Capitolo secondo
Il Ragazzo aspettava in fondo alle scale. Dinanzi a lui si ergeva come un’ombra il grande palazzo del Municipio – ufficio nascite e ufficio morti, uffici per permessi di circolazione, imposte e tasse, e ad un certo punto di un lungo corridoio, la sala dei matrimoni. Guardò l’orologio e disse al signor Prewitt: «Che Dio la maledica, è in ritardo.»
Il signor Prewitt rispose: «È il privilegio di una sposa.»
La sposa e lo sposo: la cavalla e lo stallone che le serviva: come una lima sul ferro e lo sfiorare di un velluto sopra una mano dolente. Il Ragazzo disse: «Io e Dallow le andremo incontro.»
Il signor Prewitt lo richiamò: «E se venisse da un’altra parte, se non vi incontraste... io aspetterò qui.»
Svoltarono a sinistra, lasciando la via degli uffici. «Non è questa la strada,» disse Dallow.
«Non abbiamo nessun dovere di aspettarla,» disse il Ragazzo.
«Non puoi filartela ora.»
«E chi ci pensa? Posso fare quattro passi, no?» Si fermò per guardare nella vetrina di una piccola agenzia di informazioni degli apparecchi riceventi a due valvole – dappertutto la stessa volgarità.
«Visto Cubitt?» chiese, continuando a guardare.
«No,» disse Dallow, «e neppure nessuno dei ragazzi.»
I giornali quotidiani e locali, un cartellone colmo di notizie: Scena alla riunione del Consiglio. Una donna trovata annegata a Black Rock. Collisione in Clarence Street: un giornale di avventure, una copia del giornale «Film»: dietro i calamai e le penne stilografiche e i piatti di carta per le merende all’aperto e quei giocattolini osceni, le opere di noti studiosi di sessologia. Il Ragazzo continuava a guardare.
«Lo so quello che provi,» disse Dallow. «Anch’io mi sono sposato una volta. È qualcosa che ti prende allo stomaco. I nervi. Perbacco,» continuò Dallow, «andai persino a comperarmi uno di quei libri lì, ma non mi dissero niente che non conoscessi già. Ad eccezione di quanto riguarda i fiori. I pistilli dei fiori. Non crederesti mai le buffe cose che avvengono tra i fiori.»
Il Ragazzo si girò e aperse la bocca per parlare, ma di nuovo i denti gli si strinsero. Fissò su Dallow uno sguardo di invocazione e di orrore. Se Kite fosse stato qui – pensò, – avrebbe potuto dirgli – ma se Kite fosse stato qui, non avrebbe avuto bisogno di dirgli... Non si sarebbe mai trovato tanto impegolato.
«Le api,» Dallow incominciò a spiegare e s’interruppe. «Che c’è, Rossetto? Si direbbe che non stai troppo bene.»
«So benissimo le regole,» disse il Ragazzo.
«Quali regole?»
«Non hai bisogno di insegnarmi le regole,» proseguì il Ragazzo in uno scoppio d’ira. «Sono stato a guardarli il sabato sera, lo sai? mentre sobbalzavano e si affaticavano.» Socchiuse gli occhi, come se avesse dinanzi a sé una visione orrenda. Disse a voce bassa: «Quando ero bambino, avevo giurato di farmi prete.»
«Prete? Tu, prete? Questa è buona,» disse Dallow e rise senza convinzione, muovendo un piede in modo così maldestro da piantarlo nell’escremento di un cane.
«Che c’è di male nell’essere un prete?» chiese il Ragazzo. «Conoscono bene le cose. Si tengono lontani...» Bocca e mascella si rilassarono: si sarebbe detto che stava per piangere: e furiosamente agitò le mani in direzione della vetrina – la donna trovata annegata, le due valvole, la «Passione coniugale», l’orrore – «da questo.»
«Che c’è di male a divertirsi un poco?» Dallow lo rimbeccò, sfregandosi la scarpa contro l’orlo del marciapiede. La parola «divertirsi,» fece tremare il Ragazzo come un accesso di malaria. Disse: «Non avrai per caso conosciuto Annetta Collins, no?»
«Mai sentita nominare.»
«Veniva alla stessa mia scuola,» continuò il Ragazzo. Gettò un’occhiata lungo la strada grigia, poi di nuovo il vetro dinanzi a «Passione coniugale» rifletté il suo viso giovane e disperato. «Ha messo la testa sul binario,» disse «su, nei pressi di Hassocks. Ha dovuto aspettare dieci minuti per il treno delle sette e cinque. La nebbia lo aveva fatto partire in ritardo dalla stazione di Victoria. La testa tagliata. Aveva quindici anni. Stava per avere un bambino e sapeva che cosa voleva dire. Ne aveva avuto uno due anni prima, e avrebbero potuto attribuirlo a una dozzina almeno di ragazzi.»
«Capita,» disse Dallow. «È l’incerto del gioco.»
«Ho letto dei romanzi d’amore,» disse il Ragazzo. Non era mai stato tanto verboso prima d’ora, mentre stava lì a guardare i piatti di carta dai bordi increspati e l’apparecchio a due valvole: la raffinatezza e la volgarità. «La moglie di Frank li legge. Conosci il genere. Lady Angelina volse i suoi occhi scintillanti verso Sir Marco. Mi dànno la nausea. Più ancora di quell’altro genere,» Dallow osservava stupito questa improvvisa verbosità ispirata dall’orrore, «il genere che si compra sotto il banco. Spicer aveva l’abitudine di prenderne. Sulle ragazze battute. Piena di vergogna di doversi così mettere in mostra dinanzi ai ragazzi, ella si chinò... È sempre la stessa roba,» disse, distogliendo gli occhi avvelenati dalla vetrina, e volgendoli da un estremo all’altro della lunga strada miserabile: una puzza di pesce, il marciapiede ricoperto di segatura sotto le lische.
«È l’amore,» disse con un sogghigno privo di allegria, «È divertirsi, è il gioco.»
«Il mondo deve pure andare avanti,» disse imbarazzato Dallow.
«Perché?» chiese il Ragazzo.
«Non hai bisogno di chiedermelo,» disse Dallow. «Ne sai più di me. Sei un cattolico romano, no? Credi...»
«Credo in unum Satanum,» disse il Ragazzo.
«Non so il latino. So soltanto...»
«Via,» disse il Ragazzo, «sentiamolo, il credo di Dallow.»
«Il mondo va bene, se non ci si spinge troppo lontano.»
«Tutto qui?»
«È l’ora di andare dal funzionario di stato civile. Senti l’orologio, batte adesso le due.»
Un gruppo di campane cessò di suonare a distesa e incominciò a segnare: uno, due... Tutto il viso del Ragazzo si distese di nuovo: egli mise la mano sul braccio di Dallow: «Sei un brav’uomo, Dallow. Sai un sacco di cose. Dimmi...» La mano ricadde. Egli guardò al di là di Dallow lungo la via, disse disperato: «Eccola qui. Come mai viene da questa strada?»
«E non si sta neppure affrettando,» commentò Dallow, osservando la minuta figurina che si avvicinava lentamente. A quella distanza non dimostrava neppure la sua età. Disse: «A pensarci bene, è stato prudente Prewitt nel volere il permesso.»
«Il consenso dei genitori,» precisò il Ragazzo con voce sorda. «Meglio per la moralità.» Guardava la ragazza come una sconosciuta, con cui si dovesse incontrare. «E poi, vedi, abbiamo avuto un colpo di fortuna. Non ero iscritto all’anagrafe. Non hanno potuto trovarmi in nessun posto. Hanno aggiunto un anno o due. Nessun genitore. Nessun tutore. È stata una storia commovente inventata dal vecchio Prewitt.»
Si era aggiustata per il matrimonio, rinunciando al vecchio cappello che a lui non piaceva: un nuovo impermeabile, un pochino di cipria e un rossetto da poco prezzo sulle labbra. Sembrava una delle statuette di cattivo gusto in una brutta chiesa: non sarebbe parso strano di vederle addosso una corona di carta o un cuore dipinto: si poteva pregarla, ma senza aspettarne una risposta.
«Dove sei stata?» chiese il Ragazzo. «Non sai di essere in ritardo?»
Non si diedero neppure la mano. Qualcosa di terribilmente cerimonioso sorse fra di loro.
«Mi spiace, Rossetto. Vedi» – ella addusse il fatto con vergogna, come se ammettesse di avere avuto un colloquio con un nemico del Ragazzo – «sono andata in chiesa.»
«A far che?» egli domandò.
«Non so, Rossetto. Ero disorientata. Pensavo di dovere andare a confessarmi.»
Egli le ghignò in faccia. «Confessarti? Questa è buona.»
«Vedi, volevo – credevo...»
«Per Cristo, che cosa?»
«Volevo essere in istato di grazia per sposarti.» Ella non aveva accordato nessuna attenzione a Dallow. I termini teologici risuonavano strani e pedanti nella sua bocca. Erano due cattolici romani riuniti nella via grigia. Si capivano a vicenda. Ella si serviva di parole comuni al paradiso e all’inferno.
«E lo hai fatto?» domandò il Ragazzo.
«No. Sono andata e ho suonato il campanello e chiesto di Padre Giacomo. Poi mi sono ricordata. Non serviva a nulla confessarmi. Me ne sono venuta via.» E aggiunse, divisa fra il timore e l’orgoglio: «Stiamo per commettere un peccato mortale.»
Il Ragazzo disse, in tono amaro ed infelice: «Non servirà mai più a nulla di andare a confessarci – finché saremo vivi tutti e due.»
Aveva progredito in fatto di sofferenza: prima aveva lasciato dietro a sé i compassi, poi il rasoio. Ora ebbe la sensazione che le uccisioni di Hale e di Spicer fossero delle cose da nulla, un gioco da ragazzi, e che egli avesse rinunciato alle cose infantili. L’assassinio non aveva portato che a questo – questa corruzione. Fu pervaso da reverenza per il suo stesso potere. «Faremmo meglio ad andare,» disse e le toccò il braccio quasi con tenerezza. Come già un’altra volta, ebbe la sensazione di avere bisogno di lei.
Il signor Prewitt li salutò con un’allegria di circostanza. Si sarebbe detto che tutti i suoi scherzi fossero pronunciati in tribunale, per un secondo motivo, in modo da attirare l’attenzione del giudice. Nella grande sala d’aspetto del municipio, da cui partivano i corridoi che conducevano alle nascite e alle morti, c’era odore di disinfettante. Le pareti erano ricoperte di mattonelle come una ritirata pubblica. Qualcuno aveva lasciato cadere una rosa. Il signor Prewitt citò pronto, se pure poco esattamente: «Rose, rose su tutto il cammino, e mai un ramoscello di tasso.» Con mano molle e falsa guidò il Ragazzo, prendendolo per il gomito. «No, no, non da quella parte. Lì sono le tasse. Vengono poi.» Li precedette su per un grande scalone di pietra. Un impiegato li oltrepassò recando dei moduli stampati.
«E a che sta pensando questa giovane signora?» chiese il signor Prewitt; ella non gli rispose.
Soltanto alla sposa e allo sposo era concesso di salire i gradini del santuario, di inginocchiarsi dentro il sacro recinto con il sacerdote e l’Ostia consacrata.
«Verranno i genitori?» chiese il signor Prewitt. Ella scosse il capo. «L’importante è,» continuò il signor Prewitt, «di fare in fretta. Non c’è che da firmare lungo la linea punteggiata. Sedetevi qui. Sapete, dobbiamo aspettare il nostro turno.»
Si sedettero. In un angolo c’era una scopa appoggiata alla parete a mattonelle. Si sentiva il rumore dei passi di un impiegato sul pavimento gelido in un altro corridoio. A un tratto una grande porta marrone si aprì: videro nell’interno una fila di impiegati che non alzarono il capo: un uomo e sua moglie uscirono nel corridoio. Una donna li seguì e afferrò la scopa. L’uomo – era di mezza età – disse «grazie,» le diede sei pence. Disse ancora: «Dopo tutto faremo a tempo a prendere il treno delle tre e un quarto.» Sul viso della donna c’era un’espressione di vago stupore, di sgomento, nulla di ben definito come una delusione. Aveva un cappello marrone e portava una valigetta. Anche lei era di mezza età. Forse si stava chiedendo: «È tutto qui, dopo tutti questi anni?» Scesero il grande scalone, camminando un poco discosti, come degli sconosciuti in un magazzino.
«Ora tocca a noi,» disse il signor Prewitt, alzandosi in fretta. Li precedette attraverso la camera, in cui lavoravano gli impiegati. Nessuno si disturbò ad alzare gli occhi. I pennini continuarono a scrivere delle cifre eguali. Il funzionario di stato civile li aspettava in una stanzetta interna dalle pareti di color verde come quelle di una clinica: una tavola, tre o quattro seggiole contro la parete. Non così ella si era immaginata un matrimonio – per un istante fu atterrita dalla fredda povertà della cerimonia civile.
«Buongiorno,» disse il funzionario. «Se i signori testimoni vogliono sedersi – si siedano loro due –» fece loro cenno di avvicinarsi alla tavola e li osservò con aria d’importanza attraverso le lenti dal bordo dorato: pareva che si considerasse quasi un sacerdote. Il cuore del Ragazzo batté forte: lo nauseava la realtà del momento. Aveva un’espressione ottusa e di cattivo umore.
«Siete tutti e due molto giovani,» disse il funzionario.
«È una cosa decisa,» disse il Ragazzo. «Non avete nulla da dire. È una cosa decisa.»
Il funzionario gli gettò uno sguardo di forte antipatia, disse: «Ripetete dopo di me,» e poi proseguì troppo in fretta: «Dichiaro solennemente di non conoscere nessun impedimento legale,» in modo che il Ragazzo non riuscì a tenergli dietro. Il funzionario disse brusco: «È semplicissimo: non avete che da ripetere dopo di me...»
«Andate più adagio,» disse il Ragazzo. Avrebbe voluto mettere la mano sulla fretta e spezzarla, ma invece andava avanti: in pochissimo tempo, questione di secondi, si trovò a ripetere la seconda formula: “la mia legittima moglie.” Cercò di pronunciarla in tono noncurante, tenendo gli occhi lontani da Rosa, ma le parole erano pregne di vergogna.
«Non avete l’anello?» chiese brusco il funzionario.
«Non abbiamo bisogno di anelli,» disse il Ragazzo. «Questa non è una chiesa,» e sentiva che non avrebbe mai potuto togliersi dalla memoria la fredda camera verde e il viso con le lenti. Udì Rosa che al suo fianco ripeteva: «Invito le persone qui presenti a testimoniare...» e poi la parola «marito» e bruscamente le rivolse uno sguardo. Se le avesse visto un barlume di compiacenza sul viso, lo avrebbe colpito. Ma non v’era che sorpresa, come se ella stesse leggendo un libro e fosse giunta troppo presto all’ultima pagina.
Il funzionario disse: «Firmate qui. La tassa è di sette scellini e sei pence.» Aveva la caratteristica aria indifferente di un funzionario, mentre il signor Prewitt si frugava nelle tasche.
«Queste persone,» disse il Ragazzo e rise a scatti. «Cioè voi due, Prewitt e Dallow.» Prese la penna, e il pennino del governo scarabocchiò la pagina, raccogliendo i peluzzi: nei tempi antichi, gli venne in mente, si segnavano dei patti come questi con il proprio sangue. Si ritrasse e stette a guardare Rosa che firmava maldestra – la sicurezza personale di un uomo in cambio di due immortalità di sofferenza. Non aveva alcun dubbio che questo fosse un peccato mortale ed era pervaso da una specie di lugubre ilarità ed orgoglio. Si vide ora come un uomo adulto, per il quale gli angeli piangevano.
«Queste persone» egli ripeté, ignorando del tutto il funzionario. «Andiamo a bere.»
«Ma bene,» disse il signor Prewitt, «ecco una sorpresa per quanto ti riguarda.»
«Oh, Dallow le racconterà,» disse il Ragazzo, «in questi giorni sono diventato un bevitore.» Gettò uno sguardo su Rosa. «Non c’è nulla che io non sia ora,» disse. La prese per il gomito e si diresse verso il corridoio a mattonelle e lo scalone: la scopa era scomparsa e qualcuno aveva raccattato il fiore. Una coppia si alzò in piedi nel vederli uscire: il mercato era animato. Egli disse: «Questo sì che è stato un matrimonio. Impossibile di far meglio. Siamo» – voleva dire «marito e moglie,» ma la sua mente indietreggiò dinanzi alla frase definitiva. «Dobbiamo festeggiarci,» disse e simile a una vecchia parente, su cui si può sempre contare per l’accenno privo di tatto, il cervello continuò «festeggiare che?» ed egli ripensò alla ragazza stesa nella Lancia e alla lunga notte che si avvicinava.
Andarono al bar all’angolo. Era quasi l’ora di chiudere, ed egli offrì pinte di birra e Rosa prese un porto. Ella non aveva più parlato, da quando il funzionario le aveva suggerito le parole da pronunciare. Il signor Prewitt volse un rapido sguardo intorno a sé e riordinò la cartella. Con i suoi pantaloni scuri a righe avrebbe potuto benissimo essere stato a un vero matrimonio. «Beviamo alla sposa,» disse con una lepidità che si afflosciò prudentemente: era come se si fosse provato a scherzare con un magistrato ed avesse fiutato un rabbuffo: rapidamente il viso vecchio si ricompose in un’espressione seria. Disse rispettosamente: «Alla sua felicità, mia cara.»
Ella non rispose: stava guardandosi il volto riflesso in uno specchio che portava scritto “Birra extra forte”: nella nuova cornice, con uno sfondo di rubinetti di birra, appariva un volto strano, che sembrava portare un enorme peso di responsabilità.
«Pagherei per sapere i tuoi pensieri,» le disse Dallow. Il Ragazzo portò alla bocca il bicchiere di birra e l’assaggiò per la seconda volta – il disgusto delle cose che piacevano all’altra gente gli rimase infisso in gola. La guardò con aria bisbetica, mentre ella ricambiava l’occhiata dei due senza parlare; e di nuovo ebbe la coscienza ch’ella lo completava. Egli solo sapeva i suoi pensieri, che trovavano una risonanza invisibile nei propri nervi. Disse con un giubilo velenoso: «Posso dirvi io a che cosa sta pensando. Non tanto al matrimonio, sta pensando. Sta pensando “non è come me lo ero immaginato”. Non è vero?»
Ella assentì, tenendo il bicchiere di porto come se non sapesse il modo di berlo.
«Con il mio corpo ti adoro,» egli incominciò a citarle, «con tutti i miei beni terreni... e poi,» egli disse, volgendosi al signor Prewitt, «le darò una moneta d’oro.»
«È l’ora di chiudere, signori,» disse il barista, riversando dei bicchieri non completamente vuoti nel vascone di zinco, e asciugando con uno strofinaccio spumoso.
«Siamo su nel santuario, non vedete, con il prete...»
«Finiscano di bere, signori.»
Il signor Prewitt disse imbarazzato: «Di fronte alla legge un matrimonio è altrettanto valido quanto l’altro.» Fece un cenno incoraggiante alla ragazza che li stava a guardare con i suoi occhi avidi e immaturi. «È sposata per davvero. Si fidi di me.»
«Sposata?» chiese il Ragazzo. «Lei lo chiama essere sposata?» E sputò la saliva densa di birra.
«Vai adagio,» disse Dallow. «Lasciale una speranza. Non hai bisogno di spingerti troppo avanti.»
«Su, signori, finiscano i bicchieri.»
«Sposata!» ripeté il Ragazzo. «Chiedeteglielo.» I due uomini vuotarono i bicchieri con aria furtiva e scandalizzata e il signor Prewitt disse: «Be’, me ne andrò.»
Il Ragazzo li considerò con disprezzo: non capivano nulla; e di nuovo egli fu consapevole di un debolissimo senso di comunione fra lui e Rosa – anche lei sapeva che questa cerimonia non voleva dire proprio niente, che non era stato un vero matrimonio. Disse con rude gentilezza: «Su, andiamo,» alzò una mano per posarla sul suo braccio – allora vide nello specchio (Birra extra forte) la doppia immagine, e la lasciò ricadere: l’immagine che ricambiava il suo sguardo era quella di una coppia di sposi.
«Dove?» chiese Rosa.
Dove? Non ci aveva pensato – che bisognava portare le mogli in qualche posto – il viaggio di nozze, il soggiorno di fine settimana al mare, il regalo comperato a Margate, che sua madre teneva sul camino: da un mare all’altro, solo una diversità di moli.
«Arrivederci,» disse Dallow: si fermò un istante sulla porta, incontrò gli occhi del Ragazzo, la domanda, l’invocazione, non capì nulla, e filò via, salutando allegramente con la mano dopo il signor Prewitt, lasciandoli soli.
Era come se, nonostante il barista che asciugava i bicchieri, non fossero mai stati soli prima d’ora: non soli per davvero nella stanza da Snow, né sul mare a Peacehaven – non soli come lo erano ora.
«Faremmo meglio ad andarcene,» disse Rosa.
Rimasero lì sul marciapiedi a sentire la porta della “Corona” sbarrarsi dietro di loro – un catenaccio scorrere stridendo: si sentirono come esclusi da un Paradiso Terrestre d’ignoranza. Da questa parte non ci si poteva aspettare che esperienza.
«Andiamo da Frank?» domandò la ragazza. Era uno di quegli istanti di silenzio improvviso, che si fanno nei pomeriggi più pieni: non uno scampanellare di tram, non un sibilo di vapore dalla stazione: uno stormo di uccelli si lanciò insieme nell’aria al disopra dell’Old Steyne, e roteò in alto come se a terra fosse stato commesso un delitto. Egli ripensò con nostalgia alla camera da Frank – sapeva esattamente dove mettere la mano per prendere il denaro nel portasapone, tutto gli era familiare, nulla ignoto; essa condivideva la sua acre verginità.
«No,» disse e ripeté, poiché ricominciavano il rumore, il clangore, il fracasso e le urla del pomeriggio, «no.»
«Dove?»
Sorrise con una malizia disperata – dove si portava una bionda affascinante se non al Cosmopolitan, arrivandovi in pullman alla fine della settimana, o superando la collina in una macchina da corsa color scarlatto? Profumi costosi e pellicce, penetrando nel ristorante come una barca dipinta di fresco, qualcosa di cui poter far pompa in compenso dell’atto notturno. In una lunga occhiata soppesò l’aspetto misero di Rosa, come una mortificazione. «Prenderemo un appartamento,» disse «al Cosmopolitan.»
«No, ma dove – davvero?»
«Te l’ho detto – al Cosmopolitan.» Si adirò. «Credi che non sia da tanto?»
«Tu sì,» ella rispose, «ma non io.»
«Andremo lì,» ripeté. «Posso permettermelo. È il posto che ci vuole. C’era una donna che si chiamava – Ugegna, che ci andava sempre. Ecco perché hanno delle corone sulle poltrone.»
«Chi era?»
«Una pollastrella forestiera.»
«Allora tu ci sei stato?»
«Certo che ci sono stato.»
Improvvisamente ella congiunse le mani in un gesto di eccitazione: «Sogno,» disse e sollevò subito gli occhi per vedere se dopo tutto egli non facesse per scherzo.
Con disinvoltura il Ragazzo disse: «La macchina è in riparazione. Ci arriveremo a piedi e li incaricheremo di far prendere la mia valigia. Dove è la tua?»
«La mia cosa?»
«La tua valigia.»
«Era così rotta, sporca...»
«Non importa,» egli disse continuando a fare lo smargiasso con una specie di disperazione, «ne compreremo un’altra. Dove è la tua roba?»
«Roba...»
«Cristo, quanto sei ottusa,» egli disse. «Voglio dire...» ma il pensiero della notte che gli stava dinanzi gli agghiacciò la lingua. Tirò avanti sul marciapiedi, mentre la luce pomeridiana s’affievoliva sul suo viso.
Ella disse: «Non c’era niente... niente che potessi mettere per sposarti, se non questo. Ho chiesto a quelli un po’ di denaro. Non me lo hanno voluto dare. Vi avevano diritto. Era loro.»
Camminavano sul marciapiede alla distanza di qualche centimetro. Le parole della ragazza tentavano di scalfire la barriera come le zampe di un uccello un’invetriata: egli sentiva che tutto il tempo ella cercava di avvicinarsi a lui: persino la sua umiltà gli parve una trappola. Quella cerimonia rapida e volgare le aveva dato un diritto su di lui. Ella non ne sapeva la ragione: credeva – che Dio le perdonasse! – che egli le volesse bene. Disse rudemente: «Non devi pensare che faremo un viaggio di nozze. Sciocchezze. Sono impegnato. Ho delle cose da fare, ho...» Si interruppe e si voltò verso di lei con una specie di invocazione spaurita – che questo non portasse nessuna differenza: «Dovrò stare via un mucchio di tempo.»
«Aspetterò,» ella rispose. Egli poteva già intravvedere la pazienza della gente povera e sposata da tanto tempo affiorare sotto la sua pelle come una seconda personalità, una figura modesta e insensibile alla vergogna dietro un velo trasparente.
Riuscirono sul lungomare e la sera sembrò indietreggiare un poco: il mare abbagliava gli occhi: ella lo guardò con piacere, come se fosse un altro mare. Egli chiese:
«Che ha detto tuo padre oggi?»
«Non ha detto una parola. È di cattivo umore.»
«E la vecchia?»
«È anche lei di cattivo umore.»
«Però si sono presi il denaro.»
Vennero a fermarsi sul lungomare di fronte al Cosmopolitan e sotto l’enorme massa si riavvicinarono un poco. Egli ricordò il ragazzo che gridava un nome e l’accendisigari d’oro di Colleoni... Disse lentamente e nettamente, spogliandosi di qualsiasi imbarazzo: «Be’, qui dovremmo stare comodi.» Si assestò il colletto spiegazzato, si stirò la giacchetta e raddrizzò le spalle strette in modo poco convincente. «Andiamo.» Ella gli tenne dietro, attraverso la strada, su per l’ampia gradinata. Due vecchie signore erano sedute al sole sulla terrazza in seggiole di canna, tutte avvolte in veli: avevano un’aria di completa sicurezza: quando si parlavano, non si guardavano neppure, ma lasciavano cadere le loro osservazioni nell’aria comprensiva. «Ora Guglielmo...» «Guglielmo mi è sempre piaciuto.» Il Ragazzo fece un rumore non necessario nel salire i gradini, attraversò il vasto androne, dirigendosi verso l’ufficio, con Rosa proprio dietro a lui. Non c’era nessuno. Aspettò furibondo – era un’offesa personale. Un ragazzetto chiamò «signor Pinecoffin, signor Pinecoffin» per tutto il vestibolo. Il Ragazzo aspettava. Un telefono squillò. Quando il portone d’ingresso si aprì di nuovo, essi poterono sentire una delle vecchie signore che diceva: «Fu un gran colpo per Basilio.» Quindi un uomo in nero comparve e chiese:
«In che cosa posso servirli?»
Il Ragazzo disse furioso: «Sono stato qui ad aspettare...»
«Avrebbe dovuto suonare il campanello,» disse freddo l’impiegato e aprì un grosso registro.
«Voglio una stanza,» disse il Ragazzo, «una stanza matrimoniale.»
L’impiegato gettò un’occhiata a Rosa, al disopra di lui, poi voltò una pagina.
«Non abbiamo stanze libere,» disse.
«Non bado alla spesa,» disse il Ragazzo. «Prenderò un appartamento.»
«Non c’è nulla di libero,» disse l’impiegato senza alzare gli occhi.
Il ragazzetto che ritornava con un vassoio si fermò a guardare. Il Ragazzo disse a voce bassa e furiosa: «Non potete impedirmi di venire qui. Il mio denaro vale quanto quello di qualsiasi altro...»
«Senza dubbio,» disse l’impiegato, «ma purtroppo non abbiamo stanze libere.» Voltò la schiena e prese in mano un vasetto di resina indiana.
«Vieni,» disse il Ragazzo a Rosa, «questa bettola puzza.»
Rifece i gradini, passando accanto alle vecchie signore: lagrime di umiliazione gli spuntavano dietro gli occhi. Ebbe il pazzo impulso di gridare a tutta quella gente che non potevano trattarlo a quel modo, che lui era un assassino, che sapeva ammazzare gli uomini e non farsi prendere. Aveva bisogno di vantarsi. Poteva permettersi il lusso di quel posto tanto quanto chiunque altro: aveva una macchina, un avvocato, duecento sterline alla banca...
Rosa disse: «Se avessi avuto l’anello...»
Egli rispose furioso: «Un anello... Che tipo di anello? Non siamo sposati. Non dimenticarlo. Non siamo sposati.» Ma una volta fuori sul marciapiedi si frenò con immensa difficoltà e si ricordò amaramente di avere ancora una parte da fare – non potevano imporre a una moglie di testimoniare, ma nulla poteva impedirlo a una moglie, eccetto – l’amore, la passione fisica – egli pensò con un orrore esacerbato; e voltandosi verso di lei si scusò in modo poco convincente. «Mi fanno arrabbiare,» disse. «Vedi, ti avevo promesso...»
«Non m’importa,» ella disse. E ad un tratto spalancando dei grandi occhi attoniti enunciò la temeraria affermazione: «nulla potrebbe sciupare questa giornata.»
«Bisogna che andiamo in qualche posto,» egli disse.
«Dove vuoi tu – da Frank?»
«Non stasera,» egli disse. «Non voglio avere attorno nessuno dei ragazzi stasera.»
«Troveremo un posto,» ella disse. «Non è ancora scuro.»
Erano queste le ore – quando non c’erano corse, quando non c’era nessuno da vedere per affari – che egli soleva passare disteso sul letto da Frank: mangiando una tavoletta di cioccolato o un pasticcino al salame, guardando il sole spostarsi da un camino all’altro, per poi addormentarsi, svegliarsi, mangiare di nuovo e dormire, quando l’oscurità incominciava a penetrare attraverso la finestra. Poi i ragazzi tornavano con i giornali della sera e la vita riprendeva di nuovo. Ora era disorientato: non sapeva come passare tutto questo tempo, ora che non era più solo.
«Un giorno,» ella disse, «andremo in campagna come abbiamo fatto quella volta...»
Contemplando il mare, faceva sin d’ora dei progetti... egli poteva vedere gli anni avanzarsi dinanzi agli occhi di Rosa, come l’estremità della marea.
«Tutto quello che vuoi,» egli disse.
«Andiamo sul molo,» ella pregò. «Non ci sono stata da quando ci andammo quella notte – ti ricordi?»
«E neppure io,» egli mentì rapido e dolce, pensando a Spicer e all’oscurità e al lampeggiare sul mare – l’inizio di qualcosa di cui egli non avrebbe veduto la fine. Passarono attraverso l’arganello: c’era molta gente in giro: una fila di pescatori alla lenza sorvegliava i sugheri nell’onda densa e verde: l’acqua ondeggiava sotto i loro piedi.
«Conosci quella ragazza?» chiese Rosa. Il Ragazzo girò la testa apaticamente. «Dove?» disse. «Non conosco nessuna ragazza da queste parti.»
«Laggiù,» disse Rosa. «Scommetterei che sta parlando di te.»
Il viso grasso, stupido e coperto di pustolette gli tornò alla memoria, schiacciato contro il vetro come qualche pesce mostruoso di un acquario – pericoloso – un tipo di razza di un altro oceano. Fred le aveva parlato ed egli si era avvicinato a loro sul lungomare: ella aveva fatto una deposizione – non riusciva a ricordarsi che cosa avesse detto – nulla di importante. Ora lo osservava, richiamava l’attenzione della sua amica dalla faccia pastosa, parlava di lui, diceva chissà quante bugie. Cristo! pensò, avrebbe dovuto massacrare un mondo intero?
«Quella ti conosce,» disse Rosa.
«Non l’ho mai vista,» egli mentì, continuando a camminare.
Rosa disse: «È magnifico essere con te. Ognuno ti conosce. Non avrei mai pensato di sposarmi con una persona famosa.»
Chi ancora, egli si chiese, chi ancora? Un pescatore si tirò indietro sul loro cammino per lanciare la lenza facendola roteare e la scagliò lontano: il sughero fu preso nella schiuma di un’onda e spinto con tutta la lenza verso la spiaggia. Dal lato in ombra del molo faceva freddo: da una parte della parete divisoria di vetro era giorno, dall’altra tardo crepuscolo. «Passiamo al di là,» egli disse. Ricominciò a pensare alla ragazza di Spicer: perché l’aveva lasciata nella macchina? Dio la maledicesse, dopo tutto, quella lì conosceva il gioco.
Rosa lo fermò. «Guarda,» disse, «non vuoi darmi una di quelle cose lì? Come ricordo. Non costano molto, soltanto sei pence.» Era una scatoletta di vetro, come una piccola cabina telefonica. “Fate un disco con la vostra voce”, c’era scritto sopra.
«Ma va’,» egli disse, «non essere sentimentale. A che può servire?»
Per la seconda volta si trovò di fronte a un improvviso risentimento di irresponsabile. Era sentimentale, era docile, era stupida – e poi d’un tratto diventava pericolosa. Per un cappello, per un disco di grammofono. «Benissimo,» disse, «vattene. Non mi hai mai dato nulla. Neppure oggi non mi hai dato nulla. Se non mi vuoi, perché non te ne vai? Perché non mi lasci stare?» La gente si voltò a guardarli – a guardare il viso acido e adirato di lui, il risentimento disperato di lei. «Perché mai mi vuoi?» gli gridò.
«Per Cristo...,» egli disse.
«Mi affogherei piuttosto,» ella incominciò, ma egli la interruppe: «E prenditi il tuo disco.» Sorrise nervosamente. «Credevo che tu diventassi matta,» le disse. «Perché mai mi vuoi sentire in un disco? Non mi dovrai sentire ogni giorno?» Le strinse il braccio. «Sei una brava ragazza. Non voglio rifiutarti nulla. Potrai avere tutto quello che vuoi!» E pensava: “Mi farà fare quello che vuole lei... fino a quando?” «Non pensavi mica quelle cose che hai detto ora, vero?» la blandì. E il suo viso si corrugò come quello di un vecchio nello sforzo di essere gentile.
«Mi ha preso una cosa,» ella rispose, evitando i suoi occhi, con un’espressione che non gli riuscì di decifrare, oscura e piena di disperazione.
Si sentì rassicurato – ma riluttante. Non gli piaceva l’idea di mettere qualcosa in un disco: gli faceva venire in mente le impronte digitali. «Realmente,» le chiese, «vuoi che io compri una di quelle robe lì? Non abbiamo neanche un grammofono. Non potrai sentirlo. A che ti servirà?»
«Non ho bisogno di un grammofono,» ella disse. «Voglio soltanto averlo lì. Forse un giorno tu potresti essere in qualche posto lontano ed io potrei farmi imprestare un grammofono. E tu parleresti,» continuò, con una improvvisa passione che lo spaventò.
«Che vuoi che io dica?»
«Basta qualche cosa,» ella disse. «Dimmi qualcosa. Di’ Rosa – e qualche altra cosa.»
Entrò nella cabina e chiuse la porta. C’era una fessura per mettervi i sei pence: un microfono e l’istruzione: “Parlate chiaramente e vicino all’apparecchio”. Tutti quegli aggeggi scientifici lo resero nervoso: guardò al disopra della spalla e lì fuori, eccola ad osservare, senza un sorriso. La guardò come si può guardare una persona sconosciuta: una ragazzina malvestita di Nelson Place, e fu preso da uno spaventoso risentimento. Introdusse i sei pence, e parlando a voce bassa per paura che si potesse sentire al di là della cabina, pronunciò il messaggio che sarebbe rimasto impresso sulla vulcanite: «Che Dio ti maledica, cagnetta, perché non puoi tornartene a casa tua per sempre e lasciarmi in pace?» Sentì l’ago che incideva e il disco che girava: poi un clic e il silenzio.
Portando seco il disco nero, la raggiunse fuori: «Ecco,» disse, «prendilo. Ci ho messo qualche cosa d’affettuoso.»
Rosa lo prese con cura dalle sue mani, lo portò come qualcosa da dovere difendere dalla folla. Anche dal lato soleggiato del molo incominciava a fare freddo: e il freddo piombò su di loro come un’affermazione irresistibile – ora sarebbe meglio che andaste a casa. Ebbe la sensazione di sfuggire a quello che era il suo vero lavoro – avrebbe dovuto essere a scuola, ma non aveva imparato la lezione. Passarono attraverso l’arganello, ed egli la seguì con la coda dell’occhio per vedere che cosa ella si aspettasse ora: se avesse dato qualche segno di eccitazione, l’avrebbe schiaffeggiata. Ma si teneva stretta il disco, altrettanto infreddolita quanto lui.
«Ebbene,» egli disse «dobbiamo andare in qualche posto.»
Ella designò col dito la scala che conduceva alla passeggiata coperta sotto il molo. «Andiamo lì,» disse, «lì è riparato.»
Il Ragazzo la esaminò con aria brusca: era come se deliberatamente ella gli avesse imposto una prova. Per un momento esitò: poi le sorrise sardonico: «Benissimo,» disse, «andiamo lì.»
Era spinto da qualcosa di sensuale: l’accoppiamento del bene e del male. Fra gli alberi dell’Old Steyne le lampadine colorate erano accese – ma era troppo chiaro ancora e nel crepuscolo i loro colori pallidi non risaltavano. Il lungo tunnel sotto il passeggio era la zona più rumorosa, più volgare, meno costosa dei divertimenti di Brighton: dei bambini li oltrepassarono correndo, con dei berretti da marinaio di carta e sopra scritto “Non sono un angelo”: un treno degli spettri passò rumoreggiando accanto a loro, portando coppie d’innamorati verso le tenebre da cui uscivano strilli e schiamazzi. Lungo tutto il lato verso terra del tunnel c’erano i divertimenti, dall’altro le botteghe: gelati di vari colori, bilance automatiche fotografiche, conchiglie, bastoncini di torrone. Gli scaffali si innalzavano sino al soffitto, e dalla parte del mare non v’erano porte affatto e neppure finestre: null’altro che scaffali su scaffali dalla ghiaia della spiaggia sino al tetto: un frangiflutti di «Rocce di Brighton» che si opponeva al mare. Nel tunnel le luci erano sempre accese: l’aria era calda e pesante, avvelenata dal respiro umano.
«Ebbene,» chiese il Ragazzo, «che vuoi – dei frutti di mare o una roccia di Brighton?» La fissava come se dalla sua risposta dipendesse qualcosa di veramente importante.
«Mi piacerebbe una roccia di Brighton,» ella rispose.
Di nuovo egli ebbe un sorriso sardonico: soltanto il diavolo, pensò, poteva averle dettato quella risposta. La ragazza era buona, ma egli se la sentiva come si sente Dio nell’Eucaristia – nelle budella. Dio non poteva sfuggire alla bocca del perverso che decideva di trangugiare la propria condanna. Attraversò dirigendosi verso la soglia di una bottega e ficcò dentro la testa. «Signorina,» disse, «signorina, due rocce di Brighton.» Si guardò attorno nella stanzetta a righe rosse, come se ne fosse il possessore: la sua memoria l’aveva fatta sua, conservava l’impronta di orme di piedi, uno speciale pezzettino di pavimento aveva un’importanza eterna: se il registratore di cassa fosse stato spostato, egli se ne sarebbe accorto.
«Cos’è?» chiese e accennò ad una scatola, il solo oggetto lì che non gli fosse familiare.
«Sono pezzi di zucchero candito,» rispose la commessa, «che si vendono a minor prezzo.»
«Arrivano così dal fabbricante?»
«Oh, no, si sono rotti dopo. Della gente sciocca e maldestra...» ella si lamentò.
«Vorrei sapere chi è stato.»
Egli prese i bastoncini e si voltò: sapeva quello che avrebbe visto, – nulla: il passeggio era celato dietro ai mucchi di rocce di Brighton. Ebbe per un istante la sensazione della propria immensa intelligenza. «Buona notte,» disse, si chinò passando sotto il limitare ed uscì. Se soltanto fosse stato possibile vantarsi della propria intelligenza, dare sfogo all’enorme orgoglio compromesso...
Stavano fermi, l’uno di fianco all’altro, intenti a succhiare i loro bastoncini di torrone: una donna li sospinse da un lato: «Toglietevi di mezzo, ragazzini.» I loro sguardi s’incontrarono: una coppia di sposi.
«E ora dove andiamo?» egli disse imbarazzato.
«Forse dovremmo trovarci un posto qualunque,» ella disse.
«Non c’è tutta questa fretta.» La sua voce tradiva un poco l’ansia. «È ancora presto. Ti piacerebbe un cinema?» Di nuovo egli la blandì. «Non ti ho mai condotta al cinema.»
Ma la sensazione di potenza lo abbandonò. Una volta ancora il consenso appassionato della ragazza «Come sei buono con me!» lo respinse. Accovacciato con aria arcigna su un sedile dei secondi posti, nella semioscurità, egli si domandò con cruda amarezza, che cosa mai ella sperasse: accanto al telone un orologio illuminato segnava l’ora. Era un film romantico: bellezze spettacolose, cosce fotografate con arte speciale, letti esoterici a forma di barche alate. Un uomo veniva ucciso, ma non era la cosa più importante. La cosa più importante era il gioco dell’amore. I due protagonisti procedevano in modo dignitoso verso il momento del letto: «Ti ho amata la prima volta che ti ho vista a Santa Monica...» Una serenata sotto una finestra, una ragazza in abbigliamento notturno, e l’orologio a fianco del telone che segnava l’avanzare del tempo. Improvvisamente, furiosamente egli sussurrò a Rosa: «Così fanno i gatti.» Era il gioco più comune sotto la luce del sole – perché avere paura di quello che i cani fanno per istrada? La musica gemeva Io so nel mio cuore che tu sei divina. Egli sussurrò: «Dopo tutto forse sarebbe meglio di andare da Frank,» pensando: «lì almeno saremo soli; qualcosa potrebbe succedere, forse i ragazzi vorranno bere, forse vorranno festeggiarci – nessuno andrà a letto stanotte.»
L’attore con un ciuffo di capelli neri ricadente sopra un viso bianco e sciupato diceva: «Sei mia. Tutta mia,» cantava di nuovo sotto le stelle mobili in un incredibile chiarore lunare, e di botto, inesplicabilmente, il Ragazzo incominciò a piangere. Chiuse gli occhi per trattenere le lagrime, ma la musica continuava – era come una visione di liberazione per un uomo imprigionato.
Sentiva i lacci e vedeva – a una distanza disperatamente irraggiungibile – una libertà illimitata: non più timore, odio, invidia. Era come se egli fosse morto e ricordasse gli effetti di una buona confessione, le parole dell’assoluzione; soltanto non gli riusciva di provare contrizione, le costole del suo corpo erano come fasce di acciaio che lo inchiodavano in un eterno non pentirsi. Disse alla fine: «Andiamo. Sarebbe meglio di andare.»
Adesso era completamente buio: tutte le lampade colorate erano accese sul lungomare Hove. Passarono lentamente dinanzi a Snow, oltre il Cosmopolitan. Un aereo che volava basso si diresse ronzando verso il largo, una luce rossa che diminuiva. In uno dei casotti di vetro un vecchio sfregò un fiammifero per accendere la pipa, mettendo in luce un uomo e una ragazza avviticchiati nell’angolo. Dal mare veniva un suono di musica. Traversando Norfolk Square, svoltarono verso la Montpellier Road; una bionda con delle guance alla Garbo si fermò per incipriarsi sui gradini del Norfolk Bar. A un certo momento si udì il rintocco di una campana a morto, e un grammofono da uno scantinato fece echeggiare un inno. «Forse,» disse il Ragazzo, «dopo stasera troveremo un posto, dove andare.»
Aveva la chiave, ma suonò il campanello. Aveva bisogno di gente, di parlare... ma nessuno rispose. Suonò di nuovo. Era uno di quei campanelli all’antica che bisogna tirare, e risuonava chioccio all’estremità del cordone, quel tipo di campanello che per una lunga esperienza di polvere e ragni e stanze disabitate sa dare l’impressione della casa vuota. «Non possono essere andati tutti fuori,» egli disse, infilando la chiave nella toppa.
Nell’ingresso una lampada era stata lasciata accesa: egli vide subito il bigliettino ficcato sotto il telefono: “Due persone si tengono compagnia”, riconobbe la scrittura volgare e disordinata della moglie di Frank. “Siamo andati fuori a festeggiare il matrimonio. Chiudetevi a chiave. Godetevela”. Spiegazzò il foglietto e lo gettò per terra sul linoleum. «Vieni su,» disse. Quando fu in cima alla scala, pose la mano sulla nuova ringhiera e disse: «Vedi, l’abbiamo fatta aggiustare.» Un odore di cavoli, di cucina e di tessuto bruciato gravava sull’andito scuro. Egli fece segno: «Quella era la camera del buon Spicer. Credi agli spiriti?»
«Non saprei.»
Con una spinta aprì la porta della sua camera e girò l’interruttore della lampadina polverosa e senza schermo. «Ecco,» disse, «prendere o lasciare,» e si trasse da un lato per mettere in mostra il grande letto di ottone, il lavabo e la brocca sbrecciata, l’armadio verniciato con la specchiera da dozzina.
«È meglio di un albergo,» ella disse, «sa più di casa.»
Erano ritti nel mezzo della stanza, come se non sapessero quale sarebbe stata la loro mossa successiva. Ella disse: «Domani farò un po’ di pulizia.»
Egli sbatté l’uscio. «Non toccherai proprio niente,» disse. «È casa mia, questa, hai capito? Non voglio che tu venga a cambiare niente...» la guardò con timore – venire nella propria stanza, nella propria tana e trovarci una strana cosa... «Ebbene, non ti togli il cappello?» le chiese. «Ti fermerai, no?» Ella si tolse il cappello, l’impermeabile – era questo il rito del peccato mortale, egli pensò, questa la cosa per cui la gente si mandava a vicenda all’inferno... Il campanello nell’ingresso squillò. Egli non vi fece caso. «È sabato sera,» disse con un sapore amaro nella bocca, «È ora di andare a letto.»
«Chi è?» ella domandò, e il campanello ricominciò il suo suono chioccio – che diceva chiaramente a chiunque fosse fuori, come la casa non fosse più vuota. Il viso sbiancato, ella gli si avvicinò. «È la Polizia?» domandò.
«Perché dovrebbe essere la Polizia? Sarà qualche amico di Frank.» Ma l’idea lo aveva turbato. Si fermò per aspettare una nuova scampanellata. Non venne. «Ebbene,» disse «non possiamo rimanere qui in piedi tutta la notte. Faremmo meglio ad andare a letto.»
Si sentiva paurosamente vuoto, come se non avesse mangiato da giorni. Tentò, togliendosi la giacchetta e appendendola allo schienale di una seggiola, di far finta che tutto fosse come al solito. Ma quando si voltò, Rosa non si era mossa: una bambina sottile e non del tutto sviluppata, che tremava fra il lavabo e il letto.
«Beh,» egli la derise a bocca secca, «hai paura.» Era come se fosse tornato indietro di quattro anni e schernisse un compagno di scuola, per fargli commettere una cattiva azione.
«Non hai paura, tu?» chiese Rosa.
«Io?» Le rise in faccia in modo poco convincente e da uomo maturo: con un niente di sensualità – lo sbeffeggiava il ricordo di una sottana, di una schiena, “Ti ho amata per la prima volta a Santa Monica...” Sconvolto da una specie di rabbia, la prese per le spalle. Era fuggito da Nelson Place per arrivare a questo: la spinse contro il letto. «È un peccato mortale» disse, gustando il sapore di tanta innocenza, sforzandosi di sentire il gusto di Dio nella bocca: un pomo d’ottone del letto, gli occhi storditi, spaventati e acquiescenti della ragazza – tutto egli cancellò in un triste e brutale amplesso, che sapeva di “ora o mai più”: un grido di dolore, e poi lo squillo del campanello che una volta ancora riprendeva. «Cristo,» disse, «non si può lasciare la gente in pace?» Aprì gli occhi nella stanza grigia, per vedere quello che aveva fatto: gli parve che fosse più simile alla morte di quando Hale e Spicer erano morti.
Rosa disse: «Non andare, Rossetto, non andare.»
Ebbe una strana sensazione di trionfo: si era provato nell’estrema vergogna umana – dopo tutto non era tanto difficile. Si era messo a nudo e nessuno aveva riso. Non aveva avuto bisogno del signor Prewitt o di Spicer, solamente – un debole sentimento di tenerezza si accese per la sua compagna in quell’atto. Tese una mano e le pizzicò il lobo dell’orecchio. Era come se si fosse levato un peso enorme. Ora poteva guardare in faccia chiunque. Disse: «È meglio che vada a vedere che vuole quel dannato.»
«Non andare, ho paura, Rossetto.»
Ma egli aveva la sensazione che non avrebbe mai più avuto paura: nello scendere a precipizio il suo cammino, egli aveva avuto paura, paura del dolore e più ancora della dannazione eterna – di una morte improvvisa e senza assoluzione. Ora, era come se fosse già un dannato e non vi fosse mai più nulla da dover ancora temere. Quell’odioso campanello continuava a far rumore, il lungo cordone si agitava con un ronzio nell’ingresso, la lampadina senza schermo era accesa al disopra del letto – la ragazza, il lavabo, la finestra sporca di fuliggine, il contorno nero di un camino, una voce che sussurrava «ti voglio bene, Rossetto.» Questo era dunque l’inferno: non c’era nulla di cui doversi preoccupare: non era che la sua camera familiare. Disse: «Torno subito. Non ti preoccupare. Torno subito.»
Arrivato all’inizio della scala, pose la mano sul legno nuovo e non ancora dipinto della ringhiera aggiustata. La scosse dolcemente per vedere se era salda. Avrebbe voluto cantare un osanna alla propria accortezza. Il campanello si agitava sotto di lui. Guardò in giù: il dislivello era forte, ma non si poteva essere proprio sicuri che da quell’altezza un uomo si sarebbe ammazzato. Non ci aveva mai pensato prima, ma talvolta della gente viveva per ore con la schiena rotta, ed egli conosceva un vecchio che andava ancora in giro con un cranio rotto che d’inverno scricchiolava, quando egli starnutiva. Ebbe la sensazione che tutto gli andasse bene. Il campanello squillava, come se sapesse che lui era in casa. Discese la scala, con le dita dei piedi che incespicavano nel linoleum usato – questa casa non era alla sua altezza. Si sentì un’energia invincibile – lassù non aveva perduto vitalità, ne aveva acquistata. Ciò che aveva perduto era la paura. Non aveva nessuna idea di chi ci fosse fuori della porta, ma fu preso da un senso di godimento perverso. Afferrò il vecchio campanello e lo fece tacere, tenendolo fermo; poteva sentire lo strappo attraverso il cordone: una specie di strana mischia avvenne fra lui e lo sconosciuto per tutta la lunghezza dell’ingresso, e il Ragazzo ebbe il sopravvento. Il cordone non fu più tirato e una mano batté sull’uscio. Il Ragazzo lasciò andare il campanello e si diresse dolcemente verso la porta, ma immediatamente dietro al suo dorso il campanello ricominciò a squillare, con un suono chioccio, sordo e insistente.
Una pallottola di carta “Chiudetevi a chiave. Godetevela” gli venne fra i piedi.
Spalancò arditamente la porta ed ecco lì Cubitt, Cubitt, ubbriaco, disperato e desolato: qualcuno gli aveva fatto un occhio nero, e il suo fiato puzzava: bere gli faceva sempre male alla digestione.
La sensazione di trionfo del Ragazzo si fece più forte: ebbe la certezza di una incommensurabile vittoria.
«Ebbene,» disse, «cosa vuoi tu?»
«Ho qui la mia roba,» disse Cubitt, «voglio prendere la mia roba.»
«Vieni dentro a prendertela,» disse il Ragazzo.
Cubitt penetrò di sghembo. Disse: «Non pensavo di vederti...»
«Cammina,» disse il Ragazzo, «prendi la tua roba e fila.»
«Dove è Dallow?»
Il Ragazzo non rispose.
«Frank?»
Cubitt si schiarì la gola: il suo alito cattivo giunse fino al Ragazzo. «Senti un po’, Rossetto,» disse, «tu ed io – perché non potremmo andare d’accordo? Come siamo sempre andati.»
«Non siamo mai andati d’accordo,» disse il Ragazzo.
Cubitt non badò alle parole. Voltò la schiena al telefono e fissò il Ragazzo con degli occhi circospetti da ubbriaco. «Tu ed io,» disse, e l’acidità gli saliva alla gola, ispessendo le parole, «tu ed io non possiamo andare avanti separati. Ma come,» disse, «siamo come fratelli. Siamo legati assieme.»
Il Ragazzo lo fissava, ritto contro la parete di fronte.
«Tu ed io – è come ho detto. Non possiamo andare avanti separati,» ripeté Cubitt.
«Immagino,» disse il Ragazzo, «che Colleoni non ti vorrebbe toccare – neppure con un bastone, ma io non raccolgo i suoi resti, Cubitt.»
Cubitt incominciò a piangere – era una fase per cui passava sempre: il Ragazzo poteva fare il conto dei bicchieri dalle lagrime che spuntavano con riluttanza, due lagrime come gocce di alcool essudate dalle pupille gialle. «Non hai nessuna ragione di parlare così,» disse, «Rossetto.»
«Faresti meglio a prendere la tua roba.»
«Dove è Dallow?»
«È fuori,» disse il Ragazzo. «Sono tutti fuori.» Un impulso di crudele perversità lo prese di nuovo. «Siamo assolutamente soli, Cubitt,» disse. Gettò lo sguardo nell’ingresso su quel pezzo nuovo di linoleum che segnava il posto dove Spicer era caduto. Ma fu inutile – la fase delle lagrime era transitoria – poi venivano il malumore, l’ira...
Cubitt disse: «Non puoi trattarmi come un oggetto di schifo.»
«È così che Colleoni ti ha trattato?»
«Sono venuto qui per fare la pace,» disse Cubitt. «Non puoi permetterti di non fare la pace.»
«Posso permettermi più di quanto tu non creda,» disse il Ragazzo.
Cubitt lo prese subito in parola. «Prestami cinque sterline.»
Il Ragazzo scosse il capo. Fu preso da un accesso improvviso di impazienza e di orgoglio: egli valeva assai più di questo – di questo alterco sul linoleum usato sotto la lampadina polverosa e senza paralume con un Cubitt. «Per amor di Dio,» disse, «prendi la tua roba e fila.»
«Ci sono delle cose che potrei raccontare su di te...»
«Nessuna.»
«Fred...»
«Saresti impiccato tu,» ghignò il Ragazzo. «Ma non io. Io sono troppo giovane per essere impiccato.»
«C’è anche Spicer.»
«Spicer è caduto giù lì.»
«Ti ho sentito...»
«Tu mi hai sentito? Chi vorrà crederlo?»
«Dallow ha sentito.»
«Per Dallow sono tranquillo,» disse il Ragazzo. «Posso fidarmi di Dallow. Via, Cubitt,» proseguì tranquillamente, «se tu fossi pericoloso, farei qualcosa nei tuoi riguardi. Ma ringrazia la tua stella che non sei pericoloso.» Voltò le spalle a Cubitt e salì la scala. Poteva sentire dietro a sé Cubitt che soffiava: era sfiatato.
«Non sono venuto qui per dirti delle cose cattive, prestami un paio di bigliettoni, Rossetto: sono a terra.»
Il Ragazzo non rispose – “In ricordo dei vecchi tempi!” – svoltò alla curva della scala per entrare in camera sua.
Cubitt disse: «Aspetta un momento e ti dirò una cosa o due – brutto tipo da galera. C’è chi mi darà del denaro – venti sterline. Tu, sì, tu, ti dirò quello che sei.»
Il Ragazzo si fermò dinanzi alla sua porta. «Su,» disse, «dimmelo.»
Cubitt cercò di parlare: non trovava le parole adatte. Sfogò la sua rabbia e il suo risentimento in parole leggere come carta. «Tu sei d’animo basso,» disse, «sei un vigliacco. Sei tanto vigliacco che uccideresti il tuo migliore amico per salvare la tua pelle. Ma via,» ebbe un riso spesso, «hai paura di una ragazza. Silvia mi ha raccontato,» ma quell’accusa giungeva troppo tardi. Ora egli era stato promosso all’esame, quanto a conoscenza dell’estrema debolezza umana. Ascoltò divertendosi, con una specie di orgoglio infernale: l’immagine che Cubitt delineava non aveva nulla a che fare con lui, al pari dell’immagine che gli uomini si fanno di Cristo e che riflette la loro sentimentalità. Cubitt non poteva sapere. Era come un professore che descriva a uno straniero un luogo, di cui abbia avuto notizia solo attraverso i libri: statistiche di importazioni ed esportazioni, tonnellaggio e risorse minerarie, e se il bilancio sia in pareggio: mentre si tratta di un luogo che lo straniero ha conosciuto per avervi sofferto la sete nel deserto e per esservi stato accolto da fucilate ai piedi delle montagne. D’animo basso... vigliacco... che ha paura...: rise con lieve scherno; e gli parve di essersi innalzato al disopra di qualsiasi ombra notturna, di cui Cubitt potesse essere consapevole. Aprì la sua porta, entrò, la richiuse e girò la chiave.
Rosa era seduta sul letto, i piedi penzoloni come un bimbo che in una classe aspetti l’ordine del maestro per dire la lezione. Fuori della porta Cubitt bestemmiava e scalciava, scuoteva la maniglia, infine si allontanò. Ella disse con immenso sollievo – era abituata alla gente ubbriaca –: «Oh, allora non è la polizia.»
«Perché avrebbe dovuto essere la polizia?»
«Non so,» ella disse, «pensavo che forse...»
«Forse cosa?»
Egli riuscì a stento ad afferrare la risposta: «Kolley Kibber.»
Per un istante rimase attonito. Poi incominciò a ridere dolcemente con un disprezzo infinito e un senso di superiorità in confronto a un mondo che usava delle parole come “innocenza”. «Beh,» disse, «questa è buona. Lo hai sempre saputo. L’avevi indovinato. Ed io che credevo che tu fossi così innocente da essere ancora un pulcino nel guscio. Ed ecco invece,» nella sua mente la rievocò quel giorno a Peacehaven o fra i vini di marca da Snow, «ecco invece, che sapevi tutto.»
Ella non lo negò: seduta lì, con le mani congiunte fra le ginocchia, accettava tutto.
«Questa è buona,» egli disse. «Bene, ma se tu ci pensi – sei altrettanto malvagia quanto me.» Attraversò la stanza e aggiunse con un certo rispetto: «Non c’è la minima differenza fra di noi.»
Ella alzò su di lui i suoi devoti occhi infantili e solennemente ripeté: «non la minima differenza.»
Egli sentì il desiderio ridestarsi di nuovo come nausea nello stomaco. «Che notte nuziale,» disse, «ti eri immaginata che una notte nuziale sarebbe stata come questa?...» la moneta d’oro nella mano, la genuflessione nel santuario, la benedizione... dei passi nel corridoio, Cubitt che pestava sulla porta, pestava e se ne andava via sbandando, la scala che scricchiolava, una porta che sbatteva. Ella ripeté la sua affermazione, tenendolo fra le braccia, nel gesto del peccato mortale: «non la minima differenza.»
Il Ragazzo era sdraiato sul dorso – in maniche di camicia – e sognava. Era in un campo di gioco asfaltato: un platano stava avvizzendo: una campana fessa suonava e i bambini venivano fuori attorno a lui. Lui era un nuovo: non conosceva nessuno, stava male dalla paura – ed essi venivano verso di lui con uno scopo. In quel momento sentiva una mano circospetta sulla sua manica e in uno specchio appeso a un albero vedeva il riflesso di se stesso e dietro Kite – di mezza età, gioviale – che sanguinava dalla bocca. «Questi tesorini,» diceva Kite e gli poneva un rasoio nella mano. Egli sapeva allora quello che doveva fare: bastava che essi imparassero una volta per tutte che egli non si sarebbe fermato dinanzi a nulla, che non esistevano regole per lui.
Tese il braccio nel gesto di attaccare, fece qualche commento indistinto e si voltò sul fianco. Un lembo del lenzuolo gli ricadde sulla bocca: respirò con difficoltà. Ora era sul molo e poteva vedere i pilastri che si spezzavano – una nuvola nera sopraggiungeva a grande rapidità dalla Manica e il mare si innalzava: tutto quanto il molo sbandava e si abbassava. Egli tentava di gridare: nessuna morte era così brutta come quella per affogamento. La piattaforma del molo era inclinata ad angolo acuto, come quella di un piroscafo sul punto di inabissarsi per sempre: egli si arrampicava su per il declivio levigato per allontanarsi dal mare e scivolava di nuovo, giù, sempre più giù nel suo letto di Nelson Place. Rimaneva immobile pensando “che sogno!” e sentiva i suoi genitori muoversi furtivamente nell’altro letto. Era la notte di sabato. Suo padre ansimava come un uomo alla fine di una corsa e sua madre emetteva un suono orribile che esprimeva una sofferenza piacevole. Egli si sentiva pregno di odio, di disgusto, di solitudine, completamente abbandonato: non aveva nulla in comune con i loro pensieri – per la durata di pochi minuti era morto, era come un’anima in purgatorio, che veda un atto vergognoso di una persona amata.
In quel momento improvvisamente egli aperse gli occhi; fu come se l’incubo non potesse andare oltre: era notte fonda, egli non poteva scorgere nulla e per pochi secondi si credette di ritorno a Nelson Place. Poi a un orologio scoccarono le tre, con un rumore vicino simile a quello del coperchio di una pattumiera nel cortile dietro la casa, ed egli si ricordò con sollievo immenso di essere solo. Si alzò dal letto nel dormiveglia (aveva la lingua spessa e un cattivo sapore in bocca) e a tastoni si diresse verso il lavabo, prese il bicchiere per i denti, si versò dell’acqua e udì una voce che diceva: «Rossetto? Che c’è, Rossetto?» Lasciò cadere il bicchiere, e nel sentire l’acqua riversarsi sui suoi piedi, amaramente si ricordò.
Disse cautamente nell’oscurità: «Niente, dormi.» Non aveva più nessuna sensazione di trionfo o di superiorità. Ripensò a poche ore prima, come se allora fosse stato ebbro o avesse sognato – era stato esilarato momentaneamente dalla novità dell’esperienza. Ora non ci sarebbe stato mai più nulla d’ignoto – egli era desto. Si dovevano considerare queste cose con buon senso – ella sapeva tutto. L’oscurità si attenuò dinanzi al suo sguardo ben desto e calcolatore – poteva scorgere il contorno dei pomi del letto e una seggiola. Aveva vinto una mossa e perso una mossa; non avrebbero potuto obbligarla a testimoniare contro di lui, ma lei sapeva tutto... Gli voleva bene, qualunque significato avessero queste parole, ma l’amore non era una cosa eterna, al pari dell’odio, del disgusto. Sapevano vedere un viso più bello, degli abiti più eleganti... Gli balenò l’orrenda verità che egli avrebbe dovuto tenersi questo amore per tutta la vita: non avrebbe mai potuto liberarsi di lei; se si fosse innalzato, avrebbe dovuto portarsi seco Nelson Place come una cicatrice visibile: il matrimonio civile era altrettanto irrevocabile di un sacramento. Soltanto la morte lo avrebbe liberato.
Fu preso da un bisogno irresistibile di aria, camminò senza fare rumore verso la porta. Nell’andito non si poteva vedere nulla: era tutto pieno del suono sommesso di un respiro umano, che usciva dalla camera appena lasciata, da quella di Dallow. Si sentì come un cieco guardato da gente che egli non può vedere. A tastoni giunse fino alla scala e discese giù nell’ingresso, passo passo, destando uno scricchiolìo. Avanzò la mano e toccò il telefono, poi con la mano stesa si diresse verso la porta di casa. Nella strada i fanali erano spenti, ma l’oscurità non più racchiusa fra quattro pareti sembrava assottigliarsi nell’ampio distendersi della città. Poté scorgere delle ringhiere di seminterrati, un gatto che si muoveva e, riflessa sul cielo oscuro, la fosforescenza del mare. Era uno strano mondo nuovo, in cui egli non si era mai trovato da solo prima. Nello scendere senza rumore verso la Manica provò un fallace senso di libertà.
Nella Montpellier Road le lampade erano accese: nessuno in giro, e una bottiglia di latte vuota dinanzi a un negozio di grammofoni: più lontano la torre con l’orologio illuminato e i pubblici gabinetti di decenza; l’aria era fresca come aria di campagna. Poté immaginare di essersi liberato. Ficcò le mani nelle tasche dei calzoni per riscaldarle e vi tastò un pezzetto di carta che non avrebbe dovuto esservi. Lo trasse fuori – un foglietto strappato da un taccuino – una scrittura sconosciuta a caratteri grandi, disordinati. Lo sollevò nella luce grigia e lesse – con difficoltà. “Ti voglio bene, Rossetto. Non m’importa quello che fai. Ti vorrò sempre bene. Sei stato buono con me. Dovunque andrai, verrò anch’io”.
Ella doveva averlo scritto mentre egli chiacchierava con Cubitt, e averglielo ficcato in tasca, mentre dormiva. Lo ciancicò nel pugno: c’era una pattumiera davanti a un negozio di pescivendolo – ma trattenne la mano. Un presentimento oscuro gli sussurrò che non si sapeva mai – avrebbe potuto servire un giorno.
Udì un sussurro, si guardò bruscamente attorno, e rimise via il foglietto. In un vialetto fra due botteghe, c’era una vecchia seduta per terra: ne poté a stento scorgere il viso sciupato e scolorito: era come la personificazione della dannazione. Ma in quel momento udì il sussurro: “Sei benedetta fra le donne”: vide che le dita grigie brancicavano un rosario. Quest’essere non era uno dei dannati: egli lo guardò affascinato e con orrore: era uno dei salvati.