Capitolo secondo
Il Ragazzo era sdraiato sul letto. Sul lavabo una tazza di caffè si stava raffreddando e il letto era cosparso di briciole di pasticcini. Il Ragazzo umettò una matita copiativa, e la bocca gli si macchiò di rosso alle estremità; poi scrisse: «Con riferimento alla mia lettera precedente» e terminò: «P. Brown, segretario della Società di protezione degli allibratori». La busta, indirizzata al «Signor R. Tate», era sul lavabo e s’era macchiata di caffè in un angolo. Quando ebbe finito di scrivere, riadagiò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. Si addormentò subito: come se fosse calata una saracinesca, fosse avvenuto lo scatto in una fotografia istantanea. Non faceva sogni. Il suo sonno era una funzione animale. Allorché Dallow aprì la porta, si svegliò subito.
«Ebbene?» disse, rimanendo sdraiato senza muoversi, completamente vestito in mezzo alle briciole di pasticcini.
«C’è una lettera per te, Rossetto. L’ha portata su Giuditta.»
Il Ragazzo prese la lettera. Dallow disse: «È una lettera elegante, Rossetto. Sentine il profumo.»
Il Ragazzo annusò la busta violetta. Odorava di quel caucciù che si usa per l’alito cattivo.
Disse: «Non si può tenere lontana quella cagna? Se Frank sapesse...»
«Chi può scrivere una lettera elegante come quella, Rossetto?»
«Colleoni. Vuole che vada a parlare con lui al Cosmopolitan.»
«Il Cosmopolitan,» ripeté Dallow con aria di disgusto. «Non andrai, vero?»
«Naturalmente ci andrò.»
«Non è un posto in cui ti potrai sentire a tuo agio.»
«Elegante come la sua carta da lettere,» disse il Rossetto. «Costa un sacco di soldi. Crede di potermi fare paura.»
«Forse faremmo meglio a lasciare in pace Tate.»
«Porta giù a Bill quella giacca, digli di spazzolarla in fretta e di darle una stirata. Da’ una ripulita a queste scarpe.» Con un calcio le spinse fuori da sotto il letto e si mise a sedere sul letto. «Crede di potersi prendere gioco di noi.»
Nello specchio inclinato sovrastante al lavabo si poteva vedere riflesso, ma il suo sguardo si allontanò rapidamente da quell’immagine dalle guance lisce, mai rasate, dai capelli lisci, dagli occhi vecchi. Non lo interessavano. Aveva troppo orgoglio per preoccuparsi delle apparenze.
Così più tardi egli si sentì completamente a suo agio nell’attendere Colleoni nell’ampio vestibolo sotto le lampade a cupola. Dei giovanotti continuavano ad arrivare in pesanti giacconi d’automobile, accompagnati da esserini dipinti che tintinnavano come vetro costoso, quando erano toccati, ma davano l’impressione di essere altrettanto taglienti e resistenti quanto la latta.
Non guardavano nessuno, nel passare lungo il vestibolo, come erano passati lungo la Brighton Road nelle macchine da corsa, per finire sugli sgabelli alti del bar americano.
Una donna voluminosa con una volpe bianca uscì da un ascensore e gettò uno sguardo sul Ragazzo, poi di nuovo rientrò nell’ascensore e prese pesantemente a salire. Una piccola ebrea lo annusò come fosse una cagnetta, poi parlò al disopra della sua testa con un’altra piccola ebrea appollaiata su uno sgabello. Il signor Colleoni giunse dalla sala di scrittura in istile Luigi XVI, camminando sulla punta dei piedi rivestiti di scarpe lucide sopra il tappeto morbido lungo decine di metri. Era un ebreuccio con una bella pancina rotonda: indossava un panciotto grigio a doppio petto, e aveva degli occhi brillanti come uva secca. I capelli erano radi e grigi. Le donnette sugli sgabelli smisero di chiacchierare al suo passaggio e si concentrarono. Faceva un leggero tintinnio nel muoversi: era il solo rumore.
«Mi voleva?» chiese.
«Lei mi voleva,» disse il Ragazzo, «ho ricevuto la sua lettera.»
«Ma come,» disse il signor Colleoni, gesticolando lievemente con le mani in segno di stupore, «saresti tu il signor P. Brown?» e spiegò: «Mi aspettavo una persona assai più vecchia.»
«Mi voleva,» ripeté il Ragazzo.
Gli occhietti simili ad uva secca l’osservarono da capo a piedi: il vestito ripulito e le spalle strette, le scarpe nere da poco prezzo. «Credevo che il signor Kite...»
«Kite è morto,» disse il Ragazzo. «Lo sa.»
«Me l’ero dimenticato,» disse il signor Colleoni. «Naturalmente questo cambia le cose.»
«Può parlare con me,» disse il Ragazzo, «invece che con Kite.»
Il signor Colleoni sorrise. «Non credo che sia necessario.»
«Sarebbe meglio,» disse il Ragazzo. Cascatine di risate giunsero dal bar americano insieme al cinkcinkcink del ghiaccio. Un ragazzetto in livrea uscì dalla sala di scrittura stile Luigi XVI e chiamò «Sir Giuseppe Montague, Sir Giuseppe Montague,» poi passò nel salottino Pompadour. La chiazza di umido, dove il ferro di Frank non era passato, al disopra del taschino laterale sul petto del Ragazzo, stava lentamente svanendo nell’aria calda del Cosmopolitan.
Il signor Colleoni tese una mano e gli diede un colpettino sul braccio. «Vieni con me,» disse. Lo precedette, passando in punta di piedi oltre gli sgabelli, su cui le ebree parlavano sottovoce, oltre un tavolino, dove un uomo stava dicendo «Gli dissi che potevo arrivare al massimo a diecimila» a un vecchio signore seduto con gli occhi chiusi accanto a una tazza di tè che si raffreddava. Il signor Colleoni gettò un’occhiata al disopra della spalla e disse in tono gentile: «Il servizio qui non è più quello di una volta.»
Si affacciò alla sala di scrittura stile Luigi XVI. Una donna vestita in color malva, con un cappello a tiara che non le donava, stava scrivendo una lettera in una scrittura tutta a svolazzi che sembravano dei caratteri cinesi. Il signor Colleoni si ritrasse. «Andiamo dove ci sia possibile chiacchierare in pace,» disse e rifece in punta di piedi tutto il vestibolo. Il vecchio signore aveva aperto gli occhi e stava provando con il dito la temperatura del suo tè. Il signor Colleoni si diresse verso la gabbia dorata dell’ascensore. «Numero quindici,» disse. A guisa di angeli salirono verso la pace.
«Un sigaro?» chiese il signor Colleoni.
«Non fumo,» disse il Ragazzo. Dal basso, prima che i cancelli si richiudessero, giunsero un ultimo strillo allegro dal bar americano e l’ultima sillaba del ragazzetto in livrea che riusciva dal salottino Pompadour «gue,» ed essi si trovarono nel corridoio ovattato, impenetrabile ai suoni. Il signor Colleoni si fermò e accese un sigaro.
«Mi faccia un po’ vedere quell’accendisigari,» disse il Ragazzo.
Gli occhietti furbi del signor Colleoni brillarono in modo inespressivo sotto la luce elettrica celata e diffusa. Lo porse. Il Ragazzo lo capovolse e cercò il bollo.
«Oro vero,» disse.
«Mi piacciono le cose belle,» disse il signor Colleoni, aprendo una porta. «Siediti.» Le poltrone, delle poltrone imponenti di velluto rosso con impresse delle corone in filo d’oro e d’argento, erano poste di fronte alle ampie finestre aperte sul mare e ai balconi di ferro battuto. «Bevi qualcosa.»
«Non bevo,» disse il Ragazzo.
«Ed ora,» disse il signor Colleoni, «chi ti ha mandato?»
«Nessuno mi ha mandato.»
«Voglio dire, chi dirige la vostra banda, ora che Kite è morto?»
«La dirigo io,» disse il Ragazzo.
Il signor Colleoni soffocò educatamente un sorrisetto, battendosi leggermente l’unghia del pollice con l’accendisigari d’oro.
«Che è successo a Kite?»
«La storia la conosce,» disse il Ragazzo. Fissò gli occhi sulle corone napoleoniche, sul filo argenteo. «Non vorrà sentirne di nuovo i particolari. Non sarebbe successo, se non si fossero messi contro a noi. Un giornalista credeva di potere farcela.»
«Quale giornalista era mai?»
«Dovrebbe leggere le inchieste,» disse il Ragazzo, guardando fuori, attraverso la finestra, l’arco pallido del cielo, su cui si stagliavano alcune nuvole leggere.
Il signor Colleoni fissò la cenere del suo sigaro: era lunga mezzo pollice. Si sprofondò nella poltrona e incrociò le cosce pienotte con aria soddisfatta.
«Non che voglia difendere Kite,» disse il Ragazzo. «Era uscito dal proprio campo.»
«Vuoi dire,» disse il signor Colleoni, «che voi non vi interessate alle macchine automatiche?»
«Voglio dire,» disse il Ragazzo, «che uscire dal proprio campo non fa bene alla salute.»
Una sottile ondata di profumo muschiato si diffuse nella stanza dal fazzoletto riposto nel taschino del signor Colleoni.
«Potrebbe essere lei ad avere bisogno di protezione,» disse il Ragazzo.
«Ho tutta la protezione che mi è necessaria,» disse il signor Colleoni. Chiuse gli occhi: era tranquillo: il grande albergo per persone ricche lo avvolgeva: si sentiva in casa propria. Il Ragazzo stava seduto sull’orlo della poltrona, perché pensava che nelle ore di lavoro non ci si deve lasciar andare: era lui che sembrava il forestiero in quella stanza, non il signor Colleoni.
«Stai perdendo il tempo, ragazzo mio,» disse il signor Colleoni. «Non mi puoi fare nessun male.» Ebbe un risolino gentile. «Se però vuoi un’occupazione, vieni da me. Mi piace di aiutare. Credo che ti potrei trovare del lavoro. Il mondo ha bisogno di gente giovane ed energica.» La mano con il sigaro si muoveva con gesti ampi, delineando un Mondo come il signor Colleoni se lo raffigurava: un mucchio di piccoli orologi elettrici controllati da Greenwich, dei bottoni su un tavolo, un bell’appartamento al primo piano, dei conti correnti controllati, dei rapporti di agenti, argenterie, servizi da tavola, specchi.
«Lo vedrò alle corse,» disse il Ragazzo.
«Difficilmente,» rispose il signor Colleoni, «non sono stato a una corsa di cavalli da, vediamo un po’, devono essere venti anni.» Non c’era un solo punto, che egli sembrasse indicare con l’accendisigari d’oro, in cui i loro mondi si toccassero: il riposo domenicale al Cosmopolitan, il dittafono portatile accanto alla scrivania non avevano la minima connessione con Kite sfregiato da rasoi sotto la pensilina di una stazione, la mano pustolosa contro il cielo che dalla tribuna faceva dei segnali all’allibratore, il caldo, la polvere che s’innalzava sopra il recinto a prezzi popolari, l’odore di birra in bottiglia.
«Non sono che un uomo d’affari,» spiegava dolcemente il signor Colleoni, «non ho bisogno di vedere delle corse. E nulla di quello che voi potreste fare ai miei uomini mi potrebbe toccare. Ne ho due adesso all’ospedale. Non importa. Sono circondati da ogni cura, fiori, uva... Posso permettermelo. Non ho da preoccuparmene. Sono un uomo d’affari,» continuava a dire il signor Colleoni in tono espansivo e di buon umore. «Mi piaci. Sei un giovanottello promettente. Ecco perché ti parlo come un padre. Non potete fare del male a una ditta come la mia.»
«Potrei fare del male a lei,» disse il Ragazzo.
«Non ci guadagneresti. Non potresti trovare nessun alibi inventato. Sarebbero i tuoi testimoni ad avere paura. Sono un uomo d’affari.»
Gli occhi di uva secca si socchiusero per il sole che entrava di sghimbescio sopra un vaso di fiori e ricadeva sul tappeto morbido. «Napoleone III aveva sempre questa stanza,» disse il signor Colleoni, «ed Eugenia.»
«Chi era?»
«Oh,» disse vagamente il signor Colleoni, «una bella donnetta straniera.»
Colse un fiore e se lo mise all’occhiello, e un che di sensuale trapelò dagli occhi simili a bottoni neri, un ricordo dell’harem.
«Me ne andrò,» disse il Ragazzo. Si alzò e si diresse verso la porta.
«Mi hai capito, nevvero?» Il signor Colleoni lo disse senza muoversi: con la mano perfettamente immobile, tenne la cenere del sigaro, ora di nuovo assai lunga, sospesa nell’aria. «Brewer si è lamentato. Non fatelo di nuovo. E Tate... non cercate di fare degli scherzi a Tate.» La sua vecchia faccia semitica non dimostrava altre emozioni che un blando godimento, una blanda cordialità. Ma d’un tratto, mentre era lì seduto nella lussuosa stanza vittoriana, con l’accendisigari d’oro in tasca e il portasigarette nel grembo, diede l’impressione che potrebbe dare un uomo che possedesse il mondo intero, cioè tutto il mondo visibile, i libri di cassa e i poliziotti e le prostitute, il Parlamento e le leggi che dicono: «Questo è giusto e questo non è giusto.»
«Ho capito perfettamente,» disse il Ragazzo. «Lei ritiene che la nostra banda non sia abbastanza importante.»
«Io mi valgo di moltissime persone,» disse il signor Colleoni.
Il Ragazzo richiuse la porta: la stringa slacciata di una scarpa ticchettava nello scendere dabbasso: il vasto vestibolo sembrava quasi vuoto: un signore in pantaloni a sbuffo aspettava una ragazza. Il mondo visibile era tutto del signor Colleoni. La macchia sul petto del Ragazzo, dove il ferro non era passato, era ancora un pochino umida.
Una mano gli toccò il braccio. Si guardò attorno e riconobbe il signore in cappello duro. Fece un cenno riservato col capo: «‘ngiorno.»
«Da Frank mi hanno detto che eri venuto qui,» disse l’uomo.
Il cuore del Ragazzo si arrestò per un istante: quasi per la prima volta gli si presentò alla mente la possibilità che la legge potesse impiccarlo, portarlo fuori in un campo, gettarlo in un pozzo, seppellirlo nel fango, porre fine al grande futuro...
«Mi cercavi?»
«Precisamente.»
Pensò: Rosa, la ragazza, qualcuno che aveva fatto delle domande. La memoria lo riportò indietro: si rammentò che ella lo aveva sorpreso, mentre con la mano sotto la tavola tastava cercando qualche cosa. Ebbe un sorriso forzato e disse: «Perbacco, peccato che non abbiano mandato i Quattro Grandi.»
«Niente in contrario a venire un po’ alla sezione di polizia?»
«C’è una denunzia?»
«C’è soltanto Brewer che ti accusa di averlo colpito. Hai lasciato la tua impronta.»
Il Ragazzo incominciò a ridere. «Brewer? Io? Non lo toccherei di certo.»
«Vieni un po’ dall’ispettore.»
«Certamente.»
Uscirono sul viale. Un fotografo da strada li vide venire e tolse il cappuccio al suo apparecchio. Il Ragazzo si mise le mani sul volto e continuò a camminare. «Dovreste far smettere queste cose,» disse. «Sarebbe stato proprio bello vedere una fotografia formato cartolina esposta sul molo. Tu ed io che camminiamo verso la sezione di polizia.»
«Con una di quelle fotografie istantanee una volta hanno acchiappato in città un assassino.»
«L’avevo letto,» disse il Ragazzo e divenne silenzioso. C’è lo zampino di Colleoni, pensava, vuole far vedere quello che può fare: ha spinto lui Brewer su questa via.
«La moglie di Brewer sta piuttosto male, così dicono,» osservò tranquillamente il poliziotto.
«Davvero?» osservò il Ragazzo. «Non saprei.»
«L’alibi è pronto, immagino?»
«Come posso saperlo? Non so quando ha detto che l’ho colpito. Un povero diavolo non può avere un alibi per ogni minuto della giornata.»
«Sei un ragazzino sveglio,» disse il poliziotto, «ma non devi preoccuparti per questo. L’ispettore vuole soltanto chiacchierare amichevolmente con te, ecco tutto.»
Lo precedette nell’ufficio della sezione. Un uomo dal viso stanco e maturo era seduto dietro uno scrittoio. «Siediti, Brown,» disse. Aprì un portasigarette e glielo porse. «Non fumo,» rispose il Ragazzo. Si sedette e osservò l’ispettore, stando in guardia. «C’è una denunzia?»
«Non c’è nessuna denunzia,» disse l’ispettore. «Brewer ci ha ripensato.» Fece una pausa. Appariva più stanco che mai. Disse: «Per una volta tanto voglio parlarti chiaramente. Noi sappiamo l’uno dell’altro più di quanto non diciamo. Non voglio entrarci fra te e Brewer: ho delle cose più importanti che impedire a te e Brewer di litigarvi. Ma sai altrettanto bene quanto me che Brewer non sarebbe venuto qua a lamentarsi, se non vi fosse stato spinto.»
«Non è che vi manchino le idee.»
«Spinto da una persona che non ha paura della vostra banda.»
«Non c’è molto che riesca a sfuggire ai poliziotti,» disse il Ragazzo, con una smorfia di derisione.
«Le corse hanno inizio la settimana ventura e non voglio che a Brighton ci sia nessuna grossa zuffa fra bande. Non m’importa se vi scannerete tranquillamente a vicenda, non darei un centesimo per le vostre pellacce spregevoli, ma quando due bande incominciano ad azzuffarsi, può andarci di mezzo della gente che importa.»
«Ossia?» domandò il Ragazzo.
«Ossia della gente per bene e innocente. Della povera gente che alle corse è andata per scommettere uno scellino al totalizzatore. Impiegati, serve, marinai. Gente che neanche da morta vorrebbe essere vista a parlare con te o con Colleoni.»
«A che volete arrivare?» chiese il Ragazzo.
«Voglio arrivare a questo. Non sei abbastanza forte per quello che vuoi fare, Brown. Non puoi metterti contro Colleoni. Se vi azzufferete, io piomberò con tutto il mio peso su tutti e due – ma sarà Colleoni che troverà gli alibi. Nessuno ti fornirà un alibi contro Colleoni. Segui il mio consiglio. Fila via da Brighton.»
«Bello,» disse il Ragazzo. «Uno della polizia che fa le parti di Colleoni in sua vece.»
«Questo è un consiglio privato e non ufficiale,» disse l’ispettore. «Una volta tanto sono umano. Non m’importa se sarai tu o sarà Colleoni ad essere sfregiato, ma non voglio che ci vadano di mezzo degli innocenti, se riesco ad impedirlo.»
«Mi credete finito?» disse il Ragazzo. Sorrise con aria inquieta, sfuggendo con lo sguardo verso le pareti ricoperte di manifesti: Permessi per cani, Permessi di porto d’armi, Trovato annegato. Un viso di morto, gessoso da non essere più naturale, – dei capelli arruffati, una cicatrice accanto alla bocca, – lo guardava dalla parete e s’incontrò coi suoi occhi. «Credete che Colleoni manterrà meglio la pace?» Poteva leggere la dicitura: un orologio di nickel, panciotto di stoffa grigia, camicia a righe blu, farsetto di maglia a rete, mutande di maglia a rete!
«Ebbene?»
«È un consiglio prezioso,» disse il Ragazzo, guardando con un sorriso sardonico lo scrittoio lucido, la scatola di sigarette, il fermacarte di cristallo. «Ci penserò. Sono giovane per ritirarmi.»
«Se lo vuoi sapere, sei troppo giovane per essere a capo di una banda.»
«E così Brewer non mi denunzierà?»
«Non è che abbia paura di farlo. Sono io che l’ho convinto. Volevo avere l’occasione di parlarti direttamente.»
«Ebbene,» disse il Ragazzo, alzandosi in piedi, «può darsi che ci rivediamo, e può darsi di no.» Sogghignò di nuovo, attraversando l’ufficio, ma una chiazza rossa spiccava su ogni guancia. Si sentiva del veleno nel sangue, se pure sogghignava e lo sopportava. Era stato insultato. Avrebbe fatto vedere al mondo. Credevano che perché egli aveva solamente diciassette anni... Scosse le spalle strette al pensiero che egli aveva ucciso il suo uomo, mentre questi poliziotti, che credevano di essere furbi, non lo erano abbastanza per scoprirlo. Si trascinava dietro il nimbo della sua gloria: sin dall’infanzia l’inferno era stato in lui.
Era pronto per altre morti.