Parte sesta
Capitolo primo
Allorché Cubitt si trovò fuori della porta d’ingresso, i fumi dell’ebbrezza erano già svaniti. La strada era vuota. In modo strano, amaro e incomprensibile, si sentì come un uomo che abbia distrutto la sua casa senza averne preparata un’altra. La nebbia stava salendo dal mare ed egli non aveva indosso la giacca. Era arrabbiato come può esserlo un bambino: non sarebbe tornato indietro a prenderla, sarebbe stato come ammettere di avere avuto torto. La sola cosa da fare adesso era di andare a bere un buon whisky alla Corona.
Nel locale lo accolsero con rispetto. Nello specchio con la pubblicità del Booth’s Gin, poté vedersi riflesso, i capelli corti e fiammeggianti, il viso rude e aperto, le spalle larghe: si guardò come Narciso nello stagno e si sentì meglio: non era un tipo d’uomo da prendere le cose senza reagire: era un tipo in gamba.
«Vuole un whisky?» gli chiese qualcuno: era il commesso del fruttivendolo che aveva la bottega all’angolo. Cubitt gli pose sulla spalla una mano pesante, in segno di assenso, di protezione: l’individuo, che a suo tempo ne aveva fatte parecchie, divenuto intimo del pallido giovanottino ignorante che, pur così diverso da lui da un punto di vista commerciale, si era fatto un suo ideale della vita di un uomo. Il legame piacque a Cubitt. Bevette altri due whiskies a spese dell’erbivendolo.
«Ha un cavallo da suggerirmi, signor Cubitt?»
«Ho da pensare a ben altre cose, che non i nomi dei favoriti,» obiettò Cubitt scuro in volto, aggiungendo uno schizzo di selz.
«Stavamo discutendo su Gay Parrott per la corsa delle due e mezzo. Mi sembrava...»
Gay Parrott... Il nome non diceva nulla a Cubitt: il liquore lo aveva riscaldato, la nebbia era nel suo cervello; si chinò in avanti in direzione dello specchio e si vide intorno alla testa un’aureola di “Booth’s Gin, Booth’s Gin”. Si occupava di alta politica: degli uomini erano stati uccisi: quel povero Spicer: i sentimenti di fedeltà si spostavano come bilance cariche nel suo petto: si sentiva altrettanto importante di un primo ministro che faccia dei trattati.
«Ci saranno altri assassinii, prima che abbiamo finito,» affermò misteriosamente.
Era lucido: non che tradisse nulla, ma non faceva gran male se lasciava penetrare un poco queste povere creature insipide nei segreti dell’esistenza. Spinse innanzi il bicchiere; propose «un liquore a tutta la compagnia,» ma quando si guardò da ogni lato, tutti se ne erano andati: una faccia si voltò per gettare un ultimo sguardo attraverso la vetrata della porta del bar, scomparve. Non avevano potuto sostenere la compagnia di un vero uomo.
«Non importa,» egli disse, «non importa,» e trangugiato il whisky, se ne andò. Naturalmente adesso la prima cosa era vedere Colleoni. Gli avrebbe detto: «Eccomi qui, signor Colleoni. Ho finito tutto con la banda di Kite. Non voglio lavorare sotto un ragazzino come quello. Mi dia un lavoro che sia degno di un uomo e lo eseguirò.» La nebbia penetrò in lui sino alle ossa: involontariamente ebbe un brivido: qualcuno camminava sulla sua tomba... Pensò: se soltanto anche Dallow... e di colpo la solitudine gli tolse ogni sicurezza, tutto il calore dovuto all’alcool svaporò e la nebbia penetrò in lui al pari di sette diavoli. E se poi a Colleoni la cosa non interessasse? Scese sul lungomare e vide attraverso la bruma sottile le luci alte del Cosmopolitan: era l’ora dei cocktails.
Cubitt si sedette intirizzito in un casotto di vetro e guardò verso il mare. La marea era bassa e la nebbia la nascondeva: si udiva appena un fruscio e un sibilo. Accese una sigaretta: il fiammifero riscaldò per un istante le mani giunte a coppa. Offrì il pacchetto a un vecchio signore avviluppato in un mantello pesante, che condivideva con lui il casotto. «Non fumo,» rispose brusco il vecchio e incominciò a tossire: un insistente coc, coc, coc in direzione del mare invisibile.
«Una serata fredda,» disse Cubitt. Il vecchio signore girò gli occhi verso di lui come un binoccolo da teatro e continuò a tossire, coc, coc, coc: le corde vocali dovevano essere aride come paglia. In un punto lontano sul mare un violino incominciò a suonare: era come se una bestia marina si lamentasse tendendosi verso terra. Cubitt pensò a Spicer, a cui piaceva una bella melodia. Povero Spicer.
La nebbia si spinse verso terra, densi mucchi compatti simili ad ectoplasma. Cubitt era stato una volta a una seduta a Brighton, perché aveva voluto mettersi in contatto con sua madre, morta venti anni prima. Il desiderio lo aveva colto proprio improvvisamente – forse la vecchietta avrebbe avuto qualcosa da dirgli. E lo aveva detto: era nel settimo piano, dove tutto era molto bello; la sua voce sembrava un poco quella di un ubbriaco, ma ciò non era del tutto contrario alla realtà. I ragazzi lo avevano scherzato per questo, specialmente il buon Spicer. Ebbene, ora Spicer non avrebbe riso. Avrebbe potuto essere chiamato lui stesso in qualsiasi momento a suonare un campanello o agitare un tamburello. Era una fortuna, che la musica gli fosse piaciuta.
Cubitt si alzò e andò con passo incerto sino all’inizio del molo occidentale, che si stendeva nella nebbia e scompariva nella direzione del violino.
Lo risalì in direzione del salone da concerto, senza incontrare nessuno. Non era una serata da passare all’aperto per le coppie in vena di amore. Tutta la gente che si trovava sul molo si era riunita nell’interno del salone: Cubitt vi girò attorno al di fuori, guardando dentro: un uomo in abito da sera suonava il violino dinanzi ad alcune file di persone intabarrate riunite come in un’isola in pieno mare a cinquanta metri da terra, in mezzo alla nebbia. Da un punto lontano nella Manica giunse la sirena di un piroscafo e un’altra rispose e un’altra ancora, come cani che di notte si svegliano l’un l’altro.
Andare da Colleoni e dirgli... era tutto semplicissimo: quel vecchio ebreo avrebbe dovuto essergli grato... Cubitt guardò indietro verso il lido e vide al disopra della bruma le alte luci del Cosmopolitan, che lo intimidirono. Non era abituato a quel genere di società. Scese la scaletta di ferro che portava al gabinetto per uomini, smaltì il whisky bevuto nell’acqua mossa sotto i pilastri e risalì sul ponte più solitario che mai. Trasse di tasca una moneta e la fece scivolare in una macchinetta automatica: un viso d’automa, dietro al quale girava un globo elettrico, delle maniglie di ferro che Cubitt doveva afferrare. Ne balzò fuori un cartoncino azzurro “Descrizione del vostro carattere”. Cubitt lesse: “Subite profondamente l’influsso dell’ambiente che vi circonda e siete incline ad essere capriccioso e mutevole. I vostri affetti sono più intensi che duraturi. Avete una natura libera, facile e geniale. Sapete ricavare il più possibile da qualunque cosa abbiate intrapreso. Potrete sempre avere una porzione delle buone cose della vita. La vostra mancanza di iniziativa è compensata dal vostro solido buon senso, e riuscirete là dove gli altri falliranno.”
Si strascicò lentamente lungo le macchinette automatiche, ritardando il momento in cui non vi sarebbe stato per lui null’altro da fare che andare al Cosmopolitan. “La vostra mancanza di iniziativa...” Due squadre di calcio di piombo aspettavano dietro un vetro la monetina che le avrebbe messe in moto: una vecchia strega con l’imbottitura che le usciva dalle unghie si offriva a dirgli il futuro. “Una lettera d’amore” lo indusse a una pausa. I parapetti erano umidi per la nebbia, la lunga spianata era vuota, il violino continuava a suonare. Provò il bisogno di un affetto sentimentale profondo, di fiori d’arancio, di rannicchiarsi in un angolo. La sua grossa zampa anelava a una mano che la stringesse. Qualcuno che non desse importanza ai suoi scherzi, che avrebbe riso con lui dell’apparecchio ricevente a due valvole. Non aveva avuto nessuna intenzione cattiva: il freddo lo prese allo stomaco e un poco di whisky acido gli risalì alla gola.
Si sentì quasi propenso a ritornare da Frank. Ma poi si ricordò di Spicer. Quel Ragazzo era pazzo, pazzo e assassino, non era una cosa sicura. La solitudine lo spinse lungo la spianata deserta. Si tolse di tasca l’ultima moneta e la gettò dentro. Ne venne fuori un cartoncino rosa con un francobollo stampato: la testa di una ragazza, dai capelli lunghi, e scritto sopra Vero Amore. Era indirizzato al Mio caro tesoro, Cantuccio dei cascamorti, con i saluti di Cupido e c’era la figura di un giovanotto in abito da sera inginocchiato per terra, che baciava la mano di una ragazza con una grande pelliccia. In un angolo in alto due cuori trafitti da una freccia proprio al disopra di reg. N. 745812. Cubitt pensò: è una cosa carina, a buon mercato per un penny. Guardò in fretta al disopra della spalla: non un’anima. Rapido voltò il cartoncino e incominciò a leggere. La lettera portava l’indirizzo «Ali di Cupido, Sentiero d’Amore.»
«Mia bimbetta adorata, così mi hai rifiutato per il figlio del Castellano. Tu ben poco sai a quale punto hai rovinato la mia vita, mancando alla tua parola, mi hai annientato l’anima stessa, come fa la ruota con la farfalla: ma con tutto ciò non desidero altro che la tua felicità.»
Cubitt ebbe un riso stentato. Era profondamente commosso. Ecco quello che succedeva sempre quando ci si attaccava a un essere che non fosse una donna prezzolata: vi dava i modi dell’alta società. Rinunce Grandiose, Tragedie, La Bellezza turbinavano nella mente di Cubitt. Se era una donna prezzolata, allora si prendeva un rasoio, le si sfregiava il viso; ma questo amore stampato lì era di gran classe. Continuò a leggere: era letteratura; era come anche a lui stesso sarebbe piaciuto di scrivere. «Dopo tutto, quando penso alla tua bellezza meravigliosa, avvincente, alla tua cultura, capisco quanto io sia stato sciocco di sognare che tu avessi mai potuto veramente amarmi.» Indegno. L’emozione spuntò dietro le sue palpebre ed egli rabbrividì nella nebbia di freddo e di bellezza. «Ma, ricordati, sempre carissima, che ti amo e che se mai avrai bisogno di un amico, non avrai che da rimandarmi il piccolo pegno di amore che ti ho dato, e sarò il tuo servitore e il tuo schiavo. Con il cuore spezzato, il tuo Giovanni.» Proprio il suo nome: un presagio.
Ripassò di nuovo lungo la sala da concerto illuminata e lungo la spianata deserta. Amata e Perduta. Tragici dolori ardevano sotto la sua capigliatura color carota. Che può fare un uomo, se non bere? Prese un altro whisky proprio di fronte all’inizio del molo e continuò la strada verso il Cosmopolitan, posando i piedi fin troppo saldamente, planc, planc, planc, sul marciapiede, come se stesse portando dei pesi di ferro sotto le scarpe, come si potrebbe muovere una statua mezza carne, mezza pietra.
«Ho bisogno di parlare con il signor Colleoni.» Lo disse in tono provocante. Ma il velluto e le dorature smorzarono la sua sicurezza. Aspettò con un senso di malessere dietro il banco, mentre un ragazzino andava in cerca del signor Colleoni attraverso vestiboli e salottini. L’impiegato sfogliava le pagine di un librone e poi consultava un «Chi è?» Camminando sui soffici tappeti il ragazzino fu di ritorno seguito da Crab, che s’avanzava di sghembo con un’aria trionfante e i capelli neri che sapevano di pomata.
«Ho detto il signor Colleoni,» disse Cubitt all’impiegato, ma questi non gli diede retta, continuando a umettarsi il dito e a fare ricerche nel «Chi è?»
«Voleva il Signor Colleoni?» disse Crab.
«Precisamente.»
«Non è possibile, è occupato.»
«Occupato,» disse Cubitt. «Bella parola. Occupato.»
«Ma guarda un po’ se non è Cubitt,» disse Crab. «Immagino che vorrai lavoro.» Si guardò attorno con l’aria di una persona indaffarata e domandò all’impiegato: «Quello laggiù non è Lord Pollinger?»
«Sissignore,» disse l’impiegato.
«L’ho visto spesso a Doncaster,» disse Crab, guardandosi con occhi semichiusi un’unghia della mano sinistra. Si voltò rapidamente verso Cubitt: «Seguimi, qui non si può parlare» e prima che Cubitt potesse rispondere, aveva incominciato a compiere a grande velocità delle evoluzioni laterali tra le seggiole dorate.
«Le cose stanno così,» disse Cubitt, «il Rossetto...»
Giunto a metà del vestibolo Crab si fermò, salutò, e riprendendo a camminare divenne di botto confidenziale. «Una bella donna.» Vacillava come un film dei primi tempi. Fra Doncaster e Londra aveva imparato un centinaio di modi di fare diversi: viaggiando in prima classe dopo una riunione fortunata aveva appreso da Lord Pollinger come si debba parlare ad un facchino: e aveva visto il vecchio Digby sottoporre una signora a un esame scrutatore.
«Chi è?» chiese Cubitt.
Ma Crab non rilevò la domanda. «Possiamo parlare qui.» Era il Boudoir Pompadour. Attraverso le porte dorate a vetri, al di là dei tavolini di Boule, si potevano vedere dei cartelli indicatori di una serie di passaggi – dei cartellini minuscoli e graziosi fra lo stile cinese e quello delle Tuileries, «Signore» «Signori» «Parrucchiere per Signore» «Parrucchiere per Signori».
«È al signor Colleoni che voglio parlare,» Cubitt disse. Esalava il suo fiato, che sapeva di whisky, al disopra degli intarsi, ma era intimidito e senza speranze. Resisteva con difficoltà alla tentazione di dire «Signore.» Crab era salito in grado dai tempi di Kite, era quasi ormai fuor di vista. Ora faceva parte della grande società con Lord Pollinger e la bella donna: era maturato.
«Il signor Colleoni non ha il tempo di vedere tutti quanti,» disse Crab. «È una persona molto occupata.» Trasse di tasca uno dei sigari del signor Colleoni e se lo mise in bocca: non ne offerse a Cubitt, il quale con mano incerta gli porse un fiammifero. «Non disturbarti, non disturbarti,» disse Crab, frugandosi il panciotto a doppio petto: ne trasse un accendisigari d’oro e lo avvicinò con gesto largo al sigaro. «Che vuoi, Cubitt?» disse.
«Pensavo che magari...» disse Cubitt, ma le parole si afflosciavano fra le seggiole dorate. «Sai com’è,» disse, guardandosi disperatamente attorno. «Che ne diresti di un bicchierino?»
Crab lo prese subito in parola: «Lo accetterei proprio in ricordo dei vecchi tempi.» Suonò per chiamare un cameriere.
«Vecchi tempi,» disse Cubitt.
«Siediti,» disse Crab, indicando con un gesto da padrone le seggiole dorate. Cubitt si sedette con precauzione. Le seggiole erano piccole e dure. Vide un cameriere in attesa di ordini e arrossì: «Cosa vuoi?» chiese.
«Uno sherry,» disse Crab, «liscio.»
«Whisky e soda per me,» disse Cubitt. Rimase seduto aspettando la bevanda, le mani fra le ginocchia, in silenzio, a capo chino. Gettava furtivamente delle rapide occhiate. Dunque era qui che il Rossetto era venuto a trovare Colleoni – ne aveva avuto del coraggio!
«Trattano abbastanza bene qui,» disse Crab. «Naturalmente il signor Colleoni non vuole che le cose migliori.» Prese in mano il bicchiere e guardò Cubitt che pagava. «Gli piacciono le cose eleganti. Perbacco, è un uomo che, a calcolarlo a contanti, vale cinquantamila sterline. Se vuoi sapere quello che penso,» disse Crab, appoggiandosi all’indietro, tirando buffate di fumo con il sigaro, e fissando Cubitt con occhi lontani e sdegnosi, «un giorno entrerà nella politica. I conservatori hanno un grande concetto di lui – è in relazione con loro.»
«Il Rossetto...» incominciò a dire Cubitt, e Crab rise. «Segui il mio consiglio,» disse Crab. «Pianta quella banda, finché sei in tempo. Non ha avvenire...» Gettò uno sguardo di lato al disopra della testa di Cubitt e disse: «Lo vedi quell’uomo che va al gabinetto? Quello è Mais, il fabbricante di birra. Vale centomila sterline.»
«Mi domandavo,» disse Cubitt, «se il signor Colleoni...»
«Nessuna speranza,» disse Crab. «Via, chieditelo un po’, in che potresti essere utile al signor Colleoni?»
L’umiltà di Cubitt lasciò il posto a un’ira sorda. «A Kite potevo essere utile.» Crab rise. «Scusami,» disse, «ma Kite...» Fece cadere la cenere sul tappeto e riprese: «Segui il mio consiglio. Piantala. Il signor Colleoni ha intenzione di ripulire la pista. Gli piacciono le cose fatte per benino. Nessuna violenza. La Polizia ha molta fiducia nel signor Colleoni.» Si guardò l’orologio. «Be’, Be’, devo andarmene. Ho un appuntamento all’Ippodromo.» Mise la mano sul braccio di Cubitt con aria di protezione. «Ecco,» disse, «dirò una parola in tuo favore – in ricordo dei vecchi tempi. Non servirà a nulla, ma lo farò lo stesso. Porta i miei saluti al Rossetto e ai ragazzi.» E filò via tra una zaffata di pomata e una di sigaro d’avana, salutando con un leggero inchino una signora accanto alla porta e un vecchio signore dal monocolo attaccato a un nastrino nero. «Chi diavolo mai...» disse il vecchio signore.
Cubitt trangugiò il suo bicchiere e gli tenne dietro. Una immensa depressione curvava il suo capo color carota, la sensazione di essere stato trattato male perdurava attraverso i fumi del whisky – un giorno o l’altro qualcuno avrebbe dovuto pagare per qualche cosa. Tutto ciò che vedeva alimentava la sua ira: entrò nell’atrio d’ingresso: un ragazzo con un vassoio lo rese furioso. Tutti lo stavano a guardare, tutti aspettavano che egli se ne andasse, ma egli aveva altrettanto diritto di rimanere quanto Crab. Gettò uno sguardo attorno a sé, ed ecco che lì a un tavolino, sola con un bicchiere di porto dinanzi, c’era la donna che Crab conosceva. La fissò con un’invidia bramosa ed ella gli sorrise.
«Quando penso alla tua bellezza meravigliosa avvincente, alla tua cultura.» La sensazione dell’incommensurabile tristezza dell’ingiustizia subentrò all’ira.
Avrebbe voluto confidarsi, deporre i suoi fardelli... ruttò una volta... «Sarò il tuo schiavo innamorato...» La grossa figura si girò come una porta, i piedi pesanti mutarono direzione e si avvicinarono alla tavola a cui sedeva Ida Arnold.
«Non ho potuto fare a meno di sentire,» ella disse, «mentre proprio un momento fa attraversavate la stanza, che conoscete il Rossetto.»
Nell’udirla parlare egli constatò con immenso piacere, che non era una donna di classe. Ebbe l’impressione dell’incontro di due compaesani a grande distanza da casa. Disse: «Siete anche voi un’amica del Rossetto?» e sentì il whisky appesantirgli le gambe. Domandò: «Permettete che mi sieda?»
«Stanco?»
«Proprio così,» disse, «stanco.» Si mise a sedere tenendo gli occhi fissi sui seni abbondanti e accoglienti. Ricordò la definizione del proprio carattere. «Avete una natura libera, facile e geniale.» Perdio, se l’aveva. Bastava soltanto che lo trattassero bene.
«Volete bere qualcosa?»
«No, no,» egli rispose con goffa galanteria, «tocca a me;» ma quando le bibite arrivarono, si accorse di non avere denaro. Aveva pensato di farsene imprestare da uno dei ragazzi – ma poi c’era stato il litigio... Stette a guardare Ida Arnold che pagava con un biglietto da cinque sterline.
«Conoscete il signor Colleoni?» chiese.
«Non direi di conoscerlo,» ella rispose.
«Crab ha detto che siete una bella donna. Ha ragione.»
«Ah, Crab,» ella disse vagamente, come se non riconoscesse il nome.
«Dovreste starvene alla larga,» disse Cubitt, «non avete bisogno di immischiarvi in certe cose.» Sprofondò gli occhi nel suo bicchiere, come in un’oscurità profonda: al di fuori l’innocenza, la bellezza avvincente, la cultura – indegno! Una lagrima si formò dietro alla palpebra arrossata.
«Siete un amico del Rossetto?» interrogò Ida Arnold.
«Cristo, no,» disse Cubitt, e tracannò ancora un poco di whisky.
Un vago ricordo della Bibbia, riposta nella credenza accanto alla Tavoletta, al romanzo di Warwick Deeping, ai «Buoni Compagni», si ridestò nella memoria di Ida Arnold. «Vi ho visto insieme a lui,» ella mentì: un cortile, una serva che cuciva accanto al focolare, il gallo che cantava.
«Non sono affatto un amico del Rossetto.»
«Non è senza pericolo essere amici del Rossetto,» disse Ida Arnold. Cubitt scrutò il fondo del suo bicchiere, come un indovino la sua anima, in cui legge il destino di gente sconosciuta. «Fred era un amico del Rossetto,» ella disse.
«Che ne sapete di Fred?»
«La gente parla,» disse Ida Arnold. «La gente parla tutto il tempo.»
«Avete ragione,» disse Cubitt. Le pupille arrossate si alzarono, anelando al conforto, alla comprensione: non poteva essere utile a Colleoni, aveva rotto con il Rossetto, dietro al capo della donna, attraverso l’invetriata del vestibolo, l’oscurità e la marea calante; da un arco di abbazia in rovina in formato cartolina emanava un senso di desolazione. «Cristo,» disse, «avete ragione.» Provò l’impulso irresistibile di confessarsi, ma i fatti erano confusi. Sapeva soltanto che questi erano i momenti, in cui un uomo ha bisogno della comprensione di una donna. «Non ho mai approvato la cosa,» le disse. «Sfregiare è diverso.»
«Certamente sfregiare è diverso,» assentì dolce ed abile Ida Arnold.
«E Kite – quella è stata una disgrazia. Volevano soltanto sfregiarlo. Colleoni non è uno stupido. A qualcuno è scivolata la mano. Non c’era nessuna ragione di astio.»
«Un altro bicchierino?»
«Dovrebbe toccare a me,» disse Cubitt, «ma sono proprio a secco. Finché non rivedo i ragazzi.»
«È stato bello da parte vostra – di avere rotto con il Rossetto in questo modo. Ci voleva del coraggio dopo quanto è successo a Fred.»
«Oh, non mi può fare paura. Nessuna ringhiera spezzata...»
«Cosa volete dire – ringhiera spezzata...?»
«Volevo essere gentile,» continuò Cubitt. «Uno scherzo è uno scherzo. Quando uno sta per sposarsi, dovrebbe permettere uno scherzo.»
«Sposarsi? Chi, sposarsi?»
«Il Rossetto, perbacco.»
«Non con quella ragazzina di Snow?»
«Ma certo.»
«Che stupidella,» disse Ida Arnold con ira improvvisa, «oh, che stupidella!»
«Lui non è uno stupido,» affermò Cubitt «sa quello che gli serve. Se quella lì decidesse di raccontare una cosa o due...»
«Dire per esempio che non è stato Fred a lasciare il cartoncino?»
«Povero caro Spicer,» disse Cubitt, osservando le bollicine che si innalzavano alla superfice del whisky. Una domanda si formò vagamente: «Come sapete...» ma svanì nel cervello annebbiato. «Ho bisogno di aria,» disse, «fa soffoco qui dentro. Che ne direste se voi ed io...?»
«Aspettate un momento solo,» disse Ida Arnold. «Deve venire un amico. Mi farebbe piacere che lui e voi vi conosceste.»
«È questo riscaldamento centrale,» disse Cubitt. «Non è sano. Andate fuori e prendete freddo, e subito dopo...»
«Quando sarà il matrimonio?»
«Il matrimonio di chi?»
«Del Rossetto.»
«Non sono un amico del Rossetto.»
«Non avete approvato la morte di Fred, vero?» Ida Arnold insistette dolcemente.
«Sapete capire gli uomini.»
«Sfregiare sarebbe stato diverso.»
Di botto Cubitt, furioso, scoppiò a dire: «Non posso vedere un bastoncino di “Roccia di Brighton” senza...» ruttò e continuò con voce lagrimosa: «sfregiare è diverso.»
«I dottori hanno detto che la causa della morte era naturale, che lui aveva il cuore debole.»
«Andiamo fuori,» propose Cubitt. «Ho bisogno di prendere un po’ d’aria.»
«Aspettate un momento. Che cosa volevate dire, con quel “Roccia di Brighton”?»
Egli le ricambiò uno sguardo atono e disse: «Ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Anche se sarà la mia morte. Questo riscaldamento centrale...» si lamentò. «Prendo facilmente il raffreddore.»
«Aspettate soltanto due minuti.» Ella gli pose la mano sul braccio, provando una viva eccitazione: l’orlo della scoperta era all’orizzonte: e per la prima volta si accorse anche lei dell’aria calda e soffocante che dai radiatori celati emanava tutt’attorno a loro, spingendoli all’aria aperta. Disse: «Verrò fuori con voi. Faremo una passeggiata.» Egli continuò a fissarla assentendo con il capo, con una immensa indifferenza, come se avesse perso il controllo del suo pensiero, allo stesso modo che si perde il guinzaglio di un cane che scompare in un bosco, troppo lontano perché lo si possa inseguire... Fu stupito, quando ella gli disse: «Vi darò... venti sterline.» Che aveva mai detto, da meritare quel denaro?
Ella gli sorrise civettuola. «Giusto il tempo di mettermi un po’ di cipria e di lavarmi le mani.» Egli non rispose, dalla paura; ma senza aspettare la risposta ella si precipitò sulla scala – non c’era il tempo di aspettare l’ascensore. «Lavarmi le mani:» erano le parole che aveva usato con Fred. Corse di sopra, scontrandosi con la gente che, dopo essersi cambiata, scendeva a pranzare. Bussò alla porta e Fil Corkery le aprì. «Svelto,» ella disse, «ho bisogno di un testimone.» Grazie a Dio, era vestito; ed ella lo fece scendere di corsa, ma non appena entrò nel vestibolo, vide che Cubitt se ne era andato. Corse fuori fino sulla scalinata del Cosmopolitan, ma non lo si vedeva più.
«Ebbene?» chiese il signor Corkery.
«È andato via. Ma non importa,» disse Ida Arnold. «Ora so tutto quanto. Non è stato un suicidio. Lo hanno assassinato.» E ripeté fra sé e sé: «...Roccia di Brighton...»
L’accenno sarebbe sembrato inspiegabile a molte donne, ma Ida Arnold era stata allenata dalla Tavoletta. Cose assai più strane di questa si erano venute formando sotto le sue dita e quelle di Crowe: con piena fiducia la sua mente incominciò a lavorare.
L’aria della notte sollevava i sottili capelli
gialli del signor Corkery. Forse gli passò per la mente che in una
serata come questa – dopo i gesti di amore – un po’ di romanticismo
era richiesto da ogni donna. Timidamente le toccò il braccio: «Che
serata,» disse, «non avrei mai sognato – che serata!» ma le parole
si inaridirono, quando ella girò verso di lui i suoi grandi occhi
pensierosi, incomprensivi, pieni di altre idee, e disse lentamente:
«Quella stupidella... sposarlo... davvero non si può sapere di che
cosa quello sia capace.» Una specie di nobile allegrezza la spinse
ad aggiungere eccitata: «Dobbiamo salvarla, Fil.»