Capitolo secondo
Spicer era irrequieto in quei giorni. Non aveva nulla da fare. Quando fossero incominciate le corse, non si sarebbe sentito così male, non avrebbe ripensato tanto ad Hale. Era il verdetto medico che lo disturbava: «morte per cause naturali,» quando con i suoi occhi aveva visto il Ragazzo... C’era qualcosa di losco, di non chiaro. Egli diceva tra sé che avrebbe potuto affrontare un’inchiesta della polizia, ma non poteva reggere a questo non sapere, alla falsa sicurezza del verdetto. Vi doveva essere in qualche punto di esso un’insidia, e per tutta la lunga giornata estiva assolata Spicer errò preoccupato, sorvegliando per timore di qualche complicazione; la sezione di polizia, il posto dove la cosa era stata commessa, persino Snow divennero la meta delle sue passeggiate. Voleva essere sicuro che gli agenti non facessero nulla (conosceva qualsiasi agente in borghese del reparto di Brighton), che nessuno facesse delle domande o indugiasse dove non aveva nessuna ragione di indugiare. Sapeva che si trattava soltanto dei nervi: «Mi sentirò bene, quando incominceranno le corse,» diceva a se stesso, come un uomo dall’organismo intossicato, convinto che tutto finirà con l’estrazione di un solo dente.
Risalì con circospezione il viale dall’estremità di Hove, dal casotto di vetro dove era stato deposto il corpo di Hale, pallido con gli occhi striati di sangue e le estremità delle dita gialle di nicotina. Aveva un callo al piede destro e zoppicava un pochino, strascicandosi dietro una scarpa di un brillante colore arancione. Gli erano venute fuori anche delle pustole intorno alla bocca, ed anche questo era stato provocato dalla morte di Hale. La paura gli aveva disturbato l’intestino ed erano venute fuori le pustole: gli succedeva sempre così.
Attraversò zoppicando la via, guardandosi attorno, quando giunse nei pressi di Snow: questo era un altro luogo pericoloso. Il sole batteva sulle grandi lastre delle invetriate e i riflessi ne giungevano sino a lui come fanali. Sudava lievemente nel passare lì davanti. Una voce disse: «Ma guarda, non è Spicer?» Egli aveva tenuto gli occhi su Snow dall’altra parte della via e non si era accorto di chi gli stava accanto sul viale, curvo sul parapetto al disopra della spiaggia ghiaiosa. Voltò bruscamente il viso umidiccio. «Che fai qui, Crab?»
«Fa piacere di essere di ritorno,» disse Crab, un giovanotto vestito di viola, dalle spalle che sembravano attaccapanni e dal vitino sottile.
«Ti abbiamo già fatto filare una volta, Crab, pensavo che te ne saresti rimasto via. Sei trasformato.»
Aveva dei capelli color carota, eccetto alla radice, e il naso raddrizzato e ricoperto di cicatrici. Una volta era il vero ebreo, ma un parrucchiere e un chirurgo lo avevano trasformato.
«Avevi paura che ti avremmo riconosciuto, se non cambiavi il tuo tipo da scemo?»
«Che, Spicer, io paura della vostra banda? Uno di questi giorni mi darai del “signore”. Sono la mano destra di Colleoni.»
«Avevo sempre sentito dire che era mancino,» rispose Spicer. «Aspetta che il Rossetto venga a sapere che sei tornato.»
Crab rise: «Il Rossetto è alla sezione di polizia.»
La sezione di polizia: il mento di Spicer si abbassò, ed egli si allontanò subito, strascicando sul marciapiedi la scarpa arancione, mentre il callo gli dava delle fitte. Sentì Crab che rideva dietro a lui, ebbe nelle narici un cattivo odore di pesce morto, si sentì venire la nausea. La sezione di polizia, la sezione di polizia: era come un ascesso che iniettasse l’infezione in tutti i nervi. Quando giunse da Frank, non c’era nessuno. Salì dolorando la scala e con un passo che scricchiolava passò oltre la ringhiera rotta, arrivò alla stanza del Rossetto: la porta era aperta, e la solitudine si rifletteva nello specchio inclinato: nessun messaggio, delle briciole sul pavimento: aveva l’aspetto di una camera da cui una persona sia stata improvvisamente chiamata fuori.
Spicer si fermò accanto al cassettone (la tinta color noce era stata stesa in modo ineguale); nessun foglietto scritto per rassicurarlo in un cassetto, nessun avviso. Guardò sopra e sotto, e il callo gli dava delle fitte che attraverso il corpo giungevano sino al cervello; e di colpo ecco lì nello specchio il suo viso – i grassi capelli neri che si facevano grigi alla radice, le bollicine sul viso, le pupille striate di sangue –, e lo colpì il pensiero, – come se si trovasse a guardare un primo piano su uno schermo, – che era il tipo di faccia caratteristico di una spia, di uno che spiattellava tutto agli agenti.
Si allontanò: spiaccicò col piede alcuni pezzetti di dolce: si disse che non era tipo da fare la spia: il Rossetto, Cubitt e Dallow, erano i suoi camerati. Non li avrebbe abbandonati – anche se non era lui che aveva commesso il delitto. Era stato contrario ad esso sin dall’inizio: non aveva fatto che depositare i cartoncini: egli sapeva soltanto. Si fermò in cima alla scala, guardando giù al di là della ringhiera traballante. Si sarebbe ammazzato piuttosto che fare la spia: lo disse in un sussurro al ripiano deserto, ma sapeva che in realtà non avrebbe avuto quel coraggio. Meglio scapparsene via: e pensò con nostalgia a Nottingham e ad un caffè che conosceva laggiù, un caffè che un tempo aveva sperato di comperare, una volta che si fosse fatto il gruzzolo. Era un bel posto, Nottingham, l’aria vi era buona, senza quel salmastro bruciante sulle labbra riarse come qui, e le ragazze erano cordiali.
Se avesse potuto andarsene – ma gli altri non l’avrebbero mai lasciato andare: sapeva troppo di troppe cose. Ormai era nella banda per tutta la vita: e rimase a guardare la tromba della scala sino giù alla minuscola entrata, la striscia di linoleum, il telefono vecchio tipo su una mensola accanto alla porta. Mentre lo guardava, esso incominciò a squillare. Gli lanciò un’occhiata impaurita e sospettosa. Non poteva sopportare altre notizie cattive. Dove erano andati tutti? Erano scappati e lo avevano lasciato senza dirgli nulla? Persino Frank non era nel sottosuolo. C’era odore di bruciato, come se avesse dimenticato il ferro caldo. Il campanello continuò a squillare.
«Che chiamino,» disse. «Finiranno bene per stancarsi: perché dovrei lavorare io per tutta questa banda dannata?» Ancora e ancora e ancora. Chiunque fosse che lo faceva, non si stancava facilmente. Si avvicinò all’estremità della scala e guardò con aria truce l’apparecchio di vulcanite che emetteva tanto rumore nella casa silenziosa. «Il guaio è,» disse a voce alta, come se ripetesse un discorso da fare al Rossetto e agli altri, «che sto diventando troppo vecchio per questo gioco. Dovrei ritirarmi. Guardate i miei capelli. Sono grigio, no? Dovrei ritirarmi.» Ma la sola risposta era lo squillo regolare “drin, drin, drin”.
«Ma non c’è nessuno a rispondere a quel dannato microfono?» gridò nella tromba delle scale. «Devo fare io tutto il lavoro, eh?» e si vide nell’atto di lasciar cadere un biglietto nel secchiello di un bimbo, di farlo scivolare sotto una barca capovolta, dei biglietti che avrebbero potuto farlo impiccare. Improvvisamente scese le scale di corsa con una specie di rabbia simulata e sollevò il ricevitore. «Ebbene,» muggì, «ebbene, chi diavolo parla?»
«È Frank lì?» disse una voce. Ora la riconosceva. Era la ragazza di Snow. Preso da panico abbassò il ricevitore e attese, mentre una tenue voce da bambola gli giungeva dall’orifizio: «Per favore, devo parlare con il Rossetto.» Era quasi come se l’ascoltare lo tradisse. Si mise di nuove in ascolto e la voce ripeté con un’ansia disperata: «È Frank lì?»
Tenendo la bocca lontana dal microfono, arricciando la lingua in modo strano, urlando con voce rauca e contraffatta, Spicer, cambiata intonazione, rispose: «Il Rossetto è fuori. Che volete?»
«Devo parlargli.»
«È fuori, vi dico.»
«Chi parla?» chiese ad un tratto la ragazza con voce spaventata.
«È proprio quello che voglio sapere io. Chi siete?»
«Sono un’amica del Rossetto. Devo trovarlo. È urgente.»
«Non posso aiutarvi.»
«Per favore, devo trovare il Rossetto. Mi ha detto che avrei dovuto avvertirlo, se mai...»
La voce si affievolì.
Spicer urlò nel telefono. «Pronti. Dove siete andata? Se mai che cosa?» Nessuna risposta. Rimase ad ascoltare, col ricevitore premuto contro l’orecchio, il silenzio che ronzava nei cavi. Incominciò ad alzare ed abbassare il gancio. «Centrale, pronti, pronti, centrale,» e di colpo la voce tornò di nuovo, come se qualcuno avesse messo la puntina al posto giusto sopra un disco. «Siete lì? Per favore, siete lì?»
«Certo che sono qui. Cosa vi ha detto il Rossetto?»
«Dovete trovare il Rossetto. Ha detto che voleva sapere. È una donna. È venuta qui con un uomo.»
«Cosa volete dire – una donna?»
«Che faceva delle domande,» disse la voce. Spicer depose il ricevitore. Tutto ciò che la ragazza voleva ancora dire rimase soffocato nel cavo. Trovare il Rossetto? A che serviva di trovare il Rossetto? Erano gli altri che avevano trovato. E Cubitt e Dallow: erano scappati via senza neppure avvertirlo. Se egli avesse fatto la spia, non avrebbe fatto che ripagarli della stessa moneta. Ma non avrebbe fatto la spia, non era un traditore. Gli altri lo credevano vigliacco: avrebbero pensato che egli aveva fatto la spia. Non avrebbe neppure goduto della loro fiducia...
Un lieve umidore di autocompassione spuntò fuori dagli aridi condotti lagrimali, che stavano invecchiando.
Devo riflettere, ripeté fra sé, devo riflettere. Aprì la porta di casa e uscì fuori. Non attese neanche di prendere il cappello. Aveva i capelli radi a sommo del capo, aridi e fragili sotto la forfora. Camminò rapidamente, senza avere nessuna direzione precisa, ma a Brighton ogni strada finiva sul lungomare. Sono troppo vecchio per questo gioco, devo uscirne fuori, a Nottingham. Aveva bisogno di essere solo, scese i gradini di pietra che portavano al livello della spiaggia: era giorno di chiusura anticipata e le bottegucce poste di fronte al mare sotto il viale erano chiuse. Camminò sull’orlo dell’asfalto, inciampando nei ciottoli. «Non farei mai la spia,» osservò in silenzio alla marea che si alzava ed abbassava, «ma non sono stato io, non ho mai voluto ammazzare Fred.»
S’immerse nell’ombra sotto il molo e un fotografo da dozzina con un apparecchio tascabile lo colse mentre l’ombra cadeva e gli ficcò in mano un fogliettino. Spicer non se ne accorse.
I pilastri di ferro si stendevano lungo i ciottoli, che l’umidità rendeva più scuri, e sorreggevano sul suo capo la pista per le automobiline, i baracconi del tiro a segno e gli stereoscopi, le figure meccaniche, l’Automa che prediceva l’avvenire.
Un gabbiano volò diritto verso di lui fra i pilastri come un uccello impaurito rimasto in trappola in una cattedrale, poi fuggì via dalla oscura navata di ferro nella luce del sole. «Non farei la spia,» disse Spicer, «a meno che vi fossi costretto...» Incespicò su una scarpa vecchia e pose le mani sulle pietre per salvarsi; avevano tutto il freddo del mare e sotto quei pilastri non erano mai state riscaldate dal sole.
Pensò: quella donna – com’è che sa qualcosa – e a quale scopo fa delle domande? Io non volevo che Hale fosse ucciso: non sarebbe giusto che io ci andassi di mezzo con gli altri: glielo avevo detto di non farlo. Riuscì fuori nel sole e risalì sul viale. Sarà da questa parte che i poliziotti verranno, pensava, se sanno qualche cosa: ricostruiscono sempre il delitto. Si mise di fazione fra l’arganello del molo e la toeletta per signore. Non c’era molta gente in giro: avrebbe potuto identificare gli agenti abbastanza facilmente, se fossero venuti. Là in fondo, v’era l’albergo Reale Albione: egli poteva spingere lo sguardo lungo tutto il grande viale sino all’Old Steyne: le cupole di un verde pallido del Padiglione aleggiavano al disopra delle piante polverose nel caldo meriggio deserto. Avrebbe potuto scorgere chiunque fosse venuto in qua, passando sotto l’Acquario, sotto la spianata bianca del molo pronta per il ballo, sino all’arcata coperta dove le bottegucce a buon mercato si ergevano fra il mare e la muraglia di pietra e vendevano i bastoncini di “Roccia di Brighton”.