Capitolo secondo

Il Ragazzo pagò i tre pence e passò attraverso l’arganello. Camminava rigido lungo la quadruplice fila di poltrone a sdraio, su cui la gente aspettava che l’orchestra incominciasse a suonare. Visto da dietro sembrava più giovane di quanto non fosse nel leggero completo scuro da dozzina, un po’ troppo ampio sui fianchi, ma quando gli si stava faccia a faccia, sembrava più vecchio, e gli occhi color ardesia erano impregnati della annichilante eternità da cui proveniva e verso cui andava. L’orchestra prese a suonare: egli si sentì vibrare la musica nel ventre: i violini si lamentavano nelle sue budella. Non guardava né a destra né a sinistra, ma passò oltre.

Nel Palazzo dei Divertimenti si diresse verso un tiro a segno, oltrepassando gli stereoscopi, i distributori automatici e il gioco degli anelli. Le pupattole in fila guardavano in giù con gelida innocenza, al pari di Madonne nella sacrestia di una chiesa. Il Ragazzo alzò gli occhi: boccoli castani, orbite azzurre e gote dipinte: pensò: “Ti saluto Maria... nell’ora della nostra morte”. «Sei colpi,» disse.

«Ah, sei tu?» disse quello del banco, lanciandogli un’occhiata piena di un’inquieta antipatia.

«Sì, sono io,» disse il Ragazzo. «Puoi dirmi l’ora, Bill?»

«Cosa vuoi dire, l’ora? C’è un orologio laggiù nella sala, no?»

«Mi pare che segni le due meno un quarto. Non credevo che fosse così tardi.»

«Quell’orologio va sempre bene,» disse l’uomo. Venne sino all’estremità del banco, con la pistola in mano. «Va sempre bene, sai,» disse. «Non serve per nessun maledetto alibi. Le due meno un quarto, ecco l’ora esatta.»

«Benissimo, Bill,» disse il Ragazzo. «Le due meno un quarto. Volevo soltanto saperlo. Dammi quella pistola.» La sollevò: la mano ossuta e giovanile era ferma come una roccia: egli mise sei colpi sul bersaglio. «Ho vinto un premio» disse.

«Pigliati il tuo dannato premio,» disse Bill, «e fila. Cosa vuoi? Della cioccolata?»

«Non mangio cioccolata,» disse il Ragazzo.

«Un pacchetto di Players?»

«Non fumo.»

«Allora dovrai avere una bambola o un vaso di vetro.»

«La bambola può andare,» disse il Ragazzo. «Mi darai quella, quella lassù con i capelli bruni.»

«Metti su famiglia?» chiese l’uomo, ma il Ragazzo non rispose, continuando a camminare impettito lungo gli altri baracconi, avendo ancora sulle dita l’odore della polvere da sparo e tenendo per i capelli la Madre di Dio. All’estremità del molo l’acqua sciacquava attorno ai pilastri, un’acqua oscura di un verde da bottiglia di veleno, chiazzata di alghe, e il vento salmastro gli sferzò le labbra. Salì la scala che portava alla terrazza da tè e si guardò attorno: quasi ogni tavola era piena. Entrò nella veranda a vetri e girò nella lunga e stretta sala da tè che guardava verso occidente, appollaiata a quindici metri di altezza sulla marea che si ritirava lentamente. Una tavola era libera e vi si sedette: di lì poteva vedere tutta la sala ed al di là dell’acqua il viale velato dalla caligine.

«Aspetto,» disse alla cameriera che venne a prendere ordini. «Devono venire degli amici.» La finestra era aperta ed egli poteva udire la maretta che sbatteva contro il molo e la musica dell’orchestra, debole e triste, trasportata dal vento verso la spiaggia. Disse: «Sono in ritardo. Che ora è?»

Le sue dita tiravano con un gesto macchinale i capelli della bambola, staccandone la lana bruna.

«Sono press’a poco le due meno dieci,» rispose la ragazza.

«Tutti gli orologi di questo molo vanno avanti,» egli disse.

«Oh no,» disse la ragazza, «È proprio l’ora di Londra.»

«Prenditi la bambola,» disse il Ragazzo. «Non mi serve. L’ho vinta poco fa in uno dei baracconi del tiro a segno. Non mi serve.»

«Posso davvero prenderla?»

«Via, prendila. Ficcatela in camera e prega.» Gliela buttò, guardando con impazienza la porta. Tutto il suo corpo esprimeva un rigido dominio di se stesso. L’unico segno di nervosismo che trasparisse era un leggero tic nella guancia, attraverso la morbida peluria, dove ci si sarebbe aspettati una fossetta. Il tic si fece più impaziente, quando Cubitt apparve, e con lui Dallow, un tipo corpulento e muscoloso, dal naso rotto e dall’espressione di una brutale semplicità.

«Ebbene?» disse il Ragazzo.

«Tutto bene,» rispose Cubitt.

«Dov’è Spicer?»

«Sta venendo,» disse Dallow. «È andato un momento alla ritirata a lavarsi.»

«Avrebbe dovuto venire subito,» disse il Ragazzo. «Siete in ritardo. Avevo detto alle due meno un quarto precise.»

«Non prendertela così,» disse Cubitt. «Non dovevi fare altro che venirci incontro.»

«Dovevo rassettarmi,» disse il Ragazzo. Fece cenno alla cameriera. «Quattro porzioni di pesce e patatine e del tè. Verrà ancora un altro.»

«Spicer non vorrà pesce e patatine,» disse Dallow. «Non ha fame.»

«Sarebbe meglio che avesse fame,» disse il Ragazzo, e chinando il viso sulle mani, seguì l’avvicinarsi del pallido viso di Spicer attraverso la sala da tè, sentì l’ira che gli rodeva le viscere, come la marea i pilastri di sotto. «Sono le due meno cinque,» disse. «È così, non è vero? Sono le due meno cinque?» chiese alla cameriera.

«C’è voluto più di quanto pensavo,» disse Spicer, lasciandosi cadere nella poltrona, bruno, pallido e pieno di pustolette. Guardò con disgusto la fetta bruna di pesce sfrigolante che la ragazza gli aveva messo dinanzi. «Non ho fame» disse, «non posso mangiarlo. Chi credete che io sia?» e tutti e tre non assaggiarono neppure il pesce, mentre guardavano il Ragazzo, come bimbi dinanzi ai suoi occhi senza età.

Il Ragazzo si versò della salsa di acciuga sulle patatine. «Mangiate,» disse, «su, mangiate.» Dallow a un tratto si mise a ridere. «Non ho fame,» disse e si riempì la bocca di pesce. Parlavano tutti a bassa voce, e le parole non giungevano ai vicini nel frastuono di piatti e di voci e nell’insistente ondeggiare del mare. Cubitt seguì l’esempio, infilzando il suo pesce. Soltanto Spicer non volle mangiare. Continuò a starsene lì seduto, con un’aria ostinata, i capelli grigi, e un senso di nausea.

«Dammi da bere, Rossetto,» disse. «Non posso mandare giù questa roba.»

«Non avrai da bere, oggi,» disse il Ragazzo. «Su, mangia.»

Spicer si portò un po’ di pesce alla bocca. «Se mangio,» disse, «vomito.»

«E racca allora,» disse il Ragazzo. «Racca, se ti piace. Non hai budella da raccare.»

E chiese a Dallow: «È andato tutto bene?»

«Benone» disse Dallow. «Io e Cubitt lo abbiamo sistemato. Avevamo dato i cartoncini a Spicer.»

«Li hai messi a posto bene?»

«Certo che li ho messi a posto bene,» disse Spicer.

«Lungo tutto il viale?»

«Ma certo. Non capisco perché ti preoccupi tanto dei cartoncini.»

«Non capisci niente,» disse il Ragazzo. «Sono un alibi, no?» Abbassò il tono della voce e sussurrò al disopra del pesce: «Provano che ha seguito il suo programma. Dimostrano che è morto dopo le due.» Rialzò di nuovo la voce. «Ascoltate. Avete sentito?»

Molto debolmente in città una campana rintoccò e batté due colpi.

«Se lo avessero già trovato?» disse Spicer.

«Allora ci andrebbe proprio male,» disse il Ragazzo.

«E quella pollastrella con cui stava?»

«Quella non conta,» disse il Ragazzo. «Non è che una puttana. Le ha dato una mezza sterlina. Ho visto io che gliela dava.»

«Tu tieni nota di una quantità di cose,» disse Dallow con ammirazione. Si versò una tazza di tè nero e vi mise cinque zollette di zucchero.

«Tengo nota di quello che faccio io,» disse il Ragazzo. «Dove hai messo i cartoncini?» chiese a Spicer.

«Ne ho messo uno da Snow,» rispose Spicer.

«Cosa dici? Da Snow?»

«Beh, doveva pure mangiare, no?» disse Spicer. «Così diceva il giornale. Tu hai detto che dovevo fare come diceva il giornale. Sarebbe sembrato strano, no, se non avesse mangiato, e ne lasciava sempre uno dove mangiava.»

«Sarebbe ancora più strano,» disse il Ragazzo, «se la cameriera avesse scoperto che la tua faccia non era quella giusta e se ne fosse accorta, non appena eri venuto via. Dove lo hai messo da Snow?»

«Sotto la tovaglia,» disse Spicer. «È quello che lui faceva sempre. Ci sarà stato un mucchio di gente dopo di me a quella tavola. Quella non saprà che non era lui. Non credo che lo troverà prima di stasera, quando toglierà la tovaglia. E magari sarà anche un’altra ragazza.»

«Torna indietro,» disse il Ragazzo «e porta qui quel cartoncino. Non voglio correre rischi.»

«Non tornerò indietro.» La voce di Spicer si elevò di tono, e una volta ancora tutti e tre fissarono il Ragazzo in silenzio.

«Vai tu, Cubitt,» disse il Ragazzo. «Forse è meglio che non sia ancora lui.»

«Io no,» disse Cubitt. «E se avessero trovato il cartoncino e mi vedessero mentre lo cerco? Meglio correre l’alea e lasciarlo stare,» incalzò sussurrando.

«Parla a voce naturale,» disse il Ragazzo, «parla a voce naturale,» poiché la cameriera ritornava verso la tavola.

«Ragazzi, volete qualcosa d’altro?» ella chiese.

«Sì,» disse il Ragazzo, «vogliamo il gelato.»

«Piantala, Rossetto,» protestò Dallow, quando la ragazza se ne fu andata, «non vogliamo il gelato. Non siamo delle donnicciole, Rossetto.»

«Se non vuoi il gelato, Dallow,» disse il Ragazzo, «vai da Snow e prendi quel cartoncino. Hai fegato o no?»

«Credevo che l’avessimo finita,» disse Dallow. «Ho fatto abbastanza. Ho del fegato, lo sai, ma mi sono preso una paura matta... Perbacco, se lo hanno trovato prima del tempo, sarebbe pazzesco andare da Snow.»

«Non parlare così forte,» disse il Ragazzo. «Se nessun altro ci va,» disse, «ci andrò io. Io non ho paura. Solamente certe volte sono stufo di lavorare con gentaglia come voi. Certe volte penso che starei meglio da solo.»

Il pomeriggio avanzava sull’acqua. Egli disse:

«Kite era un tipo in gamba, ma Kite è morto. Qual era la tua tavola?» chiese a Spicer.

«Appena dentro. A destra della porta. Una tavola per una persona sola. C’erano sopra dei fiori.»

«Quali fiori?»

«Non so quali fiori,» disse Spicer. «Dei fiori gialli.»

«Non andare, Rossetto,» disse Dallow, «È meglio lasciarlo lì. Non si sa mai quello che potrebbe succedere,» ma il Ragazzo si era già alzato e procedeva rigido nella stretta e lunga sala sovrastante il mare. Non si poteva dire se avesse paura: il suo viso giovane di vecchio giocatore di poker non esprimeva niente.

Da Snow l’affluenza era finita e la tavola era libera. La radio salmodiava un programma di musica lamentosa, trasmesso da un organista di cinematografo, una potente vox humana tremolava su quel deserto macchiato e sbricioloso di tovaglie usate: era la bocca ebbra del mondo che emetteva lamenti sulla vita. Una cameriera sbatteva le tovaglie, non appena le tavole rimanevano libere, e preparava per il tè. Nessuno prestò attenzione al Ragazzo: gli voltavano la schiena, quando egli guardò. Fece scivolare la mano sotto la tovaglia e non vi trovò nulla. Di colpo quel lieve accesso di ira morbosa si ridestò nel petto del Ragazzo, ed egli strinse così forte una saliera sulla tavola da farne scricchiolare la base. Una cameriera si staccò da un gruppo che chiacchierava e venne verso di lui, occhi freddi, aria indagatrice, di un biondo cenere. «Ebbene?» disse, esaminando il vestito logoro, il viso troppo giovane.

«Voglio la lista,» disse il Ragazzo.

«È troppo tardi per la colazione.»

«Non voglio la colazione,» disse il Ragazzo. «Voglio una tazza di tè e un piatto di biscotti.»

«Per favore, vuole andare ad una delle tavole preparate per il tè?»

«No,» disse il Ragazzo. «Questa mi va.»

Ella veleggiò via, altezzosa e disapprovatrice, ed egli la richiamò: «Vuoi prendere questa ordinazione?»

«La cameriera del suo tavolo sarà qui tra un minuto,» ella disse e si avviò a riprendere le chiacchiere accanto alla porta di servizio. Il Ragazzo spostò la seggiola, di nuovo il tic nella guancia si ripeté, di nuovo egli pose la mano sotto la tovaglia: era un gesto da nulla ma, se fosse stato osservato, avrebbe potuto portarlo sulla forca. Ma non riuscì a tastare nulla e pensò furibondo di Spicer: è sempre un gran pasticcione, faremmo meglio senza di lui.

«Era il tè che lei voleva, signore?» Alzò bruscamente gli occhi, con la mano ancora sotto la tovaglia: una di quelle ragazze, pensò, che ti strisciano attorno, come se avessero paura dei loro passi: una ragazzina pallida, sottile, più giovane di lui.

Disse: «Ho ordinato già una volta.»

Ella si scusò umilmente. «C’è stata una tale affluenza. Ed è il mio primo giorno. Questo è stato il primo momento di respiro. Ha perduto qualcosa?»

Egli ritrasse la mano, osservandola con occhi pericolosi e insensibili: di nuovo la guancia si contrasse: sono i nonnulla che rovinano, e non riusciva a pensare a nessuna ragione che spiegasse la sua mano sotto la tavola. Ella continuò incoraggiante. «Dovrò cambiare di nuovo la tovaglia per il tè, quindi se ha perduto...» In un baleno aveva tolto dalla tavola sale, pepe e mostarda, le posate e la salsa, i fiori gialli, aveva raccolto gli angoli della tovaglia e l’aveva sollevata dalla tavola con un gesto solo, briciole e tutto quanto.

«Non vi è nulla, signore,» disse. Egli guardò il piano scoperto della tavola e disse: «Non avevo perduto nulla.» Ella incominciò a stendere una tovaglietta pulita per il tè. Sembrava che trovasse in lui qualcosa di simpatico, che la faceva parlare, forse qualcosa di comune – la gioventù e la miseria e una specie di inesperienza dei caffè alla moda. In apparenza già aveva dimenticato quella mano che esplorava. Ma non se ne sarebbe ricordata, egli si domandò, se in seguito le avessero fatto delle domande? Notò con disprezzo la sua quiete, il suo pallore, il suo desiderio di piacere: ma forse lei pure osservava, ricordava...

«Non immaginerebbe mai,» ella disse, «quello che ho trovato qui solo dieci minuti fa. Quando ho cambiato la tovaglia.»

«Cambi sempre la tovaglia?» chiese il Ragazzo.

«Oh, no,» ella disse, preparando il necessario per il tè, «ma un cliente ha rovesciato il bicchiere, e quando la cambiai, c’era uno dei cartoncini di Kolley Kibber, che vale dieci scellini. È stata proprio un’emozione,» continuò, indugiando grata con il vassoio «e le altre non ne sono contente. Vede, non è che il primo giorno che vengo qui... Dicono che sono stata una sciocca di non affrontarlo e vincere il premio.»

«E perché non lo hai fatto?»

«Perché non ci avrei mai pensato. Non rassomigliava affatto alla fotografia.»

«Forse il cartoncino era qui da stamane.»

«Oh no,» ella disse, «non è possibile. È stato il primo uomo a venire a questa tavola.»

«Ebbene,» disse il Ragazzo, «non fa nessuna differenza. Tu hai il cartoncino.»

«Oh sì, ce l’ho. Solo che c’è qualcosa che non sembra del tutto chiaro – capisce cosa voglio dire – il fatto che era così diverso. Avrei potuto vincere il premio. Le assicuro che sono corsa alla porta, appena ho visto il cartoncino: non ho perso tempo.»

«E l’hai visto?»

Ella scrollò il capo.

«Suppongo,» riprese il Ragazzo, «che non lo avrai guardato bene. Altrimenti te ne saresti accorta.»

«Io li guardo sempre bene,» disse la ragazza; «i clienti, voglio dire. Vede, sono nuova. Ho un po’ paura. Non voglio fare nulla che possa offendere. Oh,» disse terrorizzata, «come ora che sto qui a chiacchierare, quando lei vuole una tazza di tè.»

«Va benone,» disse il Ragazzo. Le sorrise a fatica: non riusciva ad usare quei muscoli con naturalezza. «Sei il tipo di ragazza che mi piace...» Le parole non erano quelle che ci volevano: se ne accorse subito e le mutò: «Voglio dire» disse, «sei una ragazza cordiale. Certe altre qui – ti agghiacciano.»

«Agghiacciano anche me.»

«Sei sensibile, ecco quello che sei,» disse il Ragazzo, «come me.» Improvvisamente disse: «Immagino che non sapresti riconoscere quell’uomo del giornale? Voglio dire, magari potrebbe essere ancora in giro.»

«Oh sì,» ella rispose, «lo riconoscerei. Non dimentico mai una faccia.»

La guancia del Ragazzo si contrasse. Disse: «Vedo che tu ed io abbiamo un bel po’ in comune. Dovremmo trovarci insieme una sera. Come ti chiami?»

«Rosa.»

Egli pose una moneta sulla tavola e si alzò. «Ma il suo tè,» ella domandò.

«Siamo stati qui a chiacchierare, e ho un appuntamento per le due precise.»

«Oh, come mi dispiace,» disse Rosa. «Avrebbe dovuto interrompermi.»

«Va benone,» disse il Ragazzo, «mi ha fatto piacere. E ad ogni modo non sono che le due e dieci, al tuo orologio. Quando te ne vai la sera?»

«Non chiudiamo che alle dieci e mezzo, eccetto le domeniche.»

«Ci rivedremo,» disse il Ragazzo. «Tu ed io abbiamo delle cose in comune.»