Capitolo nono
Il Ragazzo si fermò sull’alto della scala e guardò giù. Due uomini erano entrati nel vestibolo dell’albergo: allegri e bagnati nei loro cappotti di pelo di cammello, si scuotevano l’umido di dosso al pari di cani e ordinavano rumorosamente da bere.
«Due pinte,» dissero, «in boccali» e tacquero di colpo, accorgendosi che c’era una ragazza nel vestibolo. Erano tipi di classe, che avevano imparato il trucco dei boccali negli alberghi di prima categoria: dalle scale egli stette a guardare i loro sgambetti con un senso di odio. Una femmina qualsiasi era meglio di niente, persino una come Rosa: ma egli poté accorgersi della loro indifferenza. Quella ragazza non meritava di più che una sbirciatina di sfuggita.
«Credo che abbiamo toccato gli ottanta.»
«Sono arrivato a ottantadue.»
«È una bella macchina.»
«Quanto ti hanno beccato?»
«Un paio di biglietti da cento. Come prezzo, non è cara.»
Poi s’interruppero tutti e due e gettarono uno sguardo arrogante sulla ragazza che stava accanto alla statuetta. Non valeva la pena di darsi molto da fare, ma se si fosse data, proprio senza fatica... uno di loro disse qualcosa a voce bassa e l’altro rise. E bevvero lunghi sorsi dai boccali.
La tenerezza risalì pronta ad affacciarsi e si palesò. Che maledetto diritto avevano mai quei due di fare i fanfaroni e di ridere... se Rosa andava bene per lui? Scese la scala ed entrò nel vestibolo: i due alzarono gli occhi e si scambiarono una smorfia, come per dire: «Oh, dopo tutto non valeva proprio la pena.»
Uno di loro disse: «Finiscila di bere. Faremmo meglio a tirare avanti, visto che la va così bene. Non credi che Zoe sarà fuori di casa?»
«Oh no. Aveva detto che potevo arrivare all’improvviso.»
«La sua amica è buona?»
«Un tipo piccante.»
«Allora andiamo.»
Scolarono la birra e si diressero con fare insolente verso la porta, gettando a Rosa, nel passarle accanto, uno sguardo fugace. Egli li poté sentire che ridevano fuori della porta. Fece alcuni passi nel vestibolo: di nuovo essi si rinchiusero in un riserbo glaciale. Ebbe l’impulso improvviso di buttare all’aria tutto quanto, salire in macchina, andare a casa e lasciarla vivere. Era un impulso meno di compassione che di stanchezza – c’era un tale maledetto cumulo di cose da fare e da pensare: ci sarebbero state tante domande, che avrebbero voluto una risposta. Non riusciva quasi a credere che ci sarebbe stata la libertà alla fine di tutto questo, ed anche quella libertà l’avrebbe avuta in un luogo sconosciuto. Disse: «La pioggia è aumentata.» Ella se ne stava lì, in attesa: non poté rispondere: respirava con difficoltà, come se avesse corso per un lungo tratto – e sembrava una vecchia. Aveva solo sedici anni, ma avrebbe potuto avere quell’aspetto dopo anni di matrimonio, di creature messe al mondo e di litigi quotidiani: essi erano giunti sulla soglia della morte – e questa li trasformava al pari dell’età.
Rosa disse: «Ho scritto quello che volevi.» Si aspettava che egli prendesse quel pezzetto di carta e scrivesse il proprio messaggio al magistrato, ai lettori del Daily Express, a quello che si suole chiamare il mondo. L’altro ragazzo venne con fare circospetto nel vestibolo e disse: «Non hai pagato.» Mentre il Rossetto tirava fuori il denaro, ella fu colta da una ribellione quasi indomabile – non aveva che da andarsene fuori, lasciarlo, rifiutarsi di fare la sua parte. Egli non poteva costringerla ad ammazzarsi: la vita non era poi tanto brutta. Fu come una rivelazione, come se qualcuno le avesse sussurrato che lei aveva una sua individualità, era una creatura a sé – non proprio una carne sola con lui. Poteva sempre sfuggire – se lui non avesse cambiato idea. Non c’era nulla di deciso. Potevano andare in macchina dovunque egli volesse: ella poteva prendere l’arma dalla sua mano, ed anche allora – in quel momento estremo – poteva fare a meno di sparare. Non vi era nulla di deciso – c’era sempre un po’ di speranza.
«Ecco la tua mancia,» disse il Ragazzo. «Do sempre la mancia al cameriere.» L’odio si ridestava in lui. Disse: «Sei un buon cattolico, Piker? Vai a messa la domenica, come ti hanno insegnato?»
Piker rispose sfidandolo fiaccamente: «Perché no, Rossetto?»
«Hai paura,» disse il Ragazzo, «paura di bruciare.»
«E chi non l’avrebbe?»
«Io non ce l’ho.» Rievocò con disgusto il passato – una campanella fessa che suonava, un ragazzino che piangeva sotto le botte – e ripeté: «Io non ho paura.» Disse a Rosa: «Dobbiamo andare.» Per provarla, le si avvicinò e le pose un’unghia contro la guancia – fra la carezza e la minaccia – e disse: «Mi avresti voluto sempre bene, vero?»
«Sì.»
Le volle dare ancora un’altra possibilità: «Mi saresti stata sempre attaccata» e quando lei con il capo indicò di sì, egli diede stancamente inizio al lungo seguito di atti, che un giorno gli avrebbe ridato la libertà.
Fuori sotto la pioggia la messa in moto non voleva funzionare: egli rimase lì, il collo della giacchetta rialzato, a girare la manovella. Ella avrebbe voluto dirgli di non rimanere lì a bagnarsi, perché lei aveva cambiato idea: dovevano continuare a vivere – per amore o per forza: ma non osò. Respinse indietro la speranza: al momento estremo. Quando si misero in moto, ella disse: «Ieri notte... la notte prima... non mi hai odiato, vero, per quello che abbiamo fatto?»
Egli disse: «No, non ti odiavo.»
«Anche se era un peccato mortale.»
Era proprio vero – egli non l’aveva odiata, non aveva neppure odiato quell’atto. C’era stato una specie di piacere, una specie di orgoglio, una specie di – qualcosa d’altro.
La macchina rinculò per tornare sulla strada maestra: egli si rimise in direzione di Brighton. Un’emozione enorme s’impadronì di lui: era come qualcosa che cercasse di penetrare in lui, una pressione di ali gigantesche contro il vetro. Dona nobis pacem. Si oppose ad essa, con tutta la forza amara che gli veniva dal banco della scuola, dal campo di gioco di cemento, dalla sala d’aspetto di S. Pancrazio, dalla bramosia segreta di Dallow e di Giuditta, e da quel gelido disgraziato momento sul molo. Se il vetro si fosse rotto, se la bestia – qualunque essa fosse – fosse riuscita ad entrare, Dio sa che cosa essa avrebbe fatto. Ebbe la sensazione di un disastro senza rimedio – la confessione, la penitenza e il sacramento – perse terribilmente la coscienza e guidò alla cieca nella pioggia. Non poteva vedere nulla attraverso il parabrezza incrinato e appannato: un autobus gli venne quasi addosso e si scostò appena in tempo – egli non stava dalla sua parte. Improvvisamente, a casaccio, disse: «Fermiamoci qui.»
Un viottolo male tracciato andava a finire in direzione della scogliera – villette di ogni forma e tipo, una zona libera piena di erba ricoperta di salmastro e di cespugli spinosi, simili a volatili trascinati nel fango, nessuna luce se non a tre finestre. Una radio emetteva della musica e in una rimessa un uomo stava lavorando attorno alla sua motocicletta, che nell’oscurità rombava a tratti. Egli guidò ancora per pochi metri, spense i fanali anteriori, staccò il motore. La pioggia penetrava fragorosamente attraverso lo squarcio nel soffietto e si poteva sentire il mare infrangersi contro la scogliera. Egli disse: «Ebbene, guardati attorno. Questo è il mondo.» Un’altra luce si accese dietro una porta di vetro a colori (un cavaliere sorridente fra delle rose Tudor) e guardando fuori, come se fosse lui che dovesse in certo modo prendere congedo dalla motocicletta, dalle villette e dal viottolo piovigginoso, egli pensò alle parole della Messa: “Egli era nel mondo e il mondo fu fatto da Lui e il mondo non Lo riconobbe.”
Soltanto fino a questo momento la speranza poteva durare: adesso Rosa avrebbe ormai dovuto dire: “Non lo voglio fare, non l’ho mai voluto fare.” Era come un’avventura romantica – si progetta di andare a combattere in Ispagna e poi prima ancora che si sappia se i biglietti per noi sono stati presi, ci mettono in mano dei biglietti di presentazione, qualcuno viene per accompagnarci alla partenza, ogni cosa diventa realtà. Egli ficcò la mano nella tasca e ne trasse fuori l’arma. Disse: «L’ho presa nella stanza di Dallow.» Ella avrebbe voluto dire che non sapeva come servirsene, addurre qualche scusa, ma sembrava che egli avesse pensato a tutto. Spiegò: «Ho tolto la sicurezza. Non devi fare altro che premere qui. Non è duro. Mettitela dentro l’orecchio – così starà ferma.» La sua immaturità era palese nella crudezza delle istruzioni: era come un ragazzino che si diverta con un mucchio di ceneri. «Su» disse, «prendila.»
Era incredibile fino a che punto la speranza poteva resistere. Ella pensò: “Non è necessario che dica ancora nulla. Posso prendere la pistola e poi – buttarla giù dalla macchina, scappare via, fare qualcosa per impedire ogni cosa.” Ma tutto il tempo sentiva la tenace pressione della volontà del Ragazzo. Egli aveva preso la sua decisione. Ella afferrò l’arma: era come un tradimento. «Che farà,» si chiese, «se non... non sparo.» Si sarebbe sparato da solo, senza di lei? Allora lui si sarebbe dannato, e lei non avrebbe più avuto la possibilità di dannarsi pure, di mostrare a quelli che loro due non potevano avere altra scelta. Continuare a vivere per anni... non si poteva dire che cosa la vita non avrebbe potuto fare per rendervi dolci, buoni, pentiti. La fede nella sua mente aveva la chiarezza brillante delle immagini del presepe a Natale: qui finiva la bontà, fra la mucca e l’asinello, e lì incominciava il male – Erode che dal suo mastio turrito indagava per sapere il luogo di nascita del bimbo. Ella voleva essere con Erode – se anche lui c’era: si poteva passare dalla parte del male d’un tratto, in un momento di disperazione o di passione, ma lungo tutta l’esistenza il buon angelo custode vi attirava implacabile verso il presepe, verso la “buona morte.”
Egli disse: «Non c’è bisogno di aspettare oltre. Vuoi che lo faccia io per il primo?»
«No,» ella disse, «no.»
«Benissimo. Vai a fare un giretto, o meglio ancora, io andrò a fare un giretto e tu rimarrai qui. Quando tutto sarà finito, ritornerò indietro e farò lo stesso.» Di nuovo egli dava l’impressione di essere un ragazzo che faccia un gioco, un gioco in cui si parli con i particolari più agghiaccianti del coltello per scotennare o di una ferita di baionetta, per poi tornare a casa a prendere il tè. Egli disse: «Sarà troppo scuro perché io possa vedere bene.»
Aprì lo sportello dell’automobile. Ella era seduta immobile, con la pistola in grembo. Dietro a loro sulla strada maestra una macchina li oltrepassò lentamente in direzione di Peacehaven. Egli disse goffamente: «Sai quello che devi fare?» Sembrò venirgli in mente che un gesto di tenerezza era atteso da lui. Avanzò le labbra – la baciò sulla guancia: aveva paura della bocca – i pensieri si trasmettono troppo facilmente da labbro a labbro. Disse: «Non soffrirai,» e incominciò a ripercorrere il sentiero verso la via maestra. Ora la speranza era giunta al limite massimo a cui poteva giungere. La radio era cessata; la motocicletta fece due scoppi nella rimessa, dei passi si mossero sulla ghiaia e sulla strada maestra ella poté sentire una macchina che ingranava la contromarcia.
Se era un angelo custode che le parlava ora, le parlava da diavolo, – l’attirava verso una virtù che era un peccato. Gettare via la pistola sarebbe stato un tradimento, un atto di viltà, avrebbe voluto dire che ella decideva di non rivederlo mai più. Massime morali rivestite di pedantesche espressioni sacerdotali, ricordi di vecchie prediche, istruzioni, confessioni – “potrai impetrare per lui presso il trono della Misericordia” le si affacciavano alla mente come insinuazioni non convincenti. L’atto cattivo era quello onesto, coraggioso e leale – le sembrò che soltanto la mancanza di coraggio le parlasse in modo così virtuoso. Mise la pistola all’orecchio e la depose di nuovo con un senso di disgusto – era un amore meschino quello che aveva paura di morire. Ella non aveva avuto paura di commettere un peccato mortale – era la morte, non l’eterna dannazione che la impauriva. Il Rossetto aveva detto che lei non avrebbe sofferto. Sentì la sua volontà muovere la sua mano – poteva avere fiducia in lui. Rialzò di nuovo la pistola.
Una voce chiamò bruscamente “Rossetto” ed ella udì qualcuno che camminava nelle pozzanghere. Dei passi correvano... non avrebbe potuto dire dove. Le parve che ciò dovesse significare qualcosa di nuovo, qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Non poteva ammazzarsi, quando ciò avrebbe potuto voler dire qualche buona notizia. Fu come se in un certo punto dell’oscurità la volontà che aveva diretto la sua mano lasciasse la presa, e tutte le forze vergognose dello spirito di conservazione ritornassero, sommergendo tutto. Non sembrava una cosa reale – che ella avesse mai avuto l’intenzione di rimanere lì seduta e premere il grilletto.
«Rossetto,» chiamò nuovamente la voce, e i passi nella notte si fecero più vicini.
Ella spalancò lo sportello dell’automobile e gettò via la pistola, lontano, verso i cespugli madidi.
Nella luce che filtrava attraverso il vetro appannato Rosa scorse Dallow e la donna – e un poliziotto che sembrava confuso, come se non capisse bene quello che succedeva. Qualcuno senza fare rumore girò attorno alla macchina dietro di lei e disse: «Dov’è quella pistola? Perché non spari? Dammela.»
Ella rispose: «L’ho buttata via.»
Gli altri si avvicinavano con circospezione, come in deputazione. Il Rossetto esclamò ad un tratto in una voce infantile singhiozzante: «Tu, Dallow, maledetta spia!»
«Rossetto,» disse Dallow, «non c’è niente da fare. Hanno preso Prewitt.»
Pareva che il poliziotto non si sentisse a suo agio, come uno sconosciuto a una festa.
«Dov’è quella pistola?» chiese di nuovo il Rossetto. Urlò con odio e paura: «Dio santo, dovrò fare un massacro?»
Ella ripeté: «L’ho buttata via.»
Poté vedere confusamente il suo viso, mentre si chinava dentro l’automobile, al disopra del fanalino del cruscotto. Era come quello di un bimbo, tormentato, sconcertato, ingannato: gli anni posticci erano scivolati via, – egli era scaraventato di nuovo nel triste campo di gioco della scuola. Disse: «Tu piccola...» Non poté finire – la deputazione si avvicinava; egli la lasciò, affondando la mano nella tasca per prendervi qualcosa. «Vieni avanti, Dallow,» disse, «spia maledetta» e alzò la mano. Ella non avrebbe potuto dire ciò che accadde allora – del vetro – in qualche punto – infranto, l’urlo di lui, ed ella gli vide il volto – fumante. Egli urlava, urlava, con le mani sugli occhi; si voltò e corse; ella si vide ai piedi un bastone da poliziotto e dei pezzetti di vetro. Egli sembrava dimezzato, come piegato in due dalla sofferenza spaventevole: era come se letteralmente le fiamme lo avvolgessero, ed egli si contrasse – si contrasse sino a divenire uno scolaretto che scappava impaurito e dolorante, scavalcava una siepe, continuava a correre.
«Fermatelo,» gridò Dallow. Era inutile: egli era sull’orlo, era al di là, non poterono sentire neppure il tonfo. Era come se fosse stato sottratto improvvisamente da una mano a qualsiasi esistenza – passata o presente, scagliato nel vuoto – nel nulla.