Capitolo terzo
Ida Arnold traversò d’impeto lo Strand. Non era tipo da seccarsi ad aspettare il segnale di via libera, e non si fidava dei semafori. Si aprì la strada passando rasente ai radiatori dei filobus: i conducenti strinsero i freni e la guardarono male, ma ella li ricambiò con un sorriso. Era pur sempre un poco accesa in volto, quando l’orologio batté le undici ed ella giunse da Hennecky, come se uscisse da qualche avventura che le avesse dato una migliore opinione di se stessa. Ma non era la prima ad arrivare da Hennecky.
«Salute, vecchio spettro,» disse, e l’ometto tetro vestito di nero e col cappello duro, seduto vicino a un barile di vino, le disse: «Oh, lascia andare, Ida, lascia andare.»
«Porti il lutto di te stesso,» disse Ida, raddrizzandosi il cappello in uno specchio che faceva la pubblicità del White Horse: non le si sarebbe dato un giorno di più di trentacinque anni.
«È morta mia moglie. Una birra, Ida?»
«Sì, dammi una birra. Non sapevo neppure che tu avessi moglie!»
«Non sappiamo molto l’uno dell’altra, ecco la verità, Ida,» egli disse. «Perbacco, non so neppure come vivi o quanti mariti hai avuto.»
«C’è stato più che un Tom nella tua vita.»
«Dovresti saperlo,» disse Ida.
«Oh, c’è stato soltanto un Tom.»
«Datemi un bicchiere di vino rosso,» disse l’uomo tetro. «Stavo proprio pensando, quando sei entrata, Ida, perché noi due non ci rimetteremmo insieme?»
«Tu e Tom, volete sempre ricominciare da capo,» disse Ida. «Perché, quando avete una ragazza, non ve la tenete stretta?»
«Ora con quel poco di denaro mio e col tuo...»
«A me piace iniziare qualcosa di nuovo,» disse Ida, «non lasciare andare il nuovo e ripigliare il vecchio.»
«Ma hai buon cuore, Ida.»
«È così che tu lo chiami,» disse Ida e dal fondo oscuro della sua birra la bontà le strizzò l’occhio, una bontà un poco sorniona, un poco grossolana, pronta a godersela. «Non punti mai una sommetta sui cavalli?» chiese.
«Non ho fiducia nelle scommesse. È un gioco per i gonzi.»
«Proprio così,» disse Ida, «un gioco da gonzi,» disse veemente, guardando l’ometto pallido al disopra del barile di vino, più rossa in viso, più giovane, espansiva che mai. «Black Boy,» disse sommessa. «Non si sa mai se si vincerà o si perderà. Mi piace.»
«Eh, che cosa?» chiese bruscamente lo spettro, lanciando di soppiatto uno sguardo al proprio viso riflesso nello specchio del White Horse.
«È il nome di un cavallo» ella rispose, «ecco tutto. Me lo ha dato un giovanotto a Brighton. Stavo chiedendomi se lo avrei rivisto alle corse. L’ho perso di vista. Mi piaceva. Non sapevi mai quello che avrebbe detto. Gli devo anche del denaro.»
«Hai visto la storia di Kolley Kibber a Brighton l’altro giorno?»
«L’hanno trovato morto, no? L’ho visto su un affisso.»
«Hanno fatto l’inchiesta.»
«Si è ammazzato?»
«Oh no. È stato il cuore. È il caldo che l’ha fatto fuori. Ma il giornale ha pagato il premio all’uomo che lo ha trovato. Dieci ghinee,» continuò lo spettro «per avere trovato un cadavere.» Depose con gesto amaro il giornale sul barile di vino. «Datemi un altro vino rosso.»
«Capperi,» disse Ida, «quella è la fotografia dell’uomo che lo ha trovato? Il birbaccione. Ecco dove se ne era andato. Non c’è da meravigliarsi che non volesse indietro il suo denaro!»
«No, no, non è Lui,» disse lo spettro, «È Kolley Kibber.» Trasse fuori da un pacchettino di carta un piccolo stuzzicadenti di legno e incominciò a raschiarsi i denti.
«Oh,» disse Ida. Era come se l’avessero colpita. «Allora non faceva finta,» disse, «era malato.» Rammentava come la sua mano tremasse nel tassì e come egli l’avesse implorata di non lasciarlo, proprio come se avesse saputo di dover morire, prima che lei tornasse. Ma non aveva fatto scene. «Era un signore,» disse dolcemente.
Doveva essere caduto a terra, lì accanto all’arganello, non appena ella gli aveva voltato le spalle; ed ella era scesa alla toeletta per signore senza saperlo. Ora da Hennecky si sentì venire le lagrime agli occhi: ripercorse quei gradini bianchi e lucidi che conducevano alla toeletta, come se fossero le lente fasi di una tragedia.
«Beh,» disse lo spettro, «dovremo tutti morire.»
«Sì,» disse Ida, «ma quello non avrebbe desiderato di morire come neppure io lo desidero.» Incominciò a leggere e quasi subito esclamò: «Ma perché mai si è fatta tutta quella strada con quel caldo?» Perché egli non era caduto a terra accanto all’arganello: aveva rifatto tutta la strada percorsa insieme, si era seduto in un casotto...
«Doveva eseguire il suo incarico.»
«Non mi ha parlato affatto di un incarico. Ha detto: “Starò qui. Rimarrò qui proprio vicino a questo arganello.” Ha detto: “Fai in fretta, Ida. Starò proprio qui”.» E nel ripetere ciò che poteva ricordare delle sue parole, ebbe la sensazione che fra un’ora o due, quando le cose si fossero chiarite, avrebbe provato il bisogno di piangere un poco per la morte di quel povero spaventato e appassionato sacchetto di ossa che si chiamava...
«Perbacco,» disse, «che cosa hanno per la testa? Leggi qui.»
«Ebbene?» chiese l’uomo.
«Che cagne,» disse Ida, «perché saranno andate a dire una tale bugia?»
«Che bugia? Prendi un’altra birra. Non devi arrabbiarti per questo.»
«Non me ne importa di arrabbiarmi,» disse Ida, ma quando ebbe bevuto un lungo sorso, riprese il giornale. Era un’istintiva: ed ora l’istinto le diceva che vi era qualcosa di strano, qualcosa che puzzava. «Queste ragazze,» disse, «che lui aveva cercato di invitare, dicono che era venuto un uomo che lo aveva chiamato Fred, e che lui aveva detto di non chiamarsi Fred e di non conoscere quell’uomo.»
«Ebbene? Ascolta, Ida, andiamo al cinematografo.»
«Ma era Fred. Me lo ha detto lui che si chiamava Fred.»
«Si chiamava Carlo. Puoi leggerlo qui. Carlo Hale.»
«Questo non vuole dire niente,» disse Ida. «Un uomo ha sempre un nome diverso per la gente che non conosce. Non mi dirai che il tuo vero nome è Clarence. E un uomo non ha un nome diverso per ogni ragazza, finirebbe per confondersi. Tu per esempio rimani sempre fedele a Clarence. Non puoi dirmi sugli uomini molte cose che io non sappia.»
«Non vuole dire niente. Puoi leggere com’è andata la cosa. Lo hanno detto incidentalmente. Nessuno vi ha dato importanza.»
Ella disse tristemente: «Nessuno ha dato importanza a nulla. Puoi leggerlo qui. Non aveva nessun parente che piantasse delle grane. Il giudice chiese se fosse presente qualche familiare del deceduto e il testimone della polizia dichiarò che non avevano potuto rintracciare altri parenti che un cugino in secondo grado nel Middlesbrough.»
«Dà un’impressione di solitudine,» ella continuò. «Nessuno lì a fare domande.»
«So cosa sia la solitudine, Ida,» disse l’ometto tetro, «È ormai un mese che sono solo.»
Ella non gli badò: riandava Brighton in quel lunedì di Pentecoste, pensava che, mentre ella lo aspettava là, egli doveva essere morto, camminando per il lungomare sino ad Hove, morto, e il dramma comune e il patos del ricordo la resero tenera verso quell’uomo. Era una donna del popolo, che piangeva nei cinema assistendo al Davide Copperfield; sulle cui labbra, quando aveva bevuto, tornavano senza fatica tutte le vecchie ballate, che sua madre sapeva: il suo cuore semplice si commoveva per la parola “tragedia”. «Il cugino in secondo grado del Middlesbrough era rappresentato da un avvocato» disse. «Che vuol dire?»
«Immagino che se questo Kolley Kibber non ha lasciato un testamento, egli avrà tutto il denaro che c’è. Non avrà voluto che si parlasse di suicidio per l’assicurazione sulla vita.»
«Non ha fatto nessuna domanda.»
«Non ce n’era bisogno. Nessuno ha avanzato l’ipotesi che egli si fosse ucciso.»
«E forse si è proprio ucciso,» disse Ida. «C’era qualcosa di strano in lui. Mi sarebbe piaciuto di fare qualche domanda.»
«A che proposito? La cosa è abbastanza chiara.»
Un individuo in calzoni a sbuffo e cravatta a righe si avvicinò al bar.
«Ciao, Ida,» le gridò.
«Ciao, Harry,» ella rispose tristemente, gli occhi fissi sul giornale.
«Bevi qualcosa.»
«Ho già bevuto, grazie.»
«Buttalo giù e ribevi.»
«No, grazie, non voglio più bere,» ella disse. «Se fossi stata lì...»
«A che sarebbe servito?» chiese l’ometto tetro.
«Avrei potuto fare delle domande.»
«Domande, domande,» egli brontolò irascibile, «continui a parlare di domande. E non riesco a capire su che cosa.»
«Perché ha detto che non si chiamava Fred.»
«Non si chiamava Fred, si chiamava Carlo.»
«Non è naturale.»
Quanto più ci pensava, tanto più avrebbe desiderato di essere stata lì: era come una fitta nel cuore, il pensiero che nessuno si fosse interessato all’inchiesta, che il cugino in secondo grado fosse rimasto nel Middlesbrough, che il suo avvocato non avesse fatto domande e che persino il giornale di Fred gli avesse dedicato soltanto una mezza colonna. In prima pagina c’era un’altra fotografia: il nuovo Kolley Kibber, che si sarebbe trovato a Bournemouth l’indomani. Avrebbero potuto aspettare, pensò, almeno una settimana. Sarebbe stato un segno di riguardo.
«Mi sarebbe piaciuto di chiedere loro perché mai egli mi ha lasciato in quel modo per tornare a rifarsi con quel sole tutto il lungomare.»
«Doveva eseguire il suo incarico, doveva lasciare quei cartoncini.»
«E allora perché mi ha detto che mi avrebbe aspettato?»
«Oh,» disse l’ometto tetro, «questo, avresti dovuto chiederlo a lui,» e in quelle parole era come se egli stesse cercando di risponderle, risponderle in un proprio stile a geroglifici, nella tetra sofferenza che dava sui nervi alla donna, come potrebbe parlare uno spettro. Ida credeva agli spettri.
«Ci sarebbero molte cose che direbbe, se lo potesse,» ella disse. Di nuovo prese fra le mani il giornale e lesse lentamente. «Ha fatto il suo dovere sino alla fine,» disse con voce tenera: le piacevano gli uomini che facevano il loro dovere: vi era in questo una specie di vitalità. Egli aveva deposto i suoi cartoncini su tutto il lungomare, poiché essi erano tornati all’ufficio, trovati sotto una barca, sotto un cesto per i rifiuti, sotto il secchiello di un bimbo. Non gliene rimanevano che pochi quando il signor Alfredo Jafferson, indicato come un capo contabile, di Clapham, lo aveva trovato.
«Se si è ammazzato», ella disse (era lei sola a rappresentare il morto), «ha fatto prima il suo dovere.»
«Ma non si è ammazzato,» disse Clarence. «Non hai che da leggere. Gli hanno fatto l’autopsia e hanno detto che è morto di morte naturale.»
«È strano,» disse Ida. «È andato a lasciarne uno in un ristorante. Sapevo che aveva fame. Ha continuato a dire che voleva mangiare, ma ci deve essere stato qualcosa che lo ha fatto scappare via a quel modo tutto solo, lasciandomi ad aspettarlo. C’è qualcosa di strano.»
«Forse aveva cambiato idea nei tuoi riguardi, Ida.»
«Non mi va,» Ida disse, «c’è qualcosa di strano. Vorrei essere stata lì. Avrei rivolto loro alcune domande.»
«Che ne diresti se tu ed io andassimo insieme al cinema?»
«Non sono d’umore,» disse Ida. «Non si perde ogni giorno un amico. E anche tu non dovresti essere d’umore, con tua moglie che è appena morta.»
«Se ne è andata che è ormai un mese,» disse Clarence: «non ti puoi aspettare che una persona continui ad essere eternamente in lutto.»
«Un mese non è poi tanto,» rispose Ida tristemente, ruminando l’articolo del giornale.
Un giorno, – pensava, – non se ne è andato che da un giorno e, vorrei dire, non c’è anima viva all’infuori di me che pensi a lui; una persona che lui aveva invitato per bere e fare un po’ all’amore, – e di nuovo il facile sentimentalismo toccò il suo cuore espansivo di donna del popolo. Non si sarebbe preoccupata più affatto di tutto, se ci fossero stati degli altri parenti, oltre il cugino in secondo grado del Middlesbrough, e se lui non fosse stato, oltre che morto, così solo.
Ma c’era qualcosa che puzzava al suo olfatto, per quanto non ci fosse altro su cui soffermarsi, che quel «Fred» – ed ognuno avrebbe risposto la stessa cosa. «Non si chiamava Fred. Non hai che da leggere. Si chiamava Carlo Hale.»
«Non dovresti rimuginarci sopra, Ida. Non è affare tuo.»
«Lo so,» ella disse, «non è affatto affare mio.» Ma anche di nessun altro, il suo cuore glielo andava ripetendo: ecco ciò che la turbava: non c’era che lei a fare delle domande. Conosceva una donna che aveva visto il marito, dopo ch’egli era morto, ritto accanto alla radio che cercava di girare il bottone: ella aveva girato nel senso indicato da lui ed egli era sparito, e immediatamente ella aveva udito un annunciatore dire sull’onda del Midland Regionale inglese “Preannuncio di tempesta nella Manica.” Lo strano era che la donna stava proprio pensando di prendere uno dei piroscafi domenicali che fanno la traversata sino a Calais. Questo provava che non bisogna ridere degli spiriti. E se Fred, ella pensava, avesse voluto dire a qualcuno qualche cosa, non sarebbe certo andato a dirlo al cugino in secondo grado nel Middlesbrough: perché non sarebbe venuto da lei? L’aveva lasciata lì ad aspettarlo, ed ella aveva aspettato quasi un’ora; forse avrebbe voluto dirle il perché. «Era un gentiluomo,» disse a voce alta, e con decisione più ferma si raddrizzò il cappellino, si lisciò la capigliatura e si alzò dal barile di vino. «Devo andare,» disse. «Arrivederci, Clarence.»
«E dove devi andare? Ida, non ti ho mai visto avere tanta furia,» egli si lamentò amaramente al disopra del boccale di birra.
Ida pose il dito sul giornale. «Qualcuno dovrebbe bene essere lì, anche se non c’è nessun cugino in secondo grado.»
«Se ne infischierà di chi lo mette sotto terra.»
«Non si sa mai,» disse Ida, ripensando allo spirito accanto alla radio. «È una prova di rispetto. Inoltre – i funerali mi piacciono.»
Ma non è che lo stessero precisamente mettendo sotto terra nel nuovo rione soleggiato e pieno di fiori dove egli aveva abitato. Da quelle parti non c’era nessun cimitero antigienico. C’erano due imponenti torri di mattoni, come quelle di un palazzo di città scandinavo, dei chiostri con piccole lapidi lungo le pareti come quelle per i morti in guerra, una cappella laica nuda e fredda, che avrebbe potuto servire benissimo per qualsiasi religione: niente cimitero, niente fiori di cera, niente miseri vasetti da marmellata con fiori di campi avvizziti. Ida era in ritardo. Mentre esitava un istante fuori della porta per paura che dentro fosse pieno di amici di Fred, pensò che qualcuno avesse aperto la radio sul programma nazionale, ché conosceva quella voce inespressiva di uomo colto; ma quando socchiuse la porta, un uomo, non un apparecchio, stava in piedi rivestito di una tonaca nera e diceva «il Cielo». Non c’era nessun altro all’infuori di una persona che sembrava la padrona di casa, una bambinaia che aveva lasciato fuori la carrozzina, e due uomini che sussurravano in tono impaziente.
«La nostra fede nel cielo,» il sacerdote continuava, «non cambia per il fatto che non crediamo più al vecchio inferno del medioevo. Noi crediamo» egli disse, gettando un rapido sguardo lungo le rotaie lucide e levigate dirette verso delle porte di un’arte modernistica, attraverso le quali il feretro sarebbe stato gettato nelle fiamme, «noi crediamo che questo nostro fratello sia già una cosa sola con l’Essere Supremo.»
Accentuava le parole, come panetti di burro impressi con un marchio speciale.
«Ha raggiunto l’unità. Non sappiamo che cosa sia quell’Ente Supremo, con il quale (o con la quale cosa) egli forma ora una cosa sola. Non serbiamo le vecchie credenze medioevali in cieli trasparenti e in corone auree. La verità è bellezza, e vi è più bellezza per noi, per la nostra generazione che ama la verità, nella certezza che il nostro fratello è in questo istante riassorbito nello spirito universale.»
Premette un campanello, le porte ultramoderne si aprirono, le fiamme si agitarono e il feretro scivolò dolcemente nel mare incandescente.
Le porte si richiusero, la bambinaia si alzò avviandosi verso la porta, il sacerdote sorrise gentilmente dietro le rotaie, come un prestidigitatore che abbia tirato fuori senza impedimenti il suo millesimo coniglio.
Era finito. Ida spremette con fatica un’ultima lagrima nel fazzoletto profumato al papavero della California. Le piacevano i funerali, – ma con un senso di terrore, come ad altra gente piace una storia di spettri. La morte la rivoltava, la vita era così importante. Ella non era religiosa, non credeva nel cielo o nell’inferno, ma solo negli spiriti, nelle tavolette spiritiche, nelle tavole che battono i colpi e nelle tenue voci fatue che parlano in tono lamentoso di fiori. I cattolici trattassero pure la morte con disinvoltura, forse per loro la vita non era così importante come ciò che le teneva dietro; ma per lei la morte era la fine di ogni cosa. Formare una cosa sola con l’Ente Supremo, non voleva dire proprio nulla in confronto a un boccale di birra in una giornata di sole. Ella credeva negli spiriti, ma non si poteva chiamare vita eterna quella tenue esistenza trasparente: lo scricchiolìo di una tavola, un pezzetto di ectoplasma in un armadio di vetro alla sede centrale delle ricerche psichiche, una voce che una volta in una seduta ella aveva sentito dire: «Tutto è molto bello nella sfera superiore. Ci sono fiori dovunque.»
Dei fiori, pensò Ida con disprezzo: non erano la vita. La vita era la luce del sole sulle colonnine di ottone del letto, il porto color rubino, il balzo del cuore quando l’outsider su cui avete puntato passa il traguardo e i suoi colori s’innalzano sull’antenna. La vita era la bocca del povero Fred schiacciata contro la sua nel tassì, vibrando all’unisono del motore lungo il viale.
Che senso aveva il morire, se vi faceva ciarlare di fiori? Fred non aveva bisogno di fiori, aveva bisogno... e quel piacevole senso di desolazione che già aveva provato da Hennecky le ritornò. Ella prendeva la vita con terribile serietà; ed era pronta ad infliggere qualsiasi infelicità a chiunque per difendere la sola cosa in cui credeva. Uno era abbandonato – «i cuori spezzati,» avrebbe detto, «si aggiustano sempre» – uno rimaneva mutilato o cieco, – «È una fortuna» avrebbe detto «di essere rimasti in vita.» V’era qualcosa di pericoloso ed incapace di rimorso nel suo ottimismo, sia che da Hennecky ella stesse ridendo, o piangesse a un funerale o a un matrimonio.
Uscì dal crematorio, ed ecco che al disopra della sua testa dalle torri gemelle esalava in una nuvoletta tutto quanto rimaneva di Fred, una striscia sottile di fumo grigio proveniente dai forni.
La gente che risaliva la stradetta suburbana tutta fiorita guardava in alto e notava il fumo: era stata una giornata di lavoro per il forno crematorio. Fred ricadde in una cenere grigia indistinguibile sui fiori rossi, s’incorporò nella caligine che ricopriva Londra, ed Ida pianse.
Ma mentre piangeva, una decisione nacque: continuò a crescere durante la strada sino alla linea tramviaria che l’avrebbe ricondotta nel suo quartiere familiare, ai bar, alle insegne elettriche e ai teatri di varietà. L’uomo è foggiato dai posti in cui vive, e la mente di Ida funzionava con la semplicità e la regolarità di un’insegna luminosa nel cielo: il bicchiere che sempre versa, la ruota che sempre gira, la domanda diretta che lampeggia e sparisce: «Usate il prodotto Forfram per le gengive?» Farei lo stesso per Tom, ella pensava, per Clarence, quel vecchio spettro imbroglione di Hennecky, per Harry. È il meno che si possa fare per una persona – fare delle domande, delle domande nelle inchieste, delle domande nelle sedute spiritiche. Qualcuno aveva reso Fred infelice e qualcuno a sua volta sarebbe stato reso infelice. Occhio per occhio. Se si credesse in Dio, si potrebbe lasciare a lui la vendetta, ma non ci si può fidare di un Ente Supremo, di uno spirito universale. La vendetta apparteneva ad Ida, allo stesso modo che le apparteneva la ricompensa, la morbida bocca incollata nei tassì, la calda stretta di mano nei cinema, la sola ricompensa che ci fosse. E vendetta e ricompensa – erano tutte e due divertenti.
Il tram scampanellava e mandava scintille scendendo lungo l’Embankment. Se era una donna che aveva reso Fred infelice, ella le avrebbe detto quello che ne pensava. Se Fred si era ammazzato, lo avrebbe scoperto, i giornali avrebbero pubblicato la notizia, qualcuno avrebbe sofferto. Ida avrebbe incominciato dall’inizio e avrebbe continuato a lavorare bene. Era tenace.
Il primo passo (aveva tenuto il giornale in mano tutto il tempo durante il servizio funebre) riguardava Molly Pink, designata come segretaria privata presso la ditta Carter e Galloway.
Ida uscì dalla stazione di Charing Cross nella luce calda e ventosa dello Strand, che tremolava sui carburatori. In una sala superiore di Stanley Gibbons un signore dai lunghi baffi grigi alla moda edoardiana era seduto accanto alla finestra ed esaminava attraverso la lente un francobollo: un pesante autocarro carico di barili rintronò nel passare, e le fontane di Trafalgar Square erano tutto un gioco di luci, un freddo fiore translucido che s’innalzava e ricadeva nelle vasche sporche di fuliggine.
«Ci vorrà del denaro,» Ida ripeteva fra sé, «costa sempre, se si vuole conoscere la verità,» e lentamente risalì il vicolo di S. Martino, mentre tutto il tempo, fra la malinconia e la decisione, il cuore le batteva più forte al ritornello: è eccitante, è divertente, è vivere. Ai Sette Orologi i negri si affollavano alle porte dei locali pubblici nei loro vestiti stretti e vistosi, con cravatte delle grandi scuole, e Ida ne riconobbe uno e lo salutò nel passargli accanto.
«Come vanno gli affari, Joe?» La grossa dentatura bianca apparve come una riga luminosa nell’oscurità al disopra della camicia chiara a righe. «Bene, Ida, bene.»
«E il raffreddore del fieno?»
«Terribile, Ida, terribile.»
«Ciao, Joe.»
«Ciao, Ida.»
Ci voleva un quarto d’ora di strada per arrivare dai signori Carter e Galloway, che abitavano proprio all’ultimo piano di un grande fabbricato ai margini di Gray’s Inn.
Ora ella doveva pensare a fare economia: non avrebbe preso nemmeno un autobus, e quando giunse al vecchio edificio polveroso, non c’era ascensore. Le numerose branche di scale la stancarono. La giornata era stata piena, e Ida non aveva mangiato null’altro che un panino alla stazione. Si sedette sul davanzale di una finestra, si cavò le scarpe. Aveva i piedi caldi: ne agitò le dita. Un vecchio signore discese le scale. Aveva dei lunghi baffi e uno sguardo equivoco e strabico. Indossava una giacca a scacchi, un panciotto giallo e portava un cappello duro grigio. Se lo tolse. «In difficoltà, signora,» disse, scrutando Ida con gli occhietti cisposi. «Posso essere di aiuto.»
«Non permetto a nessuno di grattarmi le dita dei piedi,» Ida rispose.
«Ah, ah,» disse il vecchio signore, «un bel tipo. Proprio quello che piace a me. Su o giù?»
«Su. Proprio in cima.»
«Carter e Galloway. Buona ditta. Dite loro che vi ho mandato io.»
«Come vi chiamate?»
«Moyne. Charlie Moyne. Vi ho già vista qui.»
«Mai.»
«In qualche altro posto. Non dimentico mai una bella donna. Dite loro che Moyne vi ha mandato. Faranno delle condizioni speciali.»
«Perché non c’è un ascensore in questo posto?»
«Gente antiquata. Anch’io antiquato. Vi ho già vista ad Epsom.»
«Potrebbe darsi.»
«Si riconosce sempre una sportiva. Vi inviterei a dividere una bottiglia di spumante appena voltato l’angolo, se quei miserabili non mi avessero tolto l’ultimo biglietto da cinque sterline con cui ero uscito. Avrei voluto andare a scommetterne un paio. Devo prima andare a casa. Intanto le quotazioni andranno giù. State a vedere. Non potreste prestarmi qualcosa, vero? Due sovrane, Charlie Moyne?» Gli occhi striati di sangue la fissavano senza speranza, un poco strabici e svagati: i bottoni del panciotto giallo si muovevano, secondo il battito del vecchio cuore.
«Ecco,» disse Ida, «posso darvi una sovrana: ed ora andatevene.»
«Infinitamente gentile da parte vostra. Datemi il vostro biglietto da visita. Vi imbucherò un assegno stasera.»
«Non ho biglietti da visita,» disse Ida.
«Anch’io sono uscito senza i miei. Non importa. Charlie Moyne. Presso Carter e Galloway. Tutti mi conoscono qui.»
«Benone,» disse Ida. «Ci vedremo ancora. Devo continuare a salire.»
«Eccovi il mio braccio.» Egli l’aiutò a rizzarsi in piedi. «Dite loro che vi manda Moyne. Condizioni speciali.» Alla svolta della scala, ella riguardò indietro. Egli stava riponendo il bigliettone nel panciotto, lisciandosi i baffi, ancora dorati alle estremità, del colore delle dita di un fumatore di sigarette, e mettendosi il cappello un poco storto. Povero vecchione, non si sarebbe mai sognato di ottenerlo, pensò Ida, guardandolo andarsene via giù per le scale nella sua miseria allegra e di vecchia data.
Sul pianerottolo dell’ultimo piano non v’erano che due porte. Ne aprì una con la scritta «Informazioni» ed ecco lì indubbiamente Molly Pink. In una stanzetta poco più grande di un armadio da scope, era seduta accanto a un fornello a gas, masticando un dolce. Un pentolino sibilò, mentre Ida entrava. Un viso rigonfio e coperto di pustole le ricambiò il suo sguardo, senza aprire bocca.
«Mi scusi,» disse Ida.
«I soci sono fuori.»
«Sono venuta per vedere lei.»
La bocca si aprì leggermente, un pezzo di biscotto si agitò sulla lingua, il pentolino sibilò.
«Me?»
«Sì,» disse Ida. «È meglio che lei stia attenta. Se no, l’acqua traboccherà dal pentolino. È lei Molly Pink?»
«Vuole una tazza di tè?» La stanza era rivestita dal pavimento al soffitto di fascicoli di carte. Una finestrella lasciava intravvedere attraverso la polvere indisturbata di molti anni un altro blocco di case con la stessa disposizione di finestre che, come per riflesso, ricambiavano lo stesso sguardo polveroso. Una mosca morta era appesa ad una ragnatela spezzata.
«Non mi piace il tè,» disse Ida.
«Che fortuna! Non ho che una sola tazza,» disse Molly, riempiendo una tozza teiera di color bruno, dal becco scheggiato.
«Un mio amico, che si chiama Moyne...» incominciò Ida.
«Oh, lui!» disse Molly. «Lo abbiamo appena scacciato dal nostro tetto.» Sulla sua macchina da scrivere stava appoggiando un fascicolo di La Donna e la Bellezza e gli occhi le sfuggivano continuamente in quella direzione.
«Scacciato dal vostro tetto?»
«Precisamente. È venuto per vedere i soci. Ha cercato di corrompermi.»
«Li ha visti?»
«I soci sono fuori. Un biscotto?»
«È nocivo per la linea,» disse Ida.
«In compenso non faccio la prima colazione.»
Al disopra della testa di Molly, Ida poteva scorgere i cartellini sui fascicoli: «Affitti di Mud Lane I-6» «Affitti della Proprietà Wainage, Balham» «Affitti di...» Erano circondate dalla più nobile delle ricchezze, la proprietà immobiliare...
«Sono venuta qui» disse Ida, «perché lei ha conosciuto un mio amico.»
«Si accomodi,» disse Molly. «Quella è la poltrona per i clienti. Tocca a me di riceverli. Il signor Moyne non è un amico.»
«Moyne no, ma Hale certamente sì.»
«Non ne voglio più sapere di quella questione. Avrebbe dovuto vedere i soci. Erano furiosi. Ho dovuto farmi dare un giorno di vacanza per l’inchiesta. E il giorno dopo mi hanno fatto arrivare con ore di ritardo.»
«Vorrei sapere soltanto quello che è successo.»
«Quello che è successo! I soci sono furiosi, quando si arrabbiano.»
«Voglio dire con Fred Hale.»
«Non lo conoscevo esattamente.»
«Quell’uomo che era sopraggiunto – a quanto lei ha detto all’inchiesta...»
«Non era un uomo. Era appena un ragazzo. Conosceva il signor Hale.»
«Ma nel giornale si diceva...»
«Oh, il signor Hale ha detto che non lo conosceva. Non ho detto loro altro. Non mi hanno chiesto niente, soltanto se c’era qualcosa di strano nei suoi modi. Ebbene, non c’era nulla che si possa dire strano. Non era che spaventato, ecco tutto. Qui dentro ne vengono dei mucchi di gente così.»
«Ma questo, lei non lo ha detto?»
«Non c’è niente di straordinario. Ho capito subito di che si trattava. Doveva del denaro al ragazzo. Qui ne vengono dei mucchi di gente così. Come Charlie Moyne.»
«Era spaventato, non è vero? Povero caro Fred.»
«“Non sono Fred”, ha detto, secco secco. Ma l’ho capito subito. E anche la mia amica.»
«Che tipo era quel ragazzo?»
«Oh, un ragazzo.»
«Alto?»
«Non particolarmente.»
«Bello?»
«Non direi.»
«Di che età?»
«Press’a poco la mia, direi.»
«Ossia?»
«Diciott’anni», disse Molly, guardando insolente attraverso la macchina da scrivere e il pentolino che fumava, e masticando il biscotto.
«Ha chiesto del denaro?»
«Non ha avuto il tempo di chiedere del denaro.»
«Lei non ha notato null’altro?»
«Era terribilmente ansioso che io andassi insieme a lui. Ma non potevo, con la mia amica che era lì.»
«Grazie,» disse Ida, «ho appreso qualche cosa.»
«È della polizia?» chiese Molly.
«Oh no, non sono che un’amica sua.»
C’era qualcosa che puzzava: ormai ne era convinta. Rammentò una volta ancora come egli fosse apparso spaventato nel tassì, e scendendo per Holborn in direzione di casa sua dietro a Russell Square, nel sole del tardo pomeriggio, ripensò di nuovo a come egli le aveva dato i dieci scellini, prima che ella scendesse alla toeletta per signore. Era un vero gentiluomo: forse erano gli ultimi scellini che possedeva: e quella gente – quel ragazzo – che lo perseguitavano per un po’ di denaro... Forse era anche lui rovinato come Charlie Moyne; ed ora che il ricordo del viso del morto si stava facendo un poco confuso, non poté fare a meno di prestargli alcune delle fattezze di Charlie Moyne, se non altro gli occhi iniettati di sangue. Dei gentiluomini sportivi, generosi, dei veri gentiluomini. I ricchi commercianti mettevano in mostra le loro pappagorge nel salone dell’Imperiale, il sole si abbassò al di là dei platani e un campanello suonò a più riprese per chiedere del tè in una pensione di Coram Street.
«Proverò con la tavoletta,» disse Ida, «e allora saprò.»
Quando entrò, sulla tavola dell’atrio c’era una cartolina, una cartolina con il molo di Brighton: se fossi superstiziosa, pensò, se fossi superstiziosa. La rivoltò. Era solo Filippo Corkery, che la invitava a raggiungerlo. La riceveva tutti gli anni da Eastburne, da Hastings e una volta da Aberystwyth. Ma ella non era mai andata. Non era una persona che ci tenesse a incoraggiare. Troppo quieto. Non quello che lei chiamava «un uomo».
Si avvicinò alla scala del seminterrato e chiamò il vecchio Crowe. Per far muovere la tavoletta ci volevano due paia di mani e sapeva che il vecchietto lo avrebbe fatto con piacere.
«Vecchio Crowe,» chiamò, spingendo lo sguardo lungo i gradini di pietra. «Vecchio Crowe.»
«Che c’è, Ida?»
«Vorrei provare a far muovere la tavoletta.»
Non rimase ad aspettarlo, ma salì alla sua camera da letto-salotto per preparare.
La stanza guardava ad oriente e il sole era sparito. Faceva freddo e buio. Ida accese il gas, tirò le vecchie tende di velluto scarlatto per chiudere fuori il cielo grigio e i camini. Poi rassettò con due colpetti il divano-letto e avvicinò due seggiole alla tavola. In una credenza dagli sportelli di vetro, la sua esistenza pareva guardarla – una bella esistenza: oggetti di porcellana comperati al mare, una fotografia di Tom, un libro di Edgardo Wallace, un Netta Syrett di seconda mano, alcune musiche, il libro I buoni compagni, il ritratto di sua madre, altre porcellane, alcuni animali articolati fatti di legno e gomma, ninnoli dati da questo, da quello e da altri ancora, il libro Sorrell e figlio, la tavoletta.
La tirò giù con precauzione e richiuse la credenza. Era un’assicella ovale di legno lucido che poggiava su rotelle, e sembrava un oggetto uscito fuori da una credenza di cucina nello scantinato. Ma in realtà era il vecchio Crowe che l’aveva fatta, il vecchio Crowe che bussava dolcemente alla porta, entrava di sbieco, con i capelli bianchi, la faccia grigia, gli occhi miopi da cavallo di miniera, sbattendo le palpebre dinanzi alla luce senza schermo della lampada da tavolino di Ida. Ella gettò una sciarpa rossa sulla lampadina, per smorzarne il bagliore.
«Hai qualcosa da chiedere, Ida?» domandò il vecchio Crowe. Tremava leggermente, spaventato ed affascinato. Ida appuntì una matita e la inserì in una estremità della tavoletta.
«Siediti, vecchio Crowe. Che hai fatto tutto il giorno?»
«C’era un funerale al n. 27. Uno di quegli studenti indiani.»
«Anch’io sono stata a un funerale. Il tuo era bello?»
«Non ci sono bei funerali di questi tempi. Non con i pennacchi.»
Ida diede una spintarella alla tavoletta che scivolò di fianco sulla tavola levigata, più che mai simile a uno scarafaggio. «La matita è troppo lunga,» osservò il vecchio Crowe. Era seduto; e stringendosi le mani fra le ginocchia, curvo in avanti, osservava la tavoletta. Ida avvitò la matita un poco più in alto. «Passato o futuro?» domandò il vecchio Crowe, ansimando lievemente.
«Ho bisogno di entrare in contatto oggi stesso,» disse Ida.
«Morto o vivo?» disse il vecchio Crowe.
«Morto. L’ho visto bruciare questo pomeriggio. Cremato. Via, vecchio Crowe, metti su le dita.»
«È meglio che tu ti tolga gli anelli,» disse il vecchio Crowe. «L’oro disturba.»
Ida si denudò le dita, ne pose le estremità sulla tavoletta, che scricchiolando si allontanò da lei sul foglio di carta. «Suvvia, vecchio Crowe,» disse.
Il vecchio Crowe sorrise beffardo. Disse: «È cattiva» e pose le sue dita ossute proprio sull’orlo, dove tamburellarono in sordina. «Che cosa le chiederai, Ida?»
«Fred, ci sei?»
La tavoletta si allontanò stridendo sotto le loro dita, tracciando lunghe linee sulla carta in un senso e nell’altro. «Ha una sua volontà,» disse Ida.
«Sss» disse il vecchio Crowe.
La tavoletta s’impennò lievemente sulla rotella posteriore e si fermò. «Ora vediamo un po’,» disse Ida. Spinse la tavoletta da un lato e insieme osservarono l’intreccio dei segni di matita.
«Qui si potrebbe decifrare un I,» disse Ida.
«O potrebbe essere una N.»
«Ad ogni modo vi è qualcosa. Proviamo di nuovo.» Pose saldamente le dita sulla tavoletta. «Fred, che ti è successo?» ed immediatamente la tavoletta si rimise in moto, allontanandosi. Tutta la indomabile volontà di Ida si esercitava attraverso le sue dita: questa volta non avrebbe avuto una risposta indecifrabile: e al di là della tavoletta, la grigia faccia del vecchio Crowe si corrugò nel concentrarsi.
«Sta scrivendo delle vere lettere,» disse Ida in tono di trionfo; e mentre le sue dita per un momento diminuivano la loro pressione, ella poté sentire la tavoletta che scivolava via sicura, come per imposizione di un’altra persona.
«Sss,» disse il vecchio Crowe, ma la tavoletta s’impennò e si fermò. La spinsero da un lato ed ecco, senza possibilità di sbaglio, ecco una parola scritta in larghe lettere sottili, ma non una parola che conoscevano, SUICCIDO.
«Che sia un nome,» disse il vecchio Crowe.
«Deve significare qualcosa,» disse Ida. «La tavoletta significa sempre qualcosa. Riproviamo.» E di nuovo lo scarafaggetto di legno fuggì via rapidamente, descrivendo una linea tortuosa. La luce brillava rossa sotto la sciarpa e il vecchio Crowe fischiettava tra i denti. «Ora vediamo,» disse Ida e sollevò la tavoletta. Una lunga parola a lettere disuguali correva diagonalmente attraverso il foglio FRESUICCIDDOCCHIO.
«Perbacco,» disse il vecchio Crowe, «che parolone! Non puoi cavarne nulla, Ida.»
«Perché no?» disse Ida. «Via, è chiarissimo FRE è un’abbreviazione di Fred e SUICCI di suicidio e occhio: quello che dico sempre – occhio per occhio e dente per dente.»
«E quei due DD?»
«Non so ancora, ma me li terrò a mente.» Si appoggiò all’indietro sulla poltrona con una sensazione di potere e di vittoria. «Io non sono superstiziosa,» disse, «ma non si può non essere impressionati. La tavoletta sa tutto.»
«La tavoletta sa tutto,» ripeté il vecchio Crowe, succhiandosi i denti.
«Proviamo una volta ancora?» La tavoletta fuggì via, stridette e si fermò bruscamente. Con tutta chiarezza il nome le apparve: FIL.
«Bene,» disse Ida, «bene.» Arrossì lievemente. «Vuoi un biscotto?»
«Grazie, Ida, grazie.»
Ida prese una scatola di latta da un cassetto dell’armadio e la offrì al vecchio Crowe. «Lo hanno spinto alla morte,» dichiarò soddisfatta. «Lo sapevo che c’era qualcosa che puzzava. Vedi quell’OCCHIO. Mi dice chiaramente quello che devo fare.» Indugiò con lo sguardo sul FIL. «Farò in modo che quella gente debba rimpiangere che io sia mai nata.» Trasse un lungo respiro e distese le gambe monumentali. «Il giusto e l’ingiusto» disse, «credo nel giusto e nell’ingiusto,» e sprofondando ancora un poco di più nella poltrona, con un sospiro di ansietà soddisfatta, disse: «Sarà eccitante, sarà divertente, sarà vivere veramente, vecchio Crowe,» accordando la più alta lode che ella potesse mai dare a una cosa qualsiasi, mentre il vecchio si succhiava i denti e la luce scarlatta tremolava sul libro di Warwick Deeping.