Capitolo quarto

«Spicer,» chiamò il Ragazzo, «Spicer.» Salì dal piccolo ingresso oscuro di Frank verso il pianerottolo, lasciando sul linoleum una traccia di terra bianca, terra delle colline. «Spicer.» Sentì la ringhiera rotta tremare sotto la sua mano, aprì la porta della camera di Spicer, e lo vide sul letto, addormentato bocconi.

La finestra era chiusa, un insetto ronzava nell’atmosfera stagnante, e dal letto esalava un sentore di whisky. Il Rossetto si fermò ad osservare i capelli che si facevano grigi: non provava affatto pietà; non era abbastanza vecchio per provare pietà. Lo tirò per girarlo: la pelle intorno alla bocca era tutta a pustoline. «Spicer.»

Spicer aperse gli occhi e per un poco non vide nulla nella camera oscurata.

«Ho bisogno di dirti due parole, Spicer.»

Spicer si mise a sedere sul letto. «Perdio, Rossetto, sono contento di vederti.»

«Sempre contento di vedere un compagno, eh, Spicer?»

«Ho visto Crab. Mi ha detto che eri alla sezione di polizia.»

«Crab?»

«Non sei stato alla polizia, allora?»

«Ho avuto un colloquio amichevole – a proposito di Brewer.»

«Non a proposito di...»

«A proposito di Brewer.» Improvvisamente il Ragazzo pose la mano sul polso di Spicer. «I tuoi nervi non funzionano bene, Spicer. Hai bisogno di una vacanza.» Aspirò con disprezzo l’aria guasta. «Bevi troppo.» Si avvicinò alla finestra e la spalancò sul panorama del muro grigio. Una grossa zanzara ronzò su per l’invetriata e il Ragazzo la prese in mano; gli vibrava nella palma come una minuscola spirale da orologio. Cominciò a strapparle le gambe e le ali ad una ad una. «Mi ama,» disse, «non mi ama. Sono andato a spasso con la mia ragazza, Spicer.»

«Quella di Snow?»

Il Ragazzo rivoltò sulla palma il corpicciolo tarpato e lo soffiò sul letto di Spicer. «Sai chi voglio dire,» disse. «Avevi un messaggio per me, Spicer. Perché non me l’hai portato?»

«Non sono riuscito a trovarti, Rossetto. Sinceramente non sono riuscito. E ad ogni modo non era poi tanto importante. Una vecchia impicciona che faceva delle domande.»

«Però ti ha spaventato lo stesso,» disse il Ragazzo. Si era seduto sulla dura seggiola d’ufficio dinanzi allo specchio, e, le mani sulle ginocchia, fissava Spicer. La pulsazione traspariva sulla guancia.

«Oh, non mi ha spaventato,» disse Spicer.

«Sei andato difilato a passeggiare lì.»

«Cosa vuoi dire – lì?»

«Non c’è che un solo per te, Spicer. Ci pensi sempre e ne sogni. Sei troppo vecchio per questa vita.»

«Questa vita?» chiese Spicer, ricambiando il suo sguardo dal letto.

«Voglio dire, questa vita di avventure, naturalmente. Diventi nervoso, e poi imprudente. Prima c’era quel cartoncino lasciato da Snow, adesso permetti che la tua fotografia sia esposta sul molo in modo che tutti la possano vedere. Che Rosa la possa vedere.»

«Davanti a Dio, Rossetto, non lo sapevo.»

«Dimentichi di camminare in punta di piedi.»

«Quella ragazza è sicura. Va pazza di te, Rossetto.»

«Non me ne intendo di donne. È una cosa che lascio a te e a Cubitt e a tutti gli altri. So solamente quello che tu mi hai detto. Cento volte mi hai detto che non è mai esistita ancora una pollastrella di cui ci si possa fidare.»

«Si dice tanto per dire.»

«Vuoi dire che sono un ragazzo e che mi raccontate delle storielle per addormentarmi. Ma sono fatto così che ci credo, Spicer. Non mi sembra sicuro che tu e Rosa stiate nella stessa città. Senza contare quest’altra puttana che viene a fare delle domande. Dovrai sparire, Spicer.»

«Cosa vuoi dire?» chiese Spicer. «Sparire?» Si frugò nell’interno della giacchetta, mentre il Ragazzo lo osservava, con le mani stese sulle ginocchia. «Non vorresti fare qualcosa,» disse, continuando a frugarsi nelle tasche.

«Ma va’,» disse il Ragazzo, «cosa credi che io voglia dire? Voglio dire prenderti una vacanza, andare via per un po’ di tempo.»

La mano di Spicer uscì dalla tasca. Tese al Ragazzo un orologio d’argento. «Puoi fidarti di me, Rossetto. Guarda un po’ qui, cosa mi hanno dato i ragazzi. Leggi l’iscrizione. Al compagno di dieci anni. Dai ragazzi dello Stadio. Io non abbandono la gente. Questo è di quindici anni fa, Rossetto. Venticinque anni sui campi di corse. Tu non eri nato, quando ho incominciato.»

«Hai bisogno di una vacanza,» disse il Ragazzo. «Non ho detto altro.»

«Sarei contento di prendermi una vacanza,» disse Spicer, «ma non vorrei che tu mi credessi un vigliacco. Me ne andrò subito. Farò la valigia e sbarazzerò il campo stasera. Perbacco, sarei contento di andarmene.»

«No,» disse il Ragazzo, fissandosi le scarpe. «Non c’è tutta questa fretta.» Sollevò un piede. La suola aveva un buco della grossezza di uno scellino. Di nuovo egli ripensò alle corone sulle poltrone di Colleoni al Cosmopolitan. «Avrò bisogno di te alle corse.» Sorrise guardando Spicer attraverso la stanza. «Di un compagno di cui mi possa fidare.»

«Puoi fidarti di me, Rossetto,» le dita di Spicer carezzavano l’orologio d’argento. «Perché sorridi? Ho una macchia o che altro?»

«Stavo pensando alle corse,» disse il Ragazzo. «Hanno una grande importanza per me.» Si alzò e rimase ritto voltando le spalle alla luce che incupiva, al muro del caseggiato, al vetro della finestra sporco di fuliggine, sogguardando Spicer con una certa curiosità. «E dove andrai, Spicer?» domandò. La sua decisione era stata presa e per la seconda volta in poche settimane egli guardava un uomo vicino a morire. Non poteva fare a meno di sentirsi curioso. Via, era persino possibile che quel vecchio Spicer non fosse destinato alle fiamme, era stato un vecchio camerata leale, non aveva fatto tanto male quanto il suo prossimo, avrebbe potuto scivolare dentro attraverso i cancelli... – ma il Ragazzo non poteva raffigurarsi nessuna vita eterna se non sotto forma di dolore. Aggrottò un poco la fronte nello sforzo di immaginare: un mare trasparente, una corona dorata, il vecchio Spicer.

«A Nottingham,» disse Spicer. «Un mio amico fa andare l’Ancora Azzurra nella Union Street. Un locale senza nulla di clandestino. Di prima classe. Colazioni servite. Mi ha detto spesso: “Spicer, perché non entri in società con me? Con un po’ più di denaro nel cassetto trasformeremo quel vecchio posto in un albergo.” Se non fosse per te e per i ragazzi,» aggiunse Spicer, «non desidererei di tornare indietro. Non m’importerebbe di stare via per sempre.»

«Bene, me ne andrò,» disse il Ragazzo. «Ad ogni modo ci siamo spiegati.»

Spicer si riadagiò sul cuscino e mise fuori il piede dal callo dolorante. C’era un buco nella calza di lana, e attraverso ad esso si vedeva un grosso alluce, pelle dura calcinata dalla maturità. «Dormi bene,» disse il Ragazzo.

Scese abbasso; la porta d’entrata guardava verso est e l’ingresso era scuro. Egli accese la lampadina vicino al telefono, poi la spense di nuovo: non sapeva perché. Quindi chiamò il Cosmopolitan. Quando il centralino dell’albergo rispose, poté udire in lontananza la musica da ballo, che arrivava dalla Casa delle Palme (tè danzante a tre scellini), proprio dietro il vestibolo Luigi XVI.

«Voglio parlare con il signor Colleoni.» L’usignolo che canta, il postino che suona il campanello – la melodia s’interruppe bruscamente e sulla linea ronzò una voce bassa dall’accento ebraico. «È il signor Colleoni?»

Poté udire il tintinnio di un bicchiere e del ghiaccio agitato in uno shaker. Disse: «Qui parla il signor Brown. Ci ho ripensato, signor Colleoni.» Fuori dello stretto e buio ingresso dal pavimento di linoleum un autobus passò per la via, e la luce dei fari era debole nel grigio crepuscolo. Il Ragazzo pose la bocca vicino all’orifizio del telefono e disse: «Non vuole sentir ragioni, signor Colleoni.» La voce gli rispose con tono soddisfatto nel suo caratteristico accento. Il Ragazzo spiegò con calma e precisione: «Gli augurerò buona fortuna e lo batterò sulla schiena.» Si interruppe e disse bruscamente: «Cosa dice, signor Colleoni? No. Credevo proprio che lei ridesse. Pronti. Pronti.» Sbatté giù il ricevitore e si girò verso la scala con una sensazione di inquietudine. L’accendisigari d’oro, il panciotto grigio a doppio petto, l’impressione di un giro d’affari largamente redditizio lo dominarono per un istante: il letto d’ottone lì sopra, la bottiglietta di inchiostro violetto sul lavabo, le briciole di panino imbottito. Per un momento la sua astuzia da Scuola Comunale si afflosciò: poi riaccese la luce, si sentì di nuovo in casa sua. Salì le scale, canticchiando sommessamente l’usignolo che canta, il postino che suona il campanello, ma allorché i suoi pensieri si avvicinarono più strettamente al fatto centrale oscuro, pericoloso e mortale, il motivo cambiò: Agnus Dei qui tollis peccata mundi...: camminava rigido, e la giacchetta segnava delle pieghe sulle sue spalle da adolescente. Ma quando aprì la porta della sua stanza, Dona nobis pacem, il suo viso pallido lo guardò confusamente pervaso di orgoglio dallo specchio sopra la brocca, il portasapone, il catino di acqua sporca.