Parte quarta
Capitolo primo
Era una bella giornata per le corse. La gente si riversò a Brighton con il primo treno: era come un ripetersi della festa dei lavoratori, eccetto che questa folla non spendeva il suo denaro: lo teneva in serbo. Si ammucchiava fitta fitta sopra i tram che scendevano verso l’Acquario, beccheggiava in su e in giù per il lungomare come una migrazione naturale e irrazionale di insetti. Alle undici non era possibile di trovare un posto sugli automezzi che portavano al campo di corse. Un negro con una cravatta a righe sgargianti stava seduto sopra un banco nel giardino del Padiglione e fumava un sigaro. Alcuni bimbi giocavano a tocca-legno da un sedile all’altro, ed egli li chiamava in modo buffo, tenendo il sigaro all’estremità del braccio teso con aria di orgoglio e di precauzione, e i grandi denti bianchi brillavano come un cartellone pubblicitario. Si fermarono nel gioco e lo fissarono, indietreggiando lentamente. Egli li chiamò di nuovo nella loro lingua, in parole senza significato, informi e infantili come le loro, ed essi lo tennero d’occhio inquieti e indietreggiarono ancora di più. Pazientemente egli si rimise il sigaro fra le labbra sporgenti e continuò a fumare. Una banda risalì il marciapiedi nell’Old Steyne, una povera banda di ciechi composta di tamburi e trombette, che camminava marciando in fila indiana nel fossetto di scolo, tastando con la punta delle scarpe l’orlo delle pietre. Se ne sentiva la musica da ben lontano, persistente attraverso il frastuono della folla, gli scoppi degli scarichi e lo stridio degli autobus che iniziavano la salita in direzione dell’Ippodromo. Suonava con animazione, marciava con passo da parata; si alzava gli occhi aspettandosi di vedere la pelle di tigre e i bastoncini da tamburo piroettanti, e si vedeva invece quegli occhi ciechi senza colore, come quelli di cavalli di miniera, che passavano lungo il fossetto di scolo.
Nei grandi campi sportivi della scuola pubblica, alti sul mare, le ragazze uscivano solennemente in formazione per andare a giocare ad hockey: solide guardiane di porta si pavoneggiavano come armadilli; i comandanti discutevano la tattica con i loro subordinati; le ragazzine più giovani correvano ebbre nella giornata chiara. Al di là del recinto aristocratico, attraverso i grandi cancelli di ferro battuto esse potevano scorgere la processione plebea di coloro che gli autobus non avevano potuto contenere per risalire faticosamente la collina, scuotendosi dai piedi la polvere, mangiando focacce cavate fuori da sacchetti di carta. Gli autobus percorrevano la strada più lunga attraverso Kemp Town, ma su per la collina ripida venivano i tassì strapieni – un posto a sedere al prezzo di nove pence il percorso – una Packard per i membri del peso, delle vecchie Morris, strane automobili alte con intere famiglie, che camminavano ancora dopo venti anni. Era come se l’intera strada si muovesse all’insù al pari di una scala mobile nell’aria tutta sole e polvere, e con essa si muovesse una folla scricchiolante, urlante, piroettante di macchine. Le ragazzine se la davano a gambe levate, correndo sul prato come cavallini, nel sentire l’animazione che regnava là fuori, come se questo fosse un giorno in cui per molta gente la vita raggiungeva una specie di culmine. La quotazione di Black Boy era diminuita, e nulla avrebbe potuto rendere la vita proprio la stessa di prima, dopo quella pazza giocata di un bigliettone da cinque sterline su Merry Monarch. Un modello da corsa scarlatto, un’automobilina pazza, che portava con sé l’atmosfera di innumerevoli osterie, locali di divertimento, comitive riunite attorno a piscine, incontri furtivi in sentieri sperduti ai lati della grande strada maestra del nord, s’insinuava nel traffico con incredibile abilità. Il sole l’avvolse con i suoi raggi, ed essa ne rinviò il riflesso sino alle finestre del refettorio della scuola femminile. Era piena zeppa: una donna stava seduta sulle ginocchia di un uomo e un altro uomo era accoccolato sul parafango, mentre essa ondeggiava e suonava il clackson e serpeggiando risaliva la collina. La donna stava cantando, e la sua voce, debole e spezzata attraverso i clackson, cantava qualcosa di tradizionale a base di spose e di mazzi di fiori, qualcosa che si accordava con la birra e le ostriche e con il vecchio salone del Leicester, qualcosa assolutamente fuori di posto in quella smagliante macchina da corsa. Sulla cima della collina le parole furono portate indietro dal vento lungo la strada polverosa, ad incontrarsi con una vecchia Morris che traballando e arrancando seguiva nella scia a quaranta miglia all’ora, con il soffietto che sbatteva, il paraurti curvato e il parabrezza appannato.
Le parole giunsero attraverso il flap, flap, flap del vecchio soffietto sino alle orecchie del Ragazzo. Era seduto accanto a Spicer, che guidava la macchina. Spose e mazzi di fiori: ed egli pensò a Rosa con un imbronciato disgusto. Non riusciva a togliersi dalla mente il suggerimento di Spicer, era come una potenza invisibile che combattesse contro di lui: la stupidaggine di Spicer, la fotografia sul molo, quella donna – chi diavolo era mai? – che faceva delle domande... Se egli l’avesse sposata, naturalmente non sarebbe stato per lungo tempo: solo come un’estrema risorsa per chiuderle la bocca e avere del respiro. Egli non voleva quella specie di legame con nessuno: il letto matrimoniale, l’intimità, gli davano un senso di nausea come l’idea della vecchiaia. Si accovacciò nell’angolo più lontano dal punto in cui il battito del motore si trasmetteva attraverso il sedile, vibrando nei sussulti nella sua acre verginità. Sposarsi – era come avere della merda sulle mani.
«Dove sono Dallow e Cubitt?» chiese Spicer.
«Non volevo averli qui oggi,» disse il Ragazzo. «Oggi abbiamo da fare qualcosa, da cui è meglio che la banda stia fuori.» Come un bambino crudele che nasconde dietro a sé i compassi, pose la mano con finto affetto sul braccio di Spicer. «Non ho paura di dirtelo. Voglio farla fuori con Colleoni. Non mi sarei fidato di loro, sono dei violenti. Tu ed io, sistemeremo la cosa per benino fra di noi.»
«Sono per la pace,» disse Spicer, «lo sono sempre stato.»
Il Ragazzo ghignò, guardando attraverso la finestra il lungo susseguirsi disordinato di macchine. «È quella che voglio combinare,» disse.
«Una pace che duri,» disse Spicer.
«Nessuno dovrà infrangere questa pace,» disse il Ragazzo. Il fievole canto si spense nella polvere e nella luce del sole: un’ultima sposa, un ultimo mazzo di fiori, una parola che suonava come “ghirlanda”.
«Come si fa per sposarsi?» domandò il Ragazzo a malincuore. «Se si deve farlo in fretta?»
«Non è tanto facile per te» disse Spicer. «Alla tua età.» Manovrò i vecchi congegni per affrontare l’ultima salita verso il bianco recinto sul suolo argilloso e i carrozzoni degli zingari. «Dovrei rifletterci.»
«Fallo in fretta,» disse il Ragazzo, «non dimenticare che te ne andrai stasera.»
«Benone,» disse Spicer. La partenza lo rendeva un poco sentimentale. «Col treno delle otto e dieci. Dovresti vedere quel locale, vi saresti il benvenuto. Nottingham è una bella città. Sarà piacevole di starci un poco a riposo. L’aria è buona, e non potresti trovare un amaro migliore di quello che ti dànno all’Ancora Azzurra.» Sogghignò. «Dimenticavo che non bevi.»
«Passatela bene,» disse il Ragazzo.
«Sarai sempre il benvenuto, Rossetto.»
Spinsero la vecchia macchina nel parcheggio e ne uscirono fuori. Il Ragazzo passò il braccio sotto quello di Spicer. La vita era bella camminando fuori del muro bianco impregnato di sole, oltre i camion con l’altoparlante, oltre l’uomo che credeva in un secondo avvento, verso la più bella di tutte le sensazioni, quella di infliggere del dolore. «Sei un brav’uomo, Spicer,» disse il Ragazzo, stringendogli il braccio, e Spicer incominciò a raccontargli a voce bassa e confidenziale tutto ciò che riguardava l’Ancora Azzurra. «Non è un locale clandestino,» disse, «ma ha una riputazione. Ho sempre pensato che, quando avessi fatto abbastanza denaro, mi sarei messo in società con il mio amico. Continua a chiedermelo. Stavo per andarci, quando ammazzarono Kite.»
«Ti spaventi facilmente, no?» disse il Ragazzo.
Gli altoparlanti mobili consigliarono a chi affidare il denaro, e i bambini degli zingari si misero schiamazzando a inseguire un coniglio sul terreno argilloso tutto calpestato. Discesero nel tunnel sotto il campo di corse e ne uscirono fuori nella luce lì dove l’erbetta rada e grigia scendeva in declivio lungo le villette sino al mare. Vecchi scontrini di scommesse marcivano nell’argilla: “Barker per le quotazioni”, un viso sorridente di compiaciuto nonconformista riprodotto in giallo, “Non preoccupatevi, io pago” e altri vecchi biglietti di totalizzatore sparsi fra gli arbusti rinsecchiti. Attraverso il ferro spinato entrarono nel recinto da mezza corona. «Prendi un bicchiere di birra, Spicer,» disse il Ragazzo, spingendolo innanzi.
«Perbacco, è gentile da parte tua, Rossetto. Un bicchiere non mi dispiacerebbe,» e mentre lo beveva accanto ai cavalletti di legno, il Ragazzo gettò gli occhi verso la linea degli allibratori. C’erano Barker e Macpherson e Giorgio Beale («La Vecchia Ditta») e Bob Tavell di Clapton, tutti visi familiari, pieni di lusinghe e di un falso buon umore. Le prime due corse erano già avvenute: c’erano delle lunghe code agli sportelli del totalizzatore. Il sole illuminava il bianco capannone di Tattersall al di là della pista, e alcuni cavalli andavano al piccolo galoppo verso il punto di partenza. «Ecco là il Generale Burgoyne,» disse uno, «È irrequieto,» dirigendosi verso il banco di Bob Tavell per fare la sua giocata. Gli allibratori cancellavano e alteravano le quotazioni, mentre i cavalli passeggiavano, tamponando con gli zoccoli il terreno, come fossero guanti da pugilato.
«Non ti butti?» chiese Spicer, finendo di tracannare la sua birra ed esalando un respiro pregno di gas e di malto in direzione degli allibratori.
«Non gioco,» disse il Ragazzo.
«È l’ultima mia probabilità di guadagno in questa vecchia Brighton. Non mi dispiacerebbe di rischiare un paio di sterline. Non di più. Sto risparmiando denaro per Nottingham.»
«Dacci dentro,» disse il Ragazzo, «divertiti finché puoi.»
Percorsero la fila di allibratori dirigendosi verso il banco di Brewer: c’era una quantità di persone lì attorno. «Sta facendo dei buoni affari,» disse Spicer. «Hai visto il Merry Monarch? Va giù,» e mentre egli parlava, lungo tutta la fila gli allibratori cancellarono la vecchia quotazione di sedici a uno. «Dieci a uno,» disse Spicer.
«Divertiti intanto che sei qui,» disse il Ragazzo.
«Potremmo anche sostenere la vecchia ditta,» disse Spicer, staccando il braccio e dirigendosi verso il banco di Tate. Il Ragazzo sorrise. Era altrettanto facile quanto sgusciare dei piselli. «Memento Mori,» disse Spicer, venendosene via con il biglietto in mano. «Che buffo nome per un cavallo. Cinque a uno, piazzato. Che significa Memento Mori?»
«È un nome straniero,» rispose il Ragazzo. «Black Boy sta diminuendo.»
«Vorrei essermi coperto su Black Boy» disse Spicer. «C’era laggiù una donna che diceva che ha scommesso venticinque sterline su Black Boy. Mi sembra roba da pazzi, ma pensa se vincesse,» disse Spicer. «Mio Dio, che cosa non farei con duecento cinquanta sterline? Mi prenderei subito una parte delle azioni dell’Ancora Azzurra. Non mi vedresti di ritorno qui» disse, dando un’occhiata tutt’attorno al cielo luminoso, alla polvere sopra il campo di corse, ai biglietti delle scommesse strappati e all’erbetta digradante sotto la collina verso il mare oscuro e calmo.
«Black Boy non vincerà,» disse il Ragazzo. «Chi è che ci ha messo sopra un bigliettone da venticinque?»
«Una donnetta qualunque. Era laggiù al bar. Perché non metti cinque sterline su Black Boy? Perché non scommetti una volta tanto per festeggiare?»
«Festeggiare cosa?» interrogò rapido il Ragazzo.
«Ho dimenticato,» disse Spicer. «Questa festa mi ha eccitato, così mi pareva che tutti avessero qualcosa da festeggiare.»
«Se volessi festeggiare,» disse il Ragazzo, «non sarebbe con Black Boy. Perbacco, quello era sempre il favorito di Fred, che sosteneva che avrebbe potuto essere il vincitore di un Derby. Non lo direi un cavallo fortunato,» ma non poté fare a meno di osservarlo mentre trotterellava lungo lo steccato: un poco troppo giovane, un poco troppo irrequieto. Un individuo dall’alto della tribuna da mezza corona faceva strane segnalazioni a Bob Tavell di Clapton e un piccolo ebreo, che stava ispezionando col binocolo il recinto da dieci scellini, incominciò improvvisamente a fare gesti nell’aria, per attirare l’attenzione della Vecchia Ditta.
«Guarda un po’,» disse il Ragazzo, «che cosa ti dicevo? Black Boy sta di nuovo calando.»
«Cento a otto, Black Boy, cento a otto,» gridava il rappresentante di Giorgio Beale e «sono partiti,» disse qualcuno. La gente si spostò dal bar verso lo steccato, portandosi dietro i bicchieri di birra Bass e le focacce all’uvetta.
Barker, Macpherson, Bob Tavell, tutti cancellarono dalle lavagne le quotazioni, ma la Vecchia Ditta rimase intrepida sino alla fine «Cento a sei su Black Boy,» mentre il piccolo ebreo continuava a fare delle segnalazioni convenzionali dall’alto della tribuna. I cavalli sfilarono in gruppo, con un rumore sordo come di legno che si scheggia, e sparirono. «Generale Burgoyne,» disse qualcuno, e un altro disse «Merry Monarch.» I bevitori di birra tornarono ai tavolini montati su cavalletti per berne un altro bicchiere, e gli allibratori esposero i partenti della corsa successiva e incominciarono a segnare con il gesso alcune quotazioni.
«Ecco,» disse il Ragazzo, «che cosa ti dicevo? Fred non ha mai saputo distinguere un buon cavallo da uno cattivo. Quella pazza di una donnetta ha buttato via le sue venticinque sterline. Non sarà certo un giorno fortunato per lei.» Buttato via – ma il silenzio, l’inazione dopo che una cosa è finita e prima che vengano annunciati i risultati hanno in sé qualcosa che intimidisce. File di gente erano in attesa fuori dei totalizzatori, tutto sul campo delle corse si era fatto improvvisamente tranquillo, in attesa di un segnale per riprendere: nel silenzio si poteva sentire un cavallo nitrire venendo via dal peso. Nella quiete e nella luminosità il Ragazzo fu colto da un senso di malessere. Fu come se l’esacerbata e finta maturità, l’esperienza concentrata e limitata dei bassifondi di Brighton si fossero esaurite. Provò il desiderio di avere lì Cubitt e Dallow. C’erano troppe cose da affrontare da solo a diciassette anni. Non si trattava soltanto di Spicer. Quel lunedì di Pentecoste egli aveva iniziato qualcosa che era senza fine. La morte non era una fine; il turibolo oscillava e il sacerdote innalzava l’Ostia, e l’altoparlante fece risonare il nome dei vincitori: Black Boy, Memento Mori, Generale Burgoyne.
«Per Dio,» disse Spicer, «ho vinto. Memento Mori piazzato,» e rammentando quello che il Ragazzo aveva detto, «ed anche quella ha vinto. Un bigliettone da venticinque. Che colpo. Che ne dici ora di Black Boy?»
Il Rossetto era silenzioso. Si diceva: Il cavallo di Fred. Se fossi uno di quei cretini che toccano legno, buttano il sale, non vogliono passare sotto le scale, potrei avere paura...
Spicer lo scosse: «Ho vinto, Rossetto. Un bigliettone da dieci. Che ne dici?»
...avere paura di proseguire in quello che aveva accuratamente progettato. Da un punto lontano più giù nel recinto udì una risata, una risata di donna, melodiosa e sicura, forse di quella donnetta che aveva messo venticinque sterline sul cavallo di Fred. Si volse verso Spicer celando in sé il veleno, e la crudeltà gli irrigidiva il corpo al pari della bramosia sessuale.
«Sì,» disse, mettendo il braccio attorno alla spalla di Spicer, «faresti bene a incassare adesso.»
Si mossero insieme verso il banco di Tate. Un giovanotto dai capelli alla brillantina era in piedi su un gradino di legno intento a pagare. Tate invece era nel recinto da dieci scellini, ma ambedue conoscevano Samuele. Spicer lo chiamò con voce gioviale nel venire avanti: «Ebbene, Samuelino, ora si paga.»
Samuele stette a guardarli, Spicer e il Rossetto, venire avanti sull’erba rada e calpestata, a braccetto come amici di lunga data. Non appena andato via l’ultimo creditore, una mezza dozzina di individui si raccolsero tutt’attorno in attesa, un’attesa silenziosa, e un ometto che teneva in mano un libretto di conti mise fuori la punta della lingua per leccarsi un labbro malato.
«Sei in fortuna, Spicer,» disse il Ragazzo, stringendogli il braccio. «Divertiti con la vincita.»
«Non ci diciamo ancora addio, vero?» disse Spicer.
«Non aspetterò la corsa delle quattro e mezza. Non ti vedrò più.»
«E che fai per Colleoni?» chiese Spicer. «Tu ed io non dovevamo...?» I cavalli passarono al piccolo galoppo per un’altra partenza; le quotazioni vennero affisse; la folla si diresse verso il totalizzatore e lasciò loro un tratto libero. Alla fine del tratto vi era il gruppetto in attesa.
«Ho cambiato idea,» disse il Ragazzo. «Andrò a vedere Colleoni al suo albergo. Ritira il tuo denaro.» Uno stoccatore a testa nuda li trattenne: «Una mancia per la prossima corsa. Un solo scellino. Oggi ho già avuto la mancia da due vincitori.» Gli si vedevano attraverso le scarpe le dita dei piedi. «Vattene via con le tue mance,» disse il Ragazzo. A Spicer non piaceva dire addio: era un’anima sentimentale: cambiò posizione al piede, il cui callo gli faceva male. «Ma come,» disse, guardando lungo il tratto in direzione dello steccato, «la gente di Tate non ha ancora affisso le quotazioni.»
«Tate è sempre stato lento. Lento anche nel pagare. È meglio che tu ti faccia dare il tuo denaro.» Lo spinse innanzi, tenendogli la mano sulla spalla.
«Non ci sarà nessun pasticcio laggiù, vero?» E volse gli occhi agli uomini in attesa, che lo stavano fissando.
«Ebbene, ora ci salutiamo,» disse il Ragazzo.
«Non dimenticarti l’indirizzo,» disse Spicer. «L’Ancora Azzurra, ricordatene. Union Street. Mandami notizie. Non credo che io ne avrò da mandarti.»
Il Ragazzo alzò la mano come per dare un colpettino a Spicer sul dorso e la lasciò ricadere: il gruppo di ebrei si era raggruppato in attesa. «Può darsi,» disse il Ragazzo: si guardò attorno. Ciò che egli aveva incominciato non avrebbe mai avuto fine. Una vampata di crudeltà si ridestò nelle sue viscere. Di nuovo alzò la mano e batté Spicer sul dorso. «Buona fortuna,» gli disse con una voce in falsetto da adolescente, e di nuovo lo batté sul dorso.
Di comune intesa gli ebrei si fecero loro attorno. Egli udì Spicer che gridava «Rossetto» e lo vide cadere: una scarpa a grossi chiodi si alzò in aria, poi egli si sentì il dolore al pari di sangue scendere lungo il collo.
Al primo momento la sorpresa fu assai peggiore del dolore (un’ortica avrebbe potuto dare il medesimo bruciore). «Sciocchi,» disse «non è con me, è con lui che ce l’avete,» si voltò e vide che facce semitiche lo accerchiavano da ogni parte. Lo guardavano sogghignando: ogni uomo aveva tirato fuori il suo rasoio: e per la prima volta egli si ricordò della risata di Colleoni al telefono. Al primo segno di perturbamento la folla si era diradata: egli udì Spicer che invocava «Rossetto, in nome di Cristo,» una lotta confusa raggiunse il suo punto culminante senza ch’egli potesse vederla. Aveva altre cose da cui guardarsi: i lunghi rasoi a mano libera, in cui il sole si rifletteva, scendendo obliquamente da Shoreham sopra la collina. Mise la mano in tasca per tirar fuori la sua lama e l’uomo che gli stava proprio di fronte si piegò su di lui e gli diede una rasoiata sulle nocche. Il dolore lo sopraffece: e fu pervaso da orrore e da stupefazione, come se a scuola uno di quei marmocchi che fanno i bravacci lo avesse colpito per primo con il compasso.
Non si provarono neppure a finirlo. Egli gridò loro singhiozzando: «Colleoni me la pagherà» e due volte urlò «Spicer,» prima di ricordarsi che Spicer non poteva rispondere. La banda ci si stava divertendo, proprio come egli ci si era sempre divertito. Uno di loro si curvò in avanti per sfregiargli la guancia, e allorché egli alzò la mano per farsi schermo, di nuovo gli diedero delle rasoiate sulle nocche. Incominciò a piangere, mentre la corsa delle quattro e mezzo passava accanto a loro in un tambureggiare di zoccoli al di là dello steccato.
Poi qualcuno dal banco gridò «la polizia» e tutti si mossero insieme, raggruppandosi rapidamente attorno a lui. Uno gli diede un calcio sulla coscia, egli afferrò un rasoio colla mano e si fece un taglio profondo sino all’osso. Poi si sparpagliarono, mentre la Polizia percorreva a passi lenti, per gli stivali pesanti, la curva dell’ippodromo, ed egli riuscì a sfuggire passando in mezzo a loro; alcuni pochi lo inseguirono, fuori del recinto, proprio lungo il fianco della collina, verso le case e il mare. Piangeva nel correre, zoppicando per il calcio, e tentò persino di pregare. Si poteva salvarsi fra la staffa e il suolo, ma se ci si pentiva, ed egli non aveva tempo di provare il minimo rimorso, mentre ruzzolava giù per la collina argillosa. Correva goffamente, inciampando, perdendo sangue dal viso e da ambedue le mani.
Ora soltanto due uomini lo inseguivano, e lo facevano per divertirsi, con gli stessi versi, come se si fosse trattato di un gatto. Raggiunse le prime case in basso, ma non si vedeva nessuno in giro. Le corse avevano svuotato ogni casa, e non v’era altro che un selciato in disordine, delle piccole aiuole, delle porte dalle vetrate a colori e una macchina per tagliare l’erba abbandonata in un vialetto ricoperto di ghiaia. Non osò cercare rifugio in una casa: mentre il campanello suonava ed egli aspettava lì fuori, quelli lo avrebbero raggiunto. Ora aveva tratto fuori la sua lama di rasoio, ma non se ne era ancora mai servito su di un nemico armato. Doveva nascondersi, ma lasciava una scia di sangue lungo il cammino.
I due uomini erano rimasti senza fiato: l’avevano sciupato a furia di ridere ed egli aveva dei polmoni giovani. Guadagnò terreno: si avvolse la mano nel fazzoletto e rovesciò il capo all’indietro, in modo che il sangue scorresse sul suo vestito; girò un angolo e si trovò in una rimessa vuota, prima che essi lo avessero raggiunto. Rimase lì, nell’interno oscuro, con il rasoio pronto, cercando di pentirsi.
Pensò «Spicer» «Fred», ma i suoi pensieri non riuscivano a portarlo più in là dell’angolo in cui i suoi inseguitori avrebbero potuto riapparire: scoprì che non aveva l’energia di pentirsi.
E allorché dopo un bel po’ il pericolo sembrò superato e ci fu una lunga oscurità sulle sue mani, non fu già all’eternità ch’egli pensò, ma alla propria umiliazione. Aveva pianto, implorato, era fuggito: Dallow e Cubitt sarebbero venuti a saperlo. Che sarebbe accaduto ora della banda di Kite? Cercò di pensare a Spicer, ma era tutto preso dai problemi terreni. Non riusciva a mettere ordine nei suoi pensieri. Stava ritto con le ginocchia che si piegavano contro il muro di cemento, la lama protesa, sorvegliando l’angolo. Poca gente passò, un debolissimo suono di musica proveniente dal molo del Palace venne a rodere il suo cervello, al pari di un ascesso, le lampade si accesero nella stradetta borghese pulita e deserta.
La rimessa non era mai stata adoperata come rimessa, ma era divenuta una specie di ripostiglio: dai bassi vasi di terra sottili germogli verdi strisciavano fuori come bruchi: una vanga, una falciatrice arrugginita, e tutte quelle anticaglie per cui il proprietario non era riuscito a trovare posto nella casetta: un vecchio cavallo a dondolo, una carrozzina da bimbi trasformata in una carriola, un mucchio di vecchi dischi, Rag time della banda di Alessandro, Metti via i tuoi crucci, Se tu fossi la sola ragazza, erano lì insieme agli utensili da giardino, ai resti di mattonelle, insieme a una bambola con un solo occhio di vetro e ad un vestito sporco di terriccio. Con rapido sguardo inventariò tutto quanto, la lama di rasoio pronta, il sangue che si raggrumava sul collo, gocciava dalla mano, da cui era scivolato giù il fazzoletto. Chiunque fosse l’imbecille che possedeva questa casa, avrebbe avuto anche questo in aggiunta al suo possesso – le macchie che si stavano seccando sul suolo di cemento.
Chiunque fosse il proprietario, era venuto da ben lontano ad approdare qui. La carrozzina divenuta carriola era coperta di etichette; i segni di innumerevoli viaggi – Doncaster, Lichfield, Clacton (quello doveva essere stato un periodo di vacanza), Ipswich, Northampton – strappati via alla bell’e meglio in vista del prossimo viaggio, lasciavano una traccia evidente nei frammenti restanti. E questa, la casetta sotto l’ippodromo, era il migliore rifugio estremo che egli si fosse potuto concedere. Non si poteva dubitare che fosse proprio l’estremo, quella casa gravata di ipoteche lì in basso: come tutti i detriti che la marea lascia quale suo relitto sulla spiaggia, tutta l’anticaglia era stata ammucchiata qui e non sarebbe mai andata più in là.
E il Ragazzo lo odiò. Era senza nome, senza viso, ma il Ragazzo lo odiò, odiò lui, la bambola, la carrozzina, il cavallo a dondolo rotto. Le pianticelle che spuntavano fuori lo irritavano al pari dell’ignoranza. Si sentiva affamato e debole e sconvolto. Aveva provato il dolore e il timore.
Ma ora, senza dubbio ora che l’oscurità scendeva sino in basso, era il momento per lui di mettersi l’anima in pace. Fra la staffa e il suolo non ve n’era il tempo. Non si poteva infrangere in un istante la consuetudine dei pensieri, la consuetudine ci tiene stretti, mentre muoriamo, ed egli ricordò Kite che moriva nella sala di aspetto, dopo che lo avevano fatto fuori a S. Pancrazio, mentre un facchino versava della polvere di carbone nella stufa fredda, parlando tutto il tempo dei seni di qualcuno.
Ma «Spicer,» i pensieri del Ragazzo vi tornavano inevitabilmente con un senso di sollievo, «Spicer l’hanno fatto fuori.» Era impossibile pentirsi di qualcosa che a lui dava la sicurezza. Ora quella impicciona non aveva più nessun testimonio, all’infuori di Rosa, e a Rosa ci pensava lui: e finalmente, quando si fosse sentito completamente sicuro, avrebbe potuto incominciare a pensare a far pace, ad andare a casa, e gli ammorbidì il cuore una vaga nostalgia del piccolo confessionale oscuro, della voce del sacerdote, e della gente che aspettava sotto una statua, dinanzi ai lumi fulgidi ardenti nei vasetti rossi, di essere salvata dalla pena eterna. Sinora le parole pena eterna non avevano significato molto per lui: ora volevano dire uno sfregio prodotto da lame di rasoio che si prolungasse indefinitamente.
Uscì di sbieco dalla rimessa. La strada appena aperta nell’argilla era deserta, all’infuori di una coppietta che si teneva stretta, lontano dall’alone di una lampada, accanto a uno steccato di legno. Lo spettacolo destò in lui un senso di nausea, di crudeltà. Passò zoppicando accanto ad essi con la mano ferita chiusa sul rasoio nella sua verginità crudele che richiedeva una soddisfazione diversa dalla loro, consuetudinaria, grossolana e breve.
Sapeva dov’era diretto. Non voleva saperne di tornare da Frank in quelle condizioni, con le ragnatele della rimessa sul vestito, e i segni della disfatta sul viso e sulla mano. Stavano ballando all’aria aperta sul ponte bianco di pietra al disopra dell’Acquario ed egli scese fino alla spiaggia, dov’era più solo, e le alghe secche lasciate dai fortunali dell’inverno precedente scricchiolavano sotto le sue scarpe. Poteva udire la melodia Colei che amo. Avvolgila nel cellofane, pensò, mettila in carta d’argento. Una falena ferita sbattendo contro uno dei fanali strisciò sopra un rottame ed egli la cancellò dall’esistenza sotto il piede ricoperto di argilla. Un giorno, un giorno – camminava zoppicante nella sabbia nascondendo la mano che sanguinava, – sarebbe stato un giovane dittatore. Egli era a capo della banda di Kite, questa era soltanto una sconfitta temporanea. Una buona confessione, quando fosse stato al sicuro, per cancellare via tutto. La luna gialla s’innalzò di sghembo sopra Hove, sopra Regency Square di una esattezza matematica, ed egli, zoppicando nella sabbia asciutta non lavata, accanto alle cabine da bagno chiuse, fantasticò: regalerò una statua.
Dalla sabbia si arrampicò sul molo proprio appena oltrepassato il Palace, e percorse faticosamente il viale. Il ristorante di Snow era tutto illuminato. Una radio trasmetteva della musica. Egli si fermò fuori sul marciapiedi, finché non vide Rosa servire una tavola vicina alla finestra, ed allora si avvicinò premendo il viso contro l’invetriata. Ella lo vide subito: il suo cervello percepì con rapidità lo sguardo che la fissava, come se egli l’avesse chiamata per mezzo di un telefono automatico. Egli si tolse la mano di tasca, ma il suo viso ferito era una ragione sufficiente di ansietà per la ragazza, che cercò di dirgli qualcosa attraverso il vetro: ma non gli riusciva a capirla, come se stesse ascoltando un linguaggio straniero. Rosa dovette ripetere tre volte «Vai alla porta di dietro,» prima che egli potesse interpretare le sue labbra. Il dolore nella gamba si era fatto più vivo: si trascinò tutt’attorno all’edificio, e proprio mentre svoltava, passò una macchina, una Lancia con l’autista in divisa e il signor Colleoni – un signor Colleoni in abito da sera e panciotto bianco, che si appoggiava all’indietro e sorrideva, sorrideva guardando una vecchia signora vestita di seta rossa. O forse non era affatto il signor Colleoni, erano passati via tanto rapidamente e senza rumore, forse non era che un qualunque ricco ebreo, di mezza età, che se ne ritornava al Cosmopolitan dopo un concerto nel Padiglione.
Si curvò a guardare attraverso la cassetta delle lettere alla porta di servizio. Rosa stava scendendo nell’andito, le mani strette e un’espressione arrabbiata sul viso. Egli perse un poco della sua sicurezza, pensò che forse ella aveva osservato il suo aspetto di vinto... aveva sempre saputo che una ragazza vi guarda le scarpe e il vestito: se mi manda via, pensò, romperò questa bottiglietta di vetriolo... ma quando ella aprì la porta, la trovò docile e devota com’era sempre stata. «Chi è stato?» sussurrò, «potessi acchiapparli.»
«Non badarci,» disse il Ragazzo e con aria di persona esperta si vantò «lascia che me la sbrighi io.»
«La tua faccia cara.» Egli rammentò con disgusto come si dica sempre che alle donne piacciono le cicatrici, perché le considerano un segno di virilità, di possanza.
«C’è un posto,» chiese, «dove potrei lavarmi?»
Ella sussurrò: «Entra adagio. Da questa parte c’è la cantina,» e lo precedette in un angusto locale, per cui passavano i tubi dell’acqua calda, e dove c’erano sopra una cassa alcune bottiglie.
«Non verranno qui?» egli domandò.
«Nessuno qui ordina del vino,» ella rispose. «Non abbiamo il permesso. Questo è tutto quanto era rimasto, quando noi abbiamo rilevato l’esercizio. La direttrice lo beve per la sua salute.» Ogni volta che parlava del ristorante, diceva «noi», dandosi una lieve importanza. «Siediti,» disse, «andrò a prendere un po’ d’acqua. Devo spegnere la luce, altrimenti qualcuno potrebbe vederti.» Ma la luna illuminava la stanzetta sufficientemente perché egli potesse guardarsi attorno, e persino leggere le etichette sulle bottiglie: vini dell’Impero britannico, vini bianchi australiani e vini di Borgogna.
Era appena andata via e subito ritornò incominciando a scusarsi umilmente: «Qualcuno voleva il conto e la cuoca stava sorvegliando.» Portava una forma bianca da budino piena di acqua calda e tre fazzoletti. «È tutto quello che ho trovato» disse, strappandoli, «il bucato non è ancora tornato indietro» e aggiunse con voce ferma, nel tamponare la lunga ferita superficiale, come una linea tracciata con uno spillo lungo il collo: «potessi arrivare sino a loro...»
«Non parlare tanto,» egli disse e le porse la mano tagliata. Il sangue stava incominciando a raggrumarsi: ella lo fasciò in modo poco abile.
«È venuto ancora qualcuno a gironzare, a fare domande?»
«Quell’uomo con cui stava la donna.»
«Un poliziotto?»
«Non credo. Ha detto che si chiama Fil.»
«Si direbbe che sei tu che lo hai interrogato.»
«Tutti vi raccontano delle cose.»
«Non capisco,» disse il Ragazzo. «Cosa vogliono, se non sono della polizia?» Tese la mano non ferita e la pizzicò al braccio. «Non racconti loro niente?»
«Niente affatto,» ella disse e lo guardò con devozione nell’oscurità. «Hai avuto paura?»
«Non possono tirare fuori niente contro di me.»
«Volevo dire,» ella disse, «quando ti hanno fatto questo,» e gli toccò la mano.
«Paura» egli mentì, «certo che non ho avuto paura.»
«Perché lo hanno fatto?»
«Ti ho detto di non fare domande.» Egli si rizzò malfermo sulla gamba contusa. «Spazzolami la giacchetta. Non posso uscire conciato a questo modo. Devo avere un aspetto rispettabile.» Si appoggiò alle bottiglie di vino di Borgogna, mentre ella lo spazzolava col palmo della mano; il chiarore della luna delineava nell’ombra la stanzetta, la cassa, le bottiglie, le spalle ristrette, il viso liscio d’adolescente sfregiato.
Era conscio di non avere più voglia di tornare di nuovo fuori nella strada, tornare da Frank, tornare alle elucubrazioni senza fine con Cubitt e Dallow sulla prossima mossa. La vita era una serie di complicati esercizi tattici, altrettanto complicati quanto gli allineamenti a Waterloo, progettati su un letto di ottone fra le briciole di pasticcini al salame. I vestiti avevano perennemente bisogno di essere stirati, Cubitt e Dallow si bisticciavano, oppure Dallow se la faceva con la moglie di Frank, quella vecchia scarabattola di telefono sotto la scala continuava a squillare, e i cibi venivano sempre portati e gettati sul letto da Giuditta che fumava troppo e voleva una mancia – una mancia – una mancia. Come riuscire a progettare una strategia più grandiosa in simili circostanze? Provò una subitanea nostalgia per la stanzetta oscura con la cassa, il silenzio, la luna pallida sul vino di Borgogna... Oh, essere per un poco solo...
Ma non era solo. Rosa mise una mano sulla sua e gli domandò intimorita: «Non saranno lì fuori ad aspettarti?»
Egli si ritrasse e si vantò: «Non mi aspettano in nessun posto. Ne hanno prese più di quanto non ne abbiano date. Non volevano fare i conti con me, solamente con il povero Spicer.»
«Il povero Spicer?»
«Il povero Spicer è morto» e proprio mentre egli lo diceva, una risata squillante penetrò dal ristorante nell’andito, una risata di donna, che sapeva di birra, di buon umore e di nessun rimpianto.
«Quella è di nuovo lì,» disse il Ragazzo.
«È proprio lei.» Era quella risata che si ode in cento posti, insensibile, spensierata, a portare dell’allegria, quando i piroscafi si allontanano e tutti gli altri piangono, a commentare gli scherzi osceni negli spettacoli di varietà, accanto a letti di malati e nei compartimenti ferroviari affollati, quando vince il cavallo che non avrebbe dovuto vincere, la risata di una vera sportiva. «Mi fa paura,» sussurrò Rosa. «Non so che cosa voglia.»
Il Ragazzo l’attrasse a sé: tattica, tattica, non c’era mai tempo per la strategia: e nella grigia luce della notte poté vedere il viso della ragazza alzato in attesa di un bacio. Esitò, con un senso di ripulsione: ma la tattica... Avrebbe voluto batterla, farla urlare, ma invece la baciò in modo inesperto, senza incontrare le sue labbra. Distolse la bocca sinuosa e disse: «Ascolta.»
Ella sussurrò: «Non hai avuto molte ragazze, vero?»
«Certo che ne ho avute,» disse lui, «ma ascolta.»
«Tu sei il mio primo amico,» ella disse. «Sono felice.» Quando ebbe detto questo, egli ricominciò ad odiarla. Quella ragazza non sarebbe stata nemmeno qualcosa di cui potersi vantare: il suo primo amico, era lui: egli non l’aveva tolta a nessuno, non aveva rivali, nessun altro si sarebbe curato di lei, Cubitt e Dallow non avrebbero accordato nemmeno uno sguardo a quella capigliatura naturale di un colore non ben definito, alla sua semplicità, ai vestiti da poco prezzo, che egli poteva sentire al tatto. La odiò come aveva odiato Spicer e questo lo rese circospetto: le premette goffamente i seni tra le mani, con una triste imitazione opportunistica della passione degli altri, e pensò: Non sarebbe tanto male, se fosse più aggiustata, con un poco di rossetto e di henné, ma proprio quella ragazza lì – la gonnella più modesta, più giovane, meno esperta di tutta Brighton – doveva avere lui in suo potere.
«Oh Dio,» ella disse, «come sei buono con me, Rossetto. Ti voglio bene.»
«Non mi tradiresti – con lei?»
Una voce nel corridoio gridò «Rosa»: una porta sbatté.
«Devo andare,» ella disse. «Cosa vuoi dire – tradirti?»
«Quello che ho detto. Parlare. Dirle chi ha lasciato quel cartoncino. Che non è stato chi tu sai...»
«Non glielo dirò.» Un autobus passò in West Street: i fari penetrarono attraverso una finestrella a sbarre proprio sul visetto bianco e deciso della ragazza; sembrava una bimba che incroci le dita e faccia un suo giuramento segreto. Disse dolcemente: «Non mi curo di quello che tu abbia fatto,» come avrebbe potuto dichiararsi indifferente al vetro di una finestra infranto o ad una parola sporca scritta a gesso sulla porta di un’altra persona. Egli rimase senza parole: la percezione di quanto vi fosse di scaltro in quella sua semplicità, della lunga esperienza dei suoi sedici anni, della possibile profondità di quella fedeltà, lo commosse come avrebbe fatto una musica facile, mentre la luce dei fari passava da zigomo a zigomo e lungo la parete, e fuori l’ingranaggio strideva.
Disse: «Cosa vuoi dire? Io non ho fatto niente.»
«Non so,» ella rispose. «Non me ne curo.»
«Rosa,» una voce gridò, «Rosa.»
«È lei,» ella disse, «sono sicura che è lei. Che continua a fare domande. Dolce come burro. Che sa mai di noi?» Si fece più vicina. Disse: «Anch’io ho fatto una volta qualcosa. Un peccato mortale. Avevo dodici anni. Ma quella – quella non sa cosa sia un peccato mortale.»
«Rosa, dove sei, Rosa?»
L’ombra del suo viso di sedicenne si spostò sulla parete nella luce della luna.
«Quello che è giusto e quello che non è giusto. Ecco di che cosa lei parla. L’ho sentita al suo tavolo. Quello che è giusto e quello che non è giusto. Come se sapesse.» Sussurrò in tono di disprezzo: «Oh, quella non brucerà, non potrebbe bruciare, neanche se volesse.» Si sarebbe detto che discutesse di una girandola umida. «Molly Carthew sì che ha bruciato. Era bella. Si è ammazzata per disperazione. Questo è un peccato mortale, imperdonabile. A meno che – cos’hai detto a proposito della staffa?»
Egli lo ripeté malvolentieri: «La staffa e il suolo. Ma non funziona.»
«Quello che hai fatto,» ella insistette, «lo hai confessato?»
Rispose evasivamente, una creatura oscura e ostinata che appoggiava la mano bendata sul vino bianco australiano. «Da anni non sono mai stato più a messa.»
«Non me ne curo,» ella ripeté. «Preferirei bruciare con te piuttosto che essere come lei.» La sua voce immatura incespicò nella parola: «È un’ignorante.»
«Rosa.» La porta del loro nascondiglio si aprì. Una direttrice in divisa color verde salvia, gli occhiali appesi a un bottone sul petto, fece penetrare con sé la luce, le voci, la radio, la risata, disperse l’atmosfera di teologia che si era creata fra loro due. «Bambina,» disse, «che stai facendo qui? E chi è quest’altra ragazza?» aggiunse, gettando uno sguardo alla figurina sottile nell’ombra, ma quando egli si avanzò nella luce, si corresse: «questo ragazzo?» L’occhio corse lungo le bottiglie, contandole. «Non puoi far venire qui gli innamorati.»
«Me ne sto andando,» disse il Ragazzo.
Ella lo guardò sospettosa e con antipatia: le ragnatele non erano tutte scomparse. «Se tu non fossi così giovane,» disse, «chiamerei la polizia.»
Egli rispose con il solo lampo di buon umore che avesse mai dimostrato: «Avrei un alibi.»
«E quanto a te,» la direttrice si girò verso Rosa, «ne parleremo più tardi.» Rimase a guardare il Ragazzo uscire dalla stanza e disse con disgusto: «Siete tutti e due troppo giovani per questo genere di cose.»
Troppo giovani – ecco la difficoltà, che Spicer non aveva risolto, prima di morire. Troppo giovani per tapparle la bocca mediante il matrimonio, troppo giovani per impedire che la polizia la mettesse sul banco dei testimoni, se si fosse mai giunti a questo. Per testimoniare – certo, per dire che Hale non aveva mai lasciato il cartoncino, che era Spicer ad averlo lasciato, che poi lui stesso era venuto e lo aveva cercato a tastoni sotto la tovaglia. Ella ricordava persino quel particolare. La morte di Spicer avrebbe aumentato i sospetti. Egli era costretto a tapparle la bocca in un modo o nell’altro: doveva trovare pace.
Salì lentamente le scale che conducevano alla sua camera da letto-salotto, da Frank. Aveva la sensazione di venir meno; il telefono squillava squillava, e mentre egli si sentiva venir meno, incominciò a realizzare tutte le cose che non aveva avuto ancora il tempo di conoscere. Cubitt uscì da una stanza a pianterreno, la guancia rigonfia per un boccone di mela, e un temperino rotto in mano.
«No,» disse, «Spicer non è qui, non è ancora tornato.»
Il Ragazzo interrogò dal primo pianerottolo: «Chi domanda di Spicer?»
«Ha tolto la comunicazione.»
«Chi era?»
«Non so. Qualche sua ragazza. Se la fa con una ragazza che incontra alla Regina di Cuori. Dove è Spicer, Rossetto?»
«È morto. Gli uomini di Colleoni lo hanno ammazzato.»
«Dio,» disse Cubitt. Richiuse il temperino e sputò la mela. «Lo dicevo che avremmo dovuto lasciare stare Brewer. Che cosa faremo?»
«Vieni quassù,» disse il Ragazzo. «Dov’è Dallow?»
«È fuori.»
Il Ragazzo lo precedette nella camera-salotto e accese l’unica lampadina. Ripensò alla camera di Colleoni al Cosmopolitan. Ma si doveva pure incominciare in qualche posto. Disse: «Hai di nuovo mangiato sul mio letto.»
«Non sono stato io, Rossetto, è stato Dallow. Perbacco, Rossetto, hanno sfregiato te.»
Di nuovo il Ragazzo mentì. «Gliene ho date altrettante.» Ma mentire era una debolezza, ed egli non era abituato a mentire. Disse: «Non dobbiamo prendercela per Spicer, era un vigliacco. È un bene che sia morto. Quella ragazza da Snow l’aveva visto lasciare il cartoncino. Ebbene, quando sarà seppellito, nessuno potrà identificarlo. Potremmo magari farlo cremare.»
«Non credi che quelli della polizia...»
«Non ho paura della polizia. Sono altri che ci mettono il naso.»
«Non possono cancellare quello che hanno detto i dottori.»
«Tu sai che noi l’abbiamo ammazzato e secondo i dottori è morto di morte naturale. Trova tu una soluzione, io non ci riesco.» Si sedette sul letto e spazzò via le briciole di Dallow. «Siamo più sicuri senza Spicer.»
«Può darsi che tu veda meglio le cose, Rossetto, ma perché mai Colleoni...»
«Suppongo che avesse paura, che noi volessimo darle a Tate all’ippodromo. Bisogna far venire il signor Prewitt, deve darmi degli schiarimenti. È l’unico avvocato di cui ci possiamo fidare qui attorno – se pure ci possiamo fidare di lui.»
«Che complicazione c’è, Rossetto? Nulla di grave?»
Il Ragazzo appoggiò il capo all’indietro contro la colonnina d’ottone del letto.
«Può darsi che dopo tutto mi debba sposare.»
Di botto Cubitt sbottò a ridere, spalancando la bocca larga, dai denti cariati. Dietro la sua testa la persiana era abbassata per metà, sottraendo alla vista il cielo della notte e lasciando visibili invece i camini scuri e fallici, che esalavano un pallido fumo nell’aria rischiarata dalla luna. Il Ragazzo rimase silenzioso, e guardava Cubitt, prestando orecchio alla sua risata quasi fosse espressione del disprezzo del mondo.
Allorché Cubitt s’interruppe, egli disse: «Vai a telefonare al signor Prewitt. Che venga subito qui,» fissando gli occhi, al di là di Cubitt, sulla nappa che all’estremità del cordone della persiana picchiettava dolcemente sull’invetriata, sui camini e sulla notte di prima estate.
«Non vorrà venire qui.»
«Dovrà venire. Non posso uscire così conciato.» Si toccò i segni sul collo, dove i rasoi lo avevano sfregiato. «Voglio combinare tutto.»
«Briccone,» disse Cubitt, «sei giovane per il gioco.» Il gioco: e la mente del Ragazzo ripensò con curiosità mista a disprezzo al visetto modesto sempre pronto; alle bottiglie sulla cassa, che riflettevano il chiarore della luna, e alla parola «bruciare, bruciare» ripetuta. Che intendeva dire la gente con quella espressione «il gioco»? In teoria egli sapeva tutto, praticamente nulla. Lo aveva maturato soltanto l’esperienza dei desideri di altri, degli ignoti che li scrivevano sulle pareti nei gabinetti pubblici. Conosceva le mosse, non aveva mai fatto il gioco. «Forse,» disse, «non sarà necessario di giungere a questo. Ma chiamami il signor Prewitt. È un uomo esperto.»
Il signor Prewitt era un uomo esperto. Bastava vederlo per esserne certi. Era un tipo che non ignorava nessun cavillo, nessun accomodamento, nessuna clausola contraddittoria, nessuna parola ambigua. Su quel viso di mezza età giallo e sbarbato le decisioni legali avevano lasciato un solco profondo. Portava una borsa di cuoio marrone e indossava dei calzoni rigati, che sembravano un poco troppo nuovi per il resto della sua figura. Entrò nella stanza con una falsa cordialità, dei modi da avvocato difensore: aveva delle lunghe scarpe appuntite e lucide, che imprigionavano la luce. Tutto in lui, dalla vivacità alla giacchetta da mattina, era nuovo di zecca, all’infuori di lui stesso, divenuto vecchio in molti tribunali, con molte vittorie più nocive di disfatte. Aveva preso l’abitudine di non stare a sentire: gliel’avevano insegnata innumerevoli rabbuffi partiti dal banco dei giudici. Era deprecatorio, discreto, simpatizzante e duro come cuoio.
Il Ragazzo lo salutò con un cenno del capo senza alzarsi, rimanendo seduto sul letto.
«Buona sera, signor Prewitt» e il signor Prewitt ebbe un sorriso pieno di simpatia, mise la busta per terra e si sedette sull’unica seggiola senza imbottitura accanto al tavolino da toeletta. «È una magnifica serata,» disse. «Oh poverino, poverino, hai fatto la guerra.» La simpatia non era autentica: la si sarebbe potuta staccare dagli occhi, come il cartellino di un’asta da uno strumento di silice antico.
«Non è per questo che ho bisogno di lei,» disse il Ragazzo, «non deve avere paura. Non ho bisogno che di un’informazione.»
«Nessuna complicazione, spero,» interrogò il signor Prewitt.
«Voglio evitarla. Se volessi sposarmi, che devo fare?»
«Aspettare alcuni anni,» rispose pronto il signor Prewitt, come se stesse facendo una dichiarazione a un gioco di carte.
«La settimana ventura,» disse il Ragazzo.
«Il guaio è,» osservò preoccupato il signor Prewitt, «che sei minorenne.»
«Ecco perché ho fatto venire lei.»
«Ci sono dei casi,» continuò il signor Prewitt, «di gente che denuncia un’età sbagliata. Non è che te lo voglia suggerire, bada. Che età ha la ragazza?»
«Sedici anni.»
«Ne sei ben sicuro? Perché se avesse meno di sedici anni, potreste essere stati sposati nella cattedrale di Canterbury dallo stesso Arcivescovo, e non sarebbe una cosa legale.»
«Tutto questo va bene,» disse il Ragazzo. «Ma se diamo l’età sbagliata, saremo sposati davvero – legalmente?»
«Solidamente.»
«La polizia non potrebbe chiedere alla ragazza...»
«Di testimoniare contro di te? Non senza il suo consenso. Naturalmente avresti commesso un reato, potresti essere mandato in prigione. E poi – ci sono altre difficoltà.» Il signor Prewitt si appoggiò all’indietro contro il lavabo, sfregando la brocca con la sua capigliatura grigia e ordinata di leguleio, e tenne d’occhio il Ragazzo.
«Lei sa che pago,» disse il Ragazzo.
«Anzitutto,» disse il signor Prewitt, «devi tenere a mente che la cosa richiede del tempo.»
«Non deve richiederne molto.»
«Vuoi sposarti in chiesa?»
«No di certo,» rispose il Ragazzo. «Non dovrà essere un vero matrimonio.»
«Abbastanza vero.»
«Non vero, come quando il prete lo celebra.»
«I tuoi sentimenti religiosi ti fanno onore,» disse il signor Prewitt.
«Allora, a quanto capisco, dovrà essere un matrimonio civile. Voi potreste ottenere una licenza – quindici giorni di residenza – vi mettete nelle condizioni volute – e il preavviso di un giorno. Per quanto concerne tutto questo, potreste sposarvi anche dopodomani, nel vostro stesso rione. Ma poi viene un’altra difficoltà. Non è facile il matrimonio di un minore.»
«Continui. Pagherò.»
«Non servirebbe a nulla dire che hai ventun anni. Nessuno ti crederebbe. Ma se tu dicessi di avere diciott’anni, potresti sposarti purché tu avessi il consenso dei tuoi genitori o del tuo tutore. I tuoi genitori sono viventi?»
«No.»
«Chi è il tuo tutore?»
«Non capisco cosa vuole dire.»
Il signor Prewitt disse in tono pensieroso: «Potremmo tirare fuori un tutore, per quanto sia abbastanza rischioso. Sarebbe meglio se tu avessi perduto il contatto, se egli fosse andato nel Sud Africa e ti avesse lasciato. Con queste premesse potremmo tirare fuori una bella cosetta,» aggiunse soave il signor Prewitt. «Gettato nel mondo ancora bambino, ti sei coraggiosamente fatto la tua strada.» I suoi occhi si spostarono da un pomo all’altro del letto. «Dovremmo affidarci al discernimento del cancelliere.»
«Non credevo che ci fossero tutte queste difficoltà,» disse il Ragazzo. «Forse potrei aggiustarmi in qualche altro modo.»
«Con un po’ di tempo,» il signor Prewitt rispose «si può aggiustare tutto.» Mise in mostra i denti rivestiti di tartaro in un sorriso paterno. «Dammi l’ordine, ragazzo mio, e farò in modo che vi sposiate. Fidati di me.»
Si alzò in piedi, con i pantaloni rigati che sembravano quelli di un invitato a un matrimonio, presi in affitto per la giornata: e quando traversò la stanza, con il suo sorriso giallo, avrebbe potuto essere sulle mosse per abbracciare la sposa. «Se ora mi darai una ghinea per il consulto, ci sono uno o due acquisti da fare – per la sposa...»
«È sposato lei?» chiese il Ragazzo con un’improvvisa curiosità. Non gli era mai venuto in mente che Prewitt... Fissò con occhio meravigliato il sorriso, i denti gialli, il viso rugoso, sciupato e infido, come se gli fosse possibile di apprendere lì...
«Festeggerò le nozze d’argento l’anno venturo,» disse il signor Prewitt. Venticinque anni del “gioco”. Cubitt fece capolino e disse: «Vado a fare una passeggiatina.» Sogghignò. «Come procede il matrimonio?»
«Procede, procede,» disse il signor Prewitt, carezzando la sua borsa quasi fosse la guancia paffuta di un bimbo promettente. «Quanto prima vedremo il nostro giovane amico coniugato.»
Soltanto finché tutto andrà per aria, pensò il Ragazzo, sdraiandosi sul cuscino grigio, e appoggiando una scarpa sul copripiedi viola: non ci voleva un matrimonio vero, ma soltanto qualcosa che le tappasse la bocca per un certo tempo. «Ciao,» disse Cubitt, ridendo scioccamente all’estremità del letto. Rosa, il suo visetto affezionato e popolano, la dolce sensazione della pelle umana, l’emozione nella camera oscura accanto alla cassa di vino di Borgogna: sdraiato sul letto, il Ragazzo avrebbe voluto protestare «non ancora» e «non con lei.» Se la cosa doveva proprio accadere una volta o l’altra, se egli doveva seguire l’esempio di tutti nel gioco bestiale, che ciò accadesse quando era vecchio, non avesse più altro da guadagnare e con una creatura che gli altri potessero invidiargli. Non una creatura immatura, semplice, altrettanto ignorante quanto lui.
«Non hai che da darmi l’ordine,» ripeté il signor Prewitt. «Decideremo la cosa insieme.»
Cubitt se ne era andato. Il Ragazzo disse: «Troverà una sterlina sul lavabo.»
«Non la vedo,» disse ansioso il signor Prewitt, spostando uno spazzolino da denti.
«Nel portasapone, sotto il coperchio.»
Dallow mise il capo dentro la camera. «‘na sera,» disse al signor Prewitt; e al Ragazzo: «Che è successo a Spicer?»
«È stato Colleoni. L’hanno fatto fuori all’ippodromo,» rispose il Ragazzo. «Per poco non facevano fuori anche me» e sollevò la mano bendata al collo tagliato.
«Ma Spicer è in camera sua, l’ho sentito.»
«Sentito?» disse il Ragazzo. «Te lo immagini.» Per la seconda volta in quella giornata ebbe paura: una lampadina debole illuminava l’andito e la scala: le pareti erano ricoperte di strati disuguali di una vernice color noce. Sentì la pelle del viso contrarsi, come se qualche cosa di repulsivo lo avesse toccato. Avrebbe voluto chiedere se era possibile fare di più che sentire Spicer, se lo si poteva vedere o toccare. Si rizzò in piedi: qualunque cosa fosse, doveva affrontarla: senza dire altro, passò dinanzi a Dallow. La porta della camera di Spicer ondulava avanti e indietro per un riscontro d’aria. Egli non riuscì a vedere nell’interno. Era una camera piccola: avevano avuto tutti delle camere piccole eccetto Kite, ed egli aveva ereditato proprio quella. Ecco perché la sua stanza era comune a tutti gli altri. In quella di Spicer non vi sarebbe stato posto che per lui solo – e Spicer. Mentre la porta ondulava, egli poté udire degli scricchiolii di oggetti di cuoio spostati. Le parole Dona nobis pacem gli tornarono alla mente: per la seconda volta provò una vaga nostalgia, come per qualcosa che avesse dimenticato o perduto o rifiutato. Percorse l’andito ed entrò nella camera di Spicer. La sua prima sensazione, nel vedere Spicer curvo, intento a stringere le cinghie della sua valigia, fu di sollievo, che egli fosse senza dubbio alcuno lo Spicer vivente, che poteva essere toccato e sfregiato e comandato. Una lunga striscia di sparadrappo fasciava la guancia di Spicer: il Ragazzo la osservò dalla soglia con una crudeltà sempre più forte: avrebbe voluto strapparla via e vedere la pelle aprirsi. Spicer sollevò gli occhi, mise a terra la valigia, si spostò inquieto verso la parete. Disse: «Credevo – avevo paura – che Colleoni avesse fatto fuori anche te.» La sua paura tradiva com’egli sapesse perfettamente tutto. Il Ragazzo non disse nulla, fissandolo dalla porta. Come se si scusasse di essere ancora vivo, egli spiegò «Sono scappato via...» Le sue parole si afflosciavano come una linea di alghe, lungo il filo tagliente del silenzio, dell’indifferenza e della determinazione del Ragazzo.
Dal corridoio giunse la voce del signor Prewitt: «Nel portasapone. Ha detto che era nel portasapone» e il rumore della porcellana smossa.