della Scopuli prese finalmente coraggio. Miller lo vide nei loro corpi prima ancora che la violenza avesse inizio. Aveva esperienza delle rivolte nelle celle di detenzione, e i prigionieri avevano la stessa espressione cupa ma eccitata. Sullo schermo si vedeva la porzione di muro dove avevano trovato i fori di proiettile. Ancora non c’erano. Presto ci sarebbero stati. Un uomo entrò in campo con un vassoio di razioni.

Sta per succedere, pensò Miller.

Il combattimento fu breve e brutale. I prigionieri non avevano alcuna possibilità. Miller rimase a guardare mentre uno dei rivoltosi, un uomo dai capelli rossicci, veniva afferrato di peso e portato via; lo trascinarono verso il portellone e lo eiettarono nello spazio. Gli altri vennero messi in catene. Alcuni piangevano. Altri gridavano. Miller mandò avanti il video.

Doveva essere lì, da qualche parte. Il momento in cui la cosa, qualunque cosa fosse, si scatenava. Ma doveva essere successo in qualche ambiente privato, non sorvegliato da telecamere, oppure era stata lì fin dall’inizio. Quasi esattamente centosessanta ore dopo che avevano rinchiuso Julie nel ripostiglio, un uomo con un maglione bianco, gli occhi vitrei e la postura malferma barcollò fuori dagli alloggi dell’equipaggio e vomitò su una delle guardie.

«Cazzo!» gridò Amos.

Miller fu lontano dal sedile prima ancora di sapere che cosa fosse successo. Anche Holden era scattato.

«Amos?» disse Holden. «Che succede?»

«Aspetta...» rispose Amos. «Sì, okay. Tutto a posto, capitano. È solo che questi bastardi hanno tirato via una parte della schermatura del reattore. La nave è in linea, ma mi sono beccato un po’ più radiazioni di quante non mi sarebbe piaciuto.»

«Torna alla Roci» disse Holden. Miller si appoggiò a una paratia e si spinse giù verso la console di controllo.

«Senza offesa, signore, ma non è che adesso mi metterò a pisciare sangue o roba del genere» rispose Amos. «Più che altro, sono rimasto sorpreso. Se dovessi cominciare a sentirmi strano tornerò da voi, ma posso farci avere un po’ di atmosfera interna lavorando sulle macchine nell’officina, se mi dai ancora qualche minuto.»

Miller guardò Holden e vide l’inquietudine sul viso dell’uomo. Poteva renderlo un ordine, o poteva lasciar stare.

«Va bene, Amos. Ma se cominci a sentire capogiri o altro – intendo qualunque cosa – va’ immediatamente in infermeria.»

«Ricevuto, ricevuto» rispose Amos.

«Alex, tieni d’occhio i parametri vitali dalla tua posizione. Avvertici se rilevi un problema» disse Holden sulla linea di comunicazione generale.

«Ricevuto» disse pigramente Alex.

«Hai trovato niente?» chiese Holden a Miller sul canale privato.

«Niente di inatteso» rispose Miller. «E tu?»

«Qualcosa l’ho trovato, in effetti. Da’ un’occhiata.»

Miller si spinse verso lo schermo su cui Holden era al lavoro. Questi si rimise in postazione e cominciò ad aprire file.

«Ho pensato che qualcuno doveva essere andato per ultimo» disse Holden. «Voglio dire, doveva pur esserci qualcuno che era meno malato degli altri, quando questa cosa si è scatenata. Per cui ho scartabellato nella directory per vedere quale attività fosse in funzione appena prima che il sistema fosse spento.»

«E...?»

«Ci sono un sacco di attività che fanno pensare che sia successo un paio di giorni prima dello spegnimento, e poi più niente per due giorni interi. Quindi un picco isolato. Un sacco di file di accesso e diagnostiche di sistema. Poi qualcuno ha violato i codici di accesso per espellere tutta l’atmosfera.»

«Allora è stata Julie.»

«È quel che stavo pensando» disse Holden. «Ma uno dei documenti video a cui ha avuto l’accesso era... merda, ora dov’è? Era proprio... ah, ecco. Guarda questo.»

Lo schermo si spense e si riaccese, con i controlli in standby, e un emblema ad alta risoluzione verde e oro comparve sotto ai loro occhi: il logo aziendale della Protogen, con uno slogan che Miller non aveva mai visto prima. ‘Primi. Più veloce. Più lontano.’

«Qual è il codice orario del file?» chiese Miller.

«L’originale è stato creato un paio di anni fa» rispose Holden. «Questa copia è stata impressa otto mesi fa.»

L’emblema svanì e un uomo dai lineamenti gradevoli, seduto a una scrivania, prese il suo posto. Aveva capelli neri con appena una traccia di grigio sulle tempie e labbra che sembravano aduse a sorridere. Salutò la telecamera con un cenno del capo. Il sorriso non raggiunse i suoi occhi, che sembravano vuoti come quelli di uno squalo.

Sociopatico, pensò Miller.

Le labbra dell’uomo cominciarono a muoversi in silenzio. Holden esclamò «Merda» e premette un pulsante per trasmettere l’audio alle loro tute. Rimise il video da capo e lo fece ripartire.

«Signor Dresden» disse l’uomo. «Voglio ringraziare lei e i membri del consiglio per esservi presi il disturbo di visionare le presenti informazioni. Il vostro sostegno, finanziario e non, è stato assolutamente essenziale per le incredibili scoperte compiute con questo progetto. Benché sia stata la mia squadra a impegnarsi in prima linea, è stato il sostegno instancabile della Protogen al progresso della scienza a rendere possibile il nostro lavoro.

«Signori, sarò franco con voi. La protomolecola Phoebe ha ecceduto ogni nostra aspettativa. Sono convinto che rappresenti una svolta tecnologica che cambierà realmente le regole del gioco. So bene che questo genere di presentazioni formali scadono facilmente nell’iperbole. Vi prego di voler prendere atto del fatto che ogni mia parola sia stata attentamente ponderata e scelta: la Protogen può diventare l’entità più importante e potente nella storia della razza umana. Ma richiederà spirito d’iniziativa, ambizione e audacia nell’agire.»

«Sta parlando di ammazzare persone» disse Miller.

«L’hai già visto?» chiese Holden.

Miller scosse la testa. Il video cambiò. L’uomo svanì, sostituito da un’animazione. Una rappresentazione grafica del sistema solare. Ogni orbita era segnata con ampie tracce colorate, marcando il piano dell’ellittica. La telecamera virtuale si allontanò dai pianeti interni, dove dovevano trovarsi il signor Dresden e gli altri membri del consiglio, spostandosi verso le giganti gassose.

«Per quanti di voi, all’interno del consiglio, avessero poca familiarità con il progetto: otto anni fa fu eseguito il primo atterraggio umano su Phoebe» disse il sociopatico.

L’animazione zumò verso Saturno, mentre anelli e pianeti schizzavano via in un trionfo della grafica sull’accuratezza.

«Una piccola luna di ghiaccio. Inizialmente si è pensato che Phoebe potesse essere sfruttata per l’estrazione idrica, analogamente agli anelli. Il governo di Marte commissionò una missione di analisi scientifica più per scrupolo burocratico che nell’ottica di un guadagno reale. Furono eseguiti carotaggi del nucleo e, quando le anomalie nel silicato attirarono l’attenzione degli studiosi, la Protogen fu avvicinata come co-sponsor del laboratorio di ricerca a lungo termine.»

La luna Phoebe riempiva lo schermo, ruotando lentamente per mostrarsi sotto ogni angolazione, come una prostituta in un bordello da due soldi. Era un pezzo di roccia segnato dai crateri, indistinguibile da migliaia di altri asteroidi e planetesimi che conosceva Miller.

«Data l’orbita extra-ellittica di Phoebe» continuò il sociopatico «si è elaborata una teoria secondo cui si tratta di un corpo celeste originato nella fascia di Kuiper e catturato da Saturno mentre attraversava il sistema solare. La presenza di complesse strutture silicee nel ghiaccio interno, unitamente all’ipotesi di strutture resistenti agli impatti all’interno dell’architettura del corpo stesso, ci hanno costretto a rivalutare questa teoria.

«Facendo uso di analisi di proprietà della Protogen, non condivise con la squadra di ricerca marziana, abbiamo determinato al di là di ogni ragionevole dubbio che ciò che abbiamo in esame non è un planetesimo naturalmente aggregato, bensì un’arma. Nello specifico, un’arma progettata per trasportare il suo carico attraverso le profondità dello spazio interplanetario e depositarlo sulla Terra due miliardi e trecento milioni di anni fa, quando la vita era al suo primissimo stadio. E il suo carico, signori, è questo.»

Lo schermo passò a illustrare un grafico che Miller non riuscì ad analizzare del tutto. Sembrava la struttura genetica di un virus, ma con ampie strutture avviluppate, bellissime e al tempo stesso improbabili.

«La protomolecola ha attirato la nostra attenzione in primo luogo per la sua capacità di mantenere la propria struttura primaria in un’ampia varietà di condizioni, attraversando modifiche secondarie e terziarie. Ha anche mostrato un’affinità con le strutture in carbonio e silicio. La sua attività suggerisce che non si tratti di una creatura vivente in sé, quanto piuttosto di un insieme di istruzioni svincolate progettate per adattarsi e guidare altri sistemi replicanti. La sperimentazione animale ha fornito prove del fatto che i suoi effetti non siano esclusivamente replicanti, ma in tutto e per tutto modulari.»

«Test sugli animali» disse Miller. «Cos’è, l’hanno tirato su un gatto?»

«Le implicazioni iniziali» continuò il sociopatico «postulano l’esistenza di una biosfera più ampia, di cui il nostro sistema solare è soltanto una parte, e che la protomolecola in oggetto sia un prodotto di tale ambiente. Credo che possiamo tutti concordare sul fatto che basterebbe questa semplice scoperta per rivoluzionare la concezione umana dell’universo. Ebbene, lasciate che vi assicuri di una cosa: questo è niente. Se, per una coincidenza di meccaniche orbitali, Phoebe non fosse stata catturata, la vita come la conosciamo non esisterebbe. Esisterebbe qualcos’altro. Le prime cellule di vita sulla Terra sarebbero state modificate, riprogrammate secondo le direttive contenute all’interno della struttura della protomolecola.»

Sullo schermo ricomparve il sociopatico. Per la prima volta, attorno ai suoi occhi si videro delle rughe di espressione, che sembravano una parodia di sé stesse. Miller sentì un odio viscerale crescergli nello stomaco; si conosceva abbastanza da riconoscerlo per ciò che era: paura.

«La Protogen si trova nella posizione di poter prendere possesso non soltanto della prima tecnologia genuinamente extraterrestre, ma anche di un meccanismo precostituito per la manipolazione dei sistemi viventi e dei primi indizi sulla natura di questa più ampia biosfera, che definirei galattica. Indirizzate da mani umane, le sue applicazioni sono illimitate. Sono convinto che l’opportunità che ci si presenta, e che si presenta non soltanto a noi, ma alla vita stessa, sia più grande e gravida di trasformazioni di qualunque altro evento mai accaduto. Inoltre, a partire da oggi, il controllo di questa tecnologia rappresenterà la base di qualsiasi potere politico ed economico.

«Vi esorto a considerare i dettagli tecnici che ho delineato a vostro beneficio nell’allegato. La rapidità nel comprendere la programmazione, i meccanismi e l’intento della protomolecola, come anche i possibili campi di applicazione diretta agli esseri umani, segnerà la differenza tra un futuro guidato dalla Protogen e l’essere lasciati indietro. Sollecito un’azione immediata e decisiva per prendere il controllo esclusivo della protomolecola e procedere con una sperimentazione su larga scala.

«Grazie per il vostro tempo e la vostra attenzione.»

Il sociopatico sorrise di nuovo, poi riapparve il logo aziendale. ‘Primi. Più veloce. Più lontano.’ Miller aveva il cuore che batteva all’impazzata.

«Okay. Va bene» disse. Poi aggiunse: «Cazzo

«Protogen, protomolecola» disse Holden. «Non sanno nemmeno che cosa faccia, ma ci hanno appiccicato sopra la loro etichetta, come se fossero stati loro a crearla. Hanno trovato un’arma aliena, e tutto quello che gli è venuto in mente di fare è stato di metterci il marchio

«C’è motivo di credere che questi tizi siano piuttosto pieni di sé» replicò Miller annuendo.

«Allora, io non sono né uno scienziato né altro,» disse Holden «ma mi pare che prendere un supervirus alieno e buttarlo dentro una stazione spaziale sia una pessima idea.»

«Sono passati due anni» disse Miller. «Hanno fatto esperimenti. Hanno... non lo so, cosa diavolo possano aver fatto. Ma hanno deciso che sarebbe toccato a Eros. E tutti sanno che cosa è successo su Eros. Ognuno dà la colpa all’altra fazione. Niente ricerche, né navi di salvataggio, perché sono tutti in guerra gli uni contro gli altri, intenti a pararsi il culo. Questa guerra è solo una grande distrazione.»

«E la Protogen... che cosa sta facendo?»

«Immagino che starà vedendo cosa può fare il suo giocattolo quando lo porti fuori a fare un giro» disse Miller.

Rimasero in silenzio per un lungo istante. Holden fu il primo a parlare.

«Quindi prendi una compagnia che sembra mancare completamente di coscienza istituzionale, che ha abbastanza contratti di ricerca governativi da essere quasi una banca militare gestita da privati... Quanto si spingeranno oltre, alla ricerca del loro Graal?»

«‘Primi. Più veloce. Più lontano.’» rispose Miller.

«Già.»

«Ragazzi» disse Naomi. «Dovreste venire quaggiù. Credo di avere qualcosa.»