Parte settima

Capitolo primo

A Rosa non sembrò affatto strano di risvegliarsi e trovarsi sola – era una forestiera nel paese del peccato mortale e riteneva che tutto fosse normale. Suppose che egli se ne fosse andato per i suoi affari. Nessuna sveglia la stordì per farla alzare, ma la ridestò la luce del mattino, che penetrava a fiotti attraverso i vetri senza tendine. Una volta udì dei passi nel corridoio e un’altra una voce chiamò «Giuditta!» in tono di comando. Rimase sdraiata, chiedendosi che cosa doveva fare una moglie – o piuttosto una amante.

Ma non rimase a lungo a giacere – questa era la cosa spaventosa: l’inerzia insolita. Non era una vera esistenza – questo non aver nulla da fare. E se credessero che ella sapesse – e del fornello da accendere, della tavola da preparare, dei resti da togliere di mezzo? Un orologio suonò le sette: era un orologio non familiare (tutta la sua vita finora ella aveva sempre sentito lo stesso) e i rintocchi sembravano cadere nell’aria di quel principio di estate con un suono più lento e più dolce di quanto ella avesse mai udito prima. Si sentì felice e impaurita: le sette del mattino era terribilmente tardi. Si buttò fuori dal letto e stava per recitare in fretta il Pater Noster e l’Ave Maria, nel vestirsi, quando si ricordò nuovamente... A che serviva ora pregare? Aveva finito con tutto quello, aveva scelto il suo lato: se lui doveva essere dannato, che fosse dannata anche lei, allora.

Nella brocca non c’era che un dito di acqua ricoperta da una crosta grigia sporca e quando ella alzò il coperchio del portasapone, vi rinvenne tre biglietti da una sterlina avvolti attorno a due mezze corone. Rimise a posto il coperchio: ecco un’altra usanza a cui doveva abituarsi. Gettò uno sguardo tutt’attorno nella camera, aprì un armadio e vi trovò una scatola di biscotti e un paio di stivali; schiacciò col piede alcune briciole. Il disco di grammofono attirò la sua attenzione dalla seggiola dove ella lo aveva deposto: per maggiore sicurezza lo ripose nell’armadio. Poi aprì la porta: nessun suono o segno di vita: guardò al disopra della ringhiera, e il legno nuovo scricchiolò sotto la sua pressione. In qualche posto lì abbasso ci doveva essere la cucina, la stanza di soggiorno, i luoghi dove ella avrebbe dovuto fare il suo lavoro. Con circospezione discese – le sette – chissà che visi furibondi – nell’ingresso: una pallottola di carta le rimbalzò fra i piedi. La spianò e lesse un messaggio scritto a matita: «Chiudetevi a chiave. Godetevela.» Non lo comprese: avrebbe potuto essere in linguaggio cifrato, che sarebbe stato lo stesso. Congetturò che avesse qualche connessione con questo mondo sconosciuto in cui si commetteva un peccato mortale sopra un letto e la gente moriva improvvisamente e degli strani uomini prendevano a calci la vostra porta e vi maledicevano nella notte.

Trovò la scala del seminterrato: era buia là dove finiva sotto l’ingresso, ma ella non sapeva dove trovare un interruttore. Una volta quasi incespicò e si afferrò alla parete con il cuore che batteva, ricordando la deposizione all’inchiesta su come Spicer era caduto. La sua morte dava alla casa una certa importanza: ella non era mai stata sul luogo di una morte recente. In fondo alla scala aprì la prima porta che si trovò davanti, con precauzione, aspettandosi delle parolacce: era proprio la cucina, ma vuota. E neppure era come le due cucine che conosceva, quella di Snow, pulita, verniciata, piena di gente indaffarata, e quella di casa sua, la stanza in cui si stava seduti, si faceva cucina e si mangiava, si era di cattivo umore e ci si riscaldava nelle notti pungenti o si sonnecchiava su una seggiola. Questa sembrava la cucina di una casa in vendita: il fornello era pieno di carbone freddo, sul davanzale della finestra v’erano due scatolette di sardine, vuote: sotto la tavola c’era un piattino vuoto per un gatto che non si vedeva: una credenza aperta era piena di barattoli vuoti.

Si mise a smuovere il carbone spento: a toccarlo il fornello era freddo: da ore, da giorni il fuoco non doveva essere stato acceso. La fece trasalire il pensiero di essere stata abbandonata: forse era proprio quello che succedeva in questo mondo, la fuga improvvisa lasciando dietro a sé ogni cosa, le bottiglie vuote e la vostra ragazza e un messaggio cifrato su un pezzetto di carta. Quando la porta si aprì, si aspettò di vedere un poliziotto.

Era Dallow in pigiama. Si affacciò, chiese: «Dov’è Giuditta?» poi parve accorgersi di lei. Le disse: «Ti sei alzata presto.»

«Presto?» Non riusciva a capire che cosa egli volesse dire.

«Credevo che fosse qui Giuditta a pasticciare. Mi riconosci? Sono Dallow.»

«Pensavo che forse avrei fatto bene ad accendere il fornello.»

«E perché?»

«Per la colazione.»

Egli disse: «Se quella stupida se ne è andata e ha dimenticato...» Si diresse verso il tavolo di cucina e aperse un cassetto. «Perbacco,» disse, «che ti prende? Non hai bisogno del fornello. C’è una quantità di roba qui.» Dentro il cassetto c’erano dei mucchi di scatolette: sardine, aringhe... ella obbiettò: «Ma il tè.»

Egli le gettò uno sguardo strano. «Si direbbe che stai cercando lavoro. Nessuno qui prende il tè. Perché affaticarsi? C’è della birra nell’armadio, e il Rossetto beve il latte dalla bottiglia.» Ritornò verso la porta. «Serviti, bambina, se hai fame. Il Rossetto vuole qualcosa?»

«È andato fuori.»

«Per amor di Dio, che cosa vi ha preso tutti in questa casa?» Si fermò sulla soglia e la guardò di nuovo, mentre ella stava ritta accanto al fornello spento con le sue mani inutili. Disse: «Vuoi proprio fare qualcosa?»

«No,» ella rispose in tono dubbioso.

Egli parve imbarazzato: «Non vorrei impedirti di fare,» le disse. «Sei la ragazza del Rossetto. Tira avanti e accendi quel fornello, se vuoi. Chiuderò la bocca a Giuditta, se urlerà, ma Dio sa dove troverai il carbone. Sai, quel fornello non è stato acceso da marzo.»

«Non voglio prendere il posto di nessuno,» disse Rosa. «Sono venuta giù... credevo... di dovere accenderlo.»

«Non hai da muovere un dito,» disse Dallow. «Ascolta quello che ti dico, questo è il regno della libertà.» Disse: «Non hai visto una donna dai capelli rossi pasticciare qui giù?»

«Non ho visto anima viva.»

«Bene,» disse Dallow, «arrivederci.» Di nuovo ella si trovò sola nella cucina fredda. Non hai da muovere un dito... il regno della libertà... si appoggiò alla parete imbiancata a calce e vide un vecchio acchiappamosche che penzolava al disopra del tavolo da cucina: qualcuno molto tempo prima aveva sistemato una trappola per i topi accanto a una buca, ma l’esca era stata rubata e la trappola era scattata a vuoto. Mentiva la gente quando diceva che andare a letto con un uomo non cambiava nulla: dalla sofferenza si emergeva a questo – la libertà, l’indipendenza, un insieme di cose strane. Un senso soffocato di esilaramento si accese nel suo petto, una specie di orgoglio. Aprì arditamente la porta della cucina ed ecco, in cima alla scala del seminterrato, ecco Dallow e la donna dai capelli rossi, la donna che egli aveva chiamato Giuditta. Erano lì con le labbra incollate l’uno all’altro in un atteggiamento di passione irosa; avrebbero potuto essere intenti ad infliggersi a vicenda la più grande offesa, di cui fossero personalmente capaci. La donna indossava una vestaglia viola pallido con un mazzetto polveroso di papaveri di carta, resti di un novembre lontano. Mentre lottavano bocca contro bocca, l’orologio dai toni modulati batté la mezza. Rosa li guardava dal fondo della scala. In una notte aveva vissuto degli anni. Ora sapeva tutto al riguardo.

La donna la vide e staccò la bocca da quella di Dallow. «Come,» disse «chi c’è qui?»

«È la ragazza del Rossetto,» spiegò Dallow.

«Ti sei alzata presto. Hai fame?»

«No. Solamente credevo – che forse avrei dovuto accendere il fuoco.»

«Non lo adoperiamo molto quel fornello,» disse la donna. «La vita è troppo breve.»

Aveva delle pustolette attorno alla bocca e l’aria di essere molto socievole. Si lisciò la capigliatura color carota e, discesa la scala per avvicinarsi a Rosa, le applicò sulla guancia una bocca umida e prensile come un anemone di mare. Emanava un profumo sottile, stantio, di papavero della California. «Ebbene, mia cara,» ella disse, «eccoti una di noi,» e sembrava con gesto generoso offrirle l’uomo svestito, la scala oscura e nuda, la cucina deserta. Sussurrò a voce così bassa che Dallow non potesse sentire: «Non lo dirai a nessuno che ci hai visti, vero, cara? Frank ci si arrabbierebbe e non ha nessuna importanza, proprio nessuna.»

Rosa scosse il capo senza parole: questo paese straniero l’assimilava troppo in fretta – avevi appena passato la dogana, e già ti firmavano le carte di naturalizzazione, eri iscritto alla leva...

«Che tesoro,» disse la donna, «ogni amico del Rossetto è un amico nostro. Fra non molto farai la conoscenza dei ragazzi.»

«Ne dubito,» disse Dallow dall’alto della scala.

«Vuoi dire...»

«Dobbiamo parlare seriamente al Rossetto.»

«C’è stato qui Cubitt la scorsa notte?» interrogò la donna.

«Non so,» disse Rosa. «Non so chi fosse. Qualcuno ha suonato il campanello, ha bestemmiato un bel po’ e ha preso a calci la porta.»

«Era Cubitt,» spiegò gentile la donna.

«Dobbiamo parlare seriamente al Rossetto. Non è una cosa sicura,» disse Dallow.

«Bene, cara, è meglio che torni da Frank.» Si fermò su un gradino proprio sopra quello di Rosa. «Se mai hai bisogno di far pulire un abito, cara, non potresti fare meglio che darlo a Frank. Per quanto non toccherebbe a me dirlo. Non c’è nessuno che come Frank sappia togliere le macchie di grasso. E ben di rado si fa pagare dagli inquilini.» Si chinò e pose un dito macchiato di rosso sulla spalla di Rosa. «Questo con una ripulita potrebbe andare.»

«Ma non ho null’altro da mettermi, all’infuori di questo.»

«Oh, cara, in quel caso.» Si curvò e le sussurrò confidenzialmente: «Fai in modo che il tuo amore te ne compri un altro,» poi raccolse intorno a sé la vestaglia sbiadita e salì mollemente la scala. Rosa poté intravvedere una gamba di un biancore da morto, come di un essere vissuto sotto terra, ricoperta da una peluria rossiccia, e una pantofola lurida che spenzolava da un calcagno scoperto. Le parve che tutti fossero molto gentili: c’era del cameratismo fra i colpevoli di peccato mortale, a quanto sembrava.

Mentre risaliva dalla cantina, l’orgoglio si gonfiò nel suo petto. Era accettata, aveva fatto l’esperienza al pari di qualsiasi altra donna. Di ritorno in camera si sedette sul letto e udì l’orologio che suonava le otto: non aveva fame; aveva l’impressione di una immensa libertà – nessun orario da osservare, nessun lavoro da fare. Si provava una leggera sofferenza e poi si emergeva dall’altra parte in questa libertà meravigliosa. Ora c’era soltanto un’altra cosa che desiderava – far vedere agli altri la sua felicità. Ora avrebbe potuto entrare da Snow al pari di qualsiasi altro cliente, battere sul tavolino con un cucchiaio e chiedere di essere servita. Avrebbe potuto vantarsi... non era che una fantasia, ma a forza di rimanere lì seduta sul letto a lasciare passare il tempo, essa si trasformò in un’idea, qualcosa di realmente attuabile. Fra poco meno di mezz’ora avrebbero aperto per le prime colazioni. Se avesse avuto il denaro... rimuginò, tenendo gli occhi sul portasapone. Pensò: dopo tutto siamo sposati – in certo modo: e lui non mi ha dato altro che quel disco; non mi rifiuterebbe una mezza corona. Si alzò in piedi e stette in ascolto, poi si avvicinò senza far rumore al lavabo. Con le dita sul coperchio del portasapone rimase in attesa – qualcuno stava passando dal corridoio: non era Giuditta e non era Dallow – forse era l’uomo che chiamavano Frank. I passi si allontanarono: ella sollevò il coperchio e tolse dal rotolo una mezza corona. Aveva rubato dei biscotti, non aveva mai rubato del denaro prima di adesso. Si aspettava di provare della vergogna, ma non la provò – solo di nuovo quello strano impeto di orgoglio. Era come un bimbo in una scuola nuova, che si accorge di poter imparare subito, per istinto, i giochi strani e le parole d’ordine nel campo di gioco.

Nel mondo esterno era domenica – ella lo aveva dimenticato: glielo ricordarono le campane delle chiese squillando sopra Brighton. C’era sempre un senso di libertà nel sole mattinale; libertà dalle preghiere silenziose all’altare, dalle terribili domande che vi vengono fatte alle grate del santuario. Ora ella si era messa per sempre dall’altra parte. La mezza corona era come una medaglia per servizi resi. Persone che tornavano dalla messa delle sette e mezza, persone che andavano alla funzione delle otto e mezza – ella le guardava nei loro abiti neri come fossero spie. Non le invidiava e non le disprezzava; esse erano giunte alla salvazione e lei e il Rossetto alla dannazione.

Da Snow le saracinesche erano appena state rialzate: una ragazza chiamata Maisie, che lei conosceva, stava preparando alcuni tavolini – la sola ragazza a cui tenesse, un ragazza appena entrata in servizio come lei e di poco più vecchia. La osservò dal marciapiede – lei e Dori, la prima cameriera con la sua solita aria di sarcasmo, quella che non faceva null’altro che sfiorare con lo strofinaccio dove era già passata Maisie. Rosa impugnò più stretta la mezza corona: via, non aveva che da entrare, sedersi, dire a Dori di portarle una tazza di caffè e un panino, darle un paio di monetine per mancia – ora poteva guardarle tutte quante dall’alto in basso. Era sposata, era una donna. Era felice. Che faccia avrebbero fatto nel vederla entrare dalla porta? Eppure non entrò. Un pensiero la infastidiva. E se Dori avesse pianto? Che cosa avrebbe provato lei, nell’ostentare la sua libertà? In quel momento attraverso il vetro incontrò gli occhi di Maisie che in piedi, con uno strofinaccio in mano, ricambiava il suo sguardo, una ragazzina magra, come un riflesso di lei stessa in uno specchio. E ora lei era lì dove era stato il Rossetto – fuori, a guardare dentro. Ecco quello che i preti volevano dire con l’espressione «una carne sola.» E proprio come pochi giorni prima ella aveva fatto cenno, Maisie fece cenno – un volgere gli occhi di lato, un cenno impercettibile verso la porta di servizio. Non c’era proprio nessuna ragione per cui ella non dovesse entrare dal davanti, ma obbedì a Maisie. Era come fare qualcosa che si è già fatto. La porta si aprì e Maisie comparve. «Rosa, che guaio c’è?» Avrebbe dovuto avere dei guai da raccontare: si sentì colpevole per non avere che felicità. «Ho pensato di venire a trovarti» disse. «Mi sono sposata.»

«Sposata?»

«Press’a poco.»

«Oh Rosa, che cosa si prova?»

«È magnifico.»

«Hai preso casa?»

«Sì.»

«Che fai tutto il giorno?»

«Proprio niente. Non faccio che riposarmi.»

Il viso infantile che le stava di fronte assunse l’espressione rugosa del dolore.

«Dio, Rosa, come sei fortunata. Dove lo hai incontrato?»

«Qui.»

Una mano più scarna della sua la prese per il polso: «Oh, Rosa, non ha un amico?»

Disse disinvolta: «Non ha amici.»

«Maisie,» chiamò una voce acuta dal caffè. «Maisie.» Le lagrime stavano per spuntare dagli occhi: dagli occhi di Maisie, non di Rosa: ma ella non aveva avuto l’intento di far soffrire la sua amica. Un impulso di compassione la spinse a dire: «Non è tutto così bello, Maisie.» Cercò di sminuire l’evidenza della sua felicità. «Qualche volta è cattivo con me. Oh, te l’assicuro,» insistette, «non sono tutte rose.»

Ma «non tutte rose,» ella pensò dirigendosi verso il viale, «se non sono tutte rose, che cos’è?» E macchinalmente, nel tornare da Frank senza avere fatto colazione, incominciò a pensare: «Che ho fatto per meritare di essere così felice?» Aveva peccato: ecco la risposta: aveva il godimento in questo mondo, non nel futuro, e non se ne preoccupava. In lei era rimasta impressa l’impronta di lui, come l’impronta della sua voce era rimasta impressa nella vulcanite.

A pochi passi dalla casa di Frank, da una bottega dove vendevano i giornali della domenica, Dallow la chiamò: «Eh, bambina.» Ella si fermò. «Hai una visita.»

«Chi?»

«Tua madre.»

Fu pervasa da un senso di gratitudine e di pietà: sua madre non era stata altrettanto felice. Disse: «Datemi un Notizie dal mondo. Alla mamma piacciono i giornali della domenica.» Nel retrobottega qualcuno stava suonando un grammofono. Ella chiese al padrone della bottega: «Qualche volta mi lascerebbe venire qui a suonare un disco che ho io?»

«Ma certamente ti lascerà,» disse Dallow.

Attraversò la strada e suonò alla porta di Frank. Giuditta venne ad aprire: era ancora in vestaglia, ma ora sotto portava il busto. «Hai una visita,» disse.

«Lo so.» Rosa corse di sopra: era il maggior trionfo che ci si potesse aspettare – accogliere la mamma per la prima volta nella propria casa – chiederle di sedersi sulla nostra seggiola, guardarsi a vicenda con un’esperienza eguale. Non v’era nulla ormai, Rosa lo sentiva, che sua madre sapesse sugli uomini e che non sapesse lei pure: ecco la ricompensa per il doloroso rito del letto. Spalancò felice la porta: ed ecco lì la donna.

«Chi è Lei...» incominciò e, poi disse: «Mi avevano detto che c’era mia madre.»

«Dovevo ben dir loro qualcosa,» spiegò gentilmente la donna. Poi disse: «Entra, cara, e richiudi la porta dietro a te» come se quella fosse la sua stanza.

«Chiamerò il Rossetto.»

«Mi piacerebbe di scambiare due parole con il tuo Rossetto.» Non si riusciva a spuntarla con lei; stava lì come un muro all’estremità di un viale, tutto scarabocchiato dagli osceni messaggi in gesso di un nemico. Parve a Rosa che da lei si potesse trarre la spiegazione delle durezze improvvise, delle unghie piantate dentro il suo polso.

Disse: «Non vedrà il Rossetto. Non voglio che nessuno gli dia noia.»

«Ne avrà presto un bel po’ di noie.»

«Ma chi è Lei?» Rosa la implorò. «Perché si immischia nelle nostre cose? Non è mica la polizia.»

«Sono una donna qualunque. Voglio la Giustizia,» osservò briosamente la donna, come se stesse ordinando una libbra di tè. Il suo faccione prosperoso e carnoso si rifece tutto un sorriso. Disse: «Voglio vedere te al sicuro.»

«Non ho bisogno di nessun aiuto,» rispose Rosa.

«Dovresti tornartene a casa.»

Rosa serrò i pugni in difesa del letto di ottone, della brocca con l’acqua polverosa. «Questa è la mia casa.»

«È inutile che ti arrabbi, cara,» continuò la donna. «Non mi farai andare in collera con te per la seconda volta. Non è colpa tua. Non capisci come stanno le cose. Va’, povera piccina, mi fai compassione,» e si avanzò sul linoleum, come se volesse prendersi Rosa fra le braccia.

Rosa indietreggiò appoggiandosi al letto. «Rimanga al suo posto.»

«Ora non agitarti, cara. Non serve a nulla. Tu lo vedi – sono decisa.»

«Non so cosa voglia dire. Perché non può parlare chiaramente?»

«Ci sono delle cose che devo comunicarti a poco a poco.»

«Stia lontano. Altrimenti griderò.»

La donna si fermò. «Ora parliamo da persone ragionevoli, cara. Sono qui proprio per il tuo bene. Devi essere messa in salvo. Vedi...» parve per un momento incapace di trovare le parole. Poi disse abbassando il tono della voce: «La tua vita è in pericolo.»

«Se è tutto qui, può andarsene.»

«Tutto,» la donna si scandalizzò. «Che vuoi dire, tutto?» Poi rise risoluta. «Via, cara, per un momento mi avevi dato un colpo. Tutto, davvero. È abbastanza, no? Ora non sto scherzando. Se non lo sai, dovrai pure venire a saperlo. Non c’è nulla dinanzi a cui egli si fermerebbe.»

«Ebbene?» chiese Rosa, senza tradirsi.

La donna sussurrò dolcemente attraverso la poca distanza che le separava:

«È un assassino.»

«E crede che non lo sappia?» domandò Rosa.

«Per amor di Dio,» disse la donna, «vuoi dire...»

«Non c’è nulla che lei possa venirmi a dire.»

«Ma, pazza e stupida – di averlo sposato, sapendo questo! Mi verrebbe voglia di non occuparmi più di te.»

«Non me ne lamenterò,» disse Rosa.

La donna si attaccò al viso un altro sorriso, come si attacca a un gancio una ghirlanda.

«Non mi farai andare in collera, cara. Perbacco, se non mi occupassi più di te, non ci dormirei la notte. Non sarebbe una cosa giusta. Ascoltami: forse tu non sai quello che è successo. Ora l’ho potuto ricostruire tutto quanto. Hanno condotto Fred sotto il viale, in una di quelle botteghine, e lo hanno strangolato – anzi lo avrebbero strangolato, ma il cuore gli cedette prima.» Disse con voce terrorizzata: «Hanno strangolato un morto,» poi aggiunse bruscamente: «Non mi stai a sentire.»

«So tutto quanto,» mentì Rosa. I suoi pensieri si affollavano rapidamente – stava ricordando l’ammonimento del Rossetto «Non immischiarti in nulla.» Erano pensieri vaghi e disordinati: ha fatto tutto quello che poteva per me: ora tocca a me aiutarlo. Guardò attentamente la donna: non avrebbe mai dimenticato quel viso pienotto, bonario, già tocco dalla vecchiaia, che la fissava, con lo stesso sguardo atono di uno scampato dalle rovine di una casa bombardata. Disse: «Ebbene, se crede che le cose siano andate così, perché non va alla polizia?»

«Ora sì che parli da persona ragionevole,» disse la donna. «Io voglio soltanto appurare le cose. Ecco quello che voglio, cara. C’è una certa persona a cui ho dato del danaro e che mi ha raccontato delle cose. E ci sono altre cose che ho ricostruito da sola. Ma quella persona – non vorrà venire a deporre. Per ragioni sue. E ci vuole una quantità di prove – dato che i dottori l’hanno diagnosticata una morte per cause naturali. Ora se tu...»

«Perché non ci rinunzia?» domandò Rosa. «Tutto è ormai bell’e finito, no? Perché non lasciarci tutti tranquilli?»

«Non sarebbe giusto. Inoltre – è un essere pericoloso. Vedi quello che è successo qui l’altro giorno. Non vorrai dire a me che è stata una disgrazia accidentale.»

«E non ha pensato, vero,» disse Rosa, «per quale ragione l’avrà fatto? Non si uccide un uomo senza ragione.»

«Ebbene, perché lo ha fatto?»

«Non lo so.»

«Chiediglielo.»

«Non ho bisogno di saperlo.»

«Tu credi che sia innamorato di te,» disse la donna, «non lo è.»

«Mi ha sposata.»

«E perché? Perché non possono costringere una moglie a testimoniare. Tu non sei che una testimone, proprio come quell’altro uomo. Mia cara – ella cercò di nuovo di cancellare la distanza fra loro –, io non voglio che salvarti. Ammazzerebbe te, non appena ti vedesse, se pensasse di non essere sicuro.» Con lo schiena volta al letto Rosa la guardava avvicinarsi. Lasciò che le ponesse sulle spalle le sue grandi mani fresche fatte per manipolare pasticcini. «La gente cambia,» disse.

«Oh, no, non cambia. Guardami. Non ho mai cambiato. È come quelle Rocce di Brighton; si può morderli sino alla fine, si continua a leggervi scritto Brighton. La natura umana è così.» E sospirò tristemente sul volto di Rosa, un sospiro dolce e profumato di vino.

«La confessione... il pentimento,» sussurrò Rosa.

«Questa non è che religione,» disse la donna. «Credimi. È con il mondo che abbiamo a che fare.» Continuò a battere dolcemente sulla spalla di Rosa, con il respiro che le fischiava in gola. «Prepara la tua roba e vieni via con me. Mi occuperò di te. Non avrai nulla da temere.»

«Il Rossetto...»

«Al Rossetto ci penserò io.»

Rosa disse: «Farò tutto – tutto quello che Lei vuole...»

«Ecco come devi parlare, cara.»

«Se ci lascerà in pace.»

La donna indietreggiò. Fra le ghirlande – in dissonanza – apparve appesa una momentanea espressione di furore: «Ostinata,» disse, «se fossi tua madre... una bella bastonata...»

Il viso scarno e deciso le ricambiò il suo sguardo – tutta la lotta del mondo si svolgeva lì – le navi da guerra si preparavano per il combattimento e gli stormi da bombardamento prendevano quota – fra gli occhi decisi e la bocca caparbia. Era come la carta di una campagna militare punteggiata da bandierine.»

«Un’altra cosa,» la donna esagerò. «Ti potrebbero mandare in galera. Perché tu sai. Me lo hai detto. Una complice, ecco quello che sei. Dopo il fatto compiuto.»

«Se prendessero il Rossetto,» ella interrogò stupita «crede che me ne importerebbe?»

«Mio Dio,» disse la donna, «io non sono venuta qui che per amor tuo. Non mi sarei presa la briga di vederti prima di ogni altra cosa, ma non voglio lasciare che l’innocente soffra» – l’aforisma le uscì di scatto come un biglietto da un distributore automatico. «Allora, non alzerai un dito per impedirgli di ammazzarti?»

«Non mi vorrebbe far del male.»

«Sei giovane, non conosci le cose come le conosco io.»

«Ci sono delle cose che Lei non conosce.» Ella ruminava confusamente accanto al letto, mentre la donna continuava il suo ragionamento: un Dio piangeva in un orto ed emetteva un grido su una croce: Molly Carthew andava verso il fuoco eterno.

«So una cosa che tu non sai. So la differenza fra il giusto e l’ingiusto. Questo, non te l’hanno insegnato a scuola.»

Rosa non replicò: la donna aveva perfettamente ragione: queste due parole non volevano dire nulla per lei. Il loro sapore era cancellato da cibi d’un sapore più forte – il Bene e il Male. La donna non avrebbe potuto dirle nulla che ella non sapesse già intorno a questi – sapeva da prove altrettanto evidenti quanto la matematica che il Rossetto era il Male – e in quel caso che importava se fosse o no nel giusto?

«Sei pazza,» disse la donna. «Non credo che alzeresti un dito, se egli stesse per ammazzarti.»

Rosa si ridestò lentamente al mondo esterno: – “Nessun amore è più grande di questo.” Disse: «Forse non lo farei, non so, ma forse...»

«Se non fossi una buona donna, ti lascerei perdere. Ma ho il senso della responsabilità.» I sorrisi apparivano molto incerti sul volto, mentre ella sostava accanto alla porta. «Puoi avvertire quel tuo giovane marito,» disse, «che mi sto infiammando nei suoi riguardi. Ho i miei piani.» Uscì e richiuse la porta: poi la spalancò di nuovo per un ultimo attacco. «Prendi delle precauzioni, cara,» disse «non vorrai un figlio di un assassino,» ed implacabile le sorrise attraverso il nudo pavimento della stanza da letto.

Delle precauzioni... Rosa, ritta all’estremità del letto, si premette la mano contro il corpo, come se sotto quella pressione le fosse dato di scoprire...

Quello non le era mai passato per la mente: e il pensiero del frutto che avrebbe potuto derivare dall’essersi data si tramutò in una sensazione di esultanza.

Un bambino... e quel bambino avrebbe avuto un bambino... era come raccogliere uno stuolo di amici per il Rossetto. Se Essi avessero dannato lui e lei, avrebbero dovuto dannare anche loro. Ella avrebbe vegliato su di ciò. Quanto loro due avevano commesso la scorsa notte su quel letto era senza fine: era un atto eterno.