Parte seconda

Capitolo primo

Il Ragazzo se ne stava ritto, voltando le spalle a Spicer, gli occhi fissi sull’oscuro ondeggiare del mare. L’estremità del molo era per loro due soli: tutti gli altri a quell’ora e con quel tempo erano nella sala del concerto. Dei lampi apparivano qua e là all’orizzonte e la pioggia cadeva rada.

«Dove sei stato?» chiese il Ragazzo.

«Ho gironzolato,» rispose Spicer.

«Sei stato

«Volevo essere sicuro che tutto andasse bene e che tu non avessi dimenticato niente.»

Il Ragazzo disse lentamente, piegandosi all’infuori sulla balaustrata nella pioggia incerta: «Ho letto che, quando la gente commette un delitto, qualche volta ne deve commettere un altro – per far piazza pulita.» La parola delitto non aveva per lui un significato più grave di quello di altre parole come “scatola, colletto, giraffa”. Disse: «Spicer, tienti lontano da

L’immaginazione in lui non si ridestava mai. Era questa la sua forza. Non poteva vedere attraverso gli occhi altrui, né sentire con i loro nervi. Soltanto la musica lo rendeva inquieto, le corde dello strumento gli vibravano nel cuore: era come se i nervi perdessero la loro elasticità, come se la vecchiaia si avanzasse, e l’esperienza di altra gente gli martellasse il cervello. «Dov’è il resto della banda?» chiese.

«Da Sam, a bere.»

«Perché non sei anche tu a bere?»

«Non ho sete, Rossetto. Avevo bisogno di aria fresca. Questo tuonare rende strani.»

«Perché non la smettono di fare questo dannato baccano là dentro?» chiese il Ragazzo.

«Tu non vai da Sam?»

«Ho qualcosa da fare,» disse il Ragazzo.

«Va tutto bene, Rossetto, vero? Dopo quel verdetto, va tutto bene? Nessuno ha fatto domande.»

«Voglio essere proprio sicuro,» disse il Ragazzo.

«Nessuno della banda vorrà saperne di altre uccisioni.»

«Chi ti ha detto che ci sarà da uccidere?» Un lampo balenò e mise in mostra la sua giacchetta stretta e sdrucita, il ciuffo di capelli biondi sulla nuca. «Ho un appuntamento con una ragazza, ecco tutto. Stai attento a quello che dici, Spicer. Non mi fai il vigliacco, vero?»

«Non sono un vigliacco. Mi hai capito male, Rossetto. Soltanto non voglio altre uccisioni. Quel verdetto ci ha in certo modo sconcertato tutti. Cosa ha voluto dire? Siamo noi che l’abbiamo ammazzato, no, Rossetto?»

«Dobbiamo continuare a fare attenzione, ecco tutto.»

«Però, che cosa ha voluto dire quel verdetto? Non mi fido dei dottori. Un colpo come quello è troppo bello.»

«Dobbiamo fare attenzione.»

«Cos’hai in tasca, Rossetto?»

«Non porto nessuna pistola,» disse il Ragazzo. «Ti sogni le cose.» In città un orologio batté le undici: tre rintocchi si persero nel fulmine che si scaricava sulla Manica. «Faresti meglio ad andartene,» disse il Ragazzo. «È già in ritardo.»

«Tu hai lì un rasoio, Rossetto.»

«Non ho bisogno di rasoio con una pollastrella. Se vuoi proprio sapere cosa è, è una bottiglia.»

«Ma tu non bevi, Rossetto.»

«Nessuno vorrebbe bere questa roba.»

«Che cosa è, Rossetto?»

«Del vetriolo,» disse il Ragazzo. «Ti spaventa una ragazza più di un coltello.» Si distolse con un gesto d’impazienza dal mare e brontolò di nuovo «quella musica.» Si ripercuoteva lamentosa nel suo cervello nella notte calda satura di elettricità, era la sensazione più vicina alla tristezza che egli conoscesse, proprio come quella tenue sensazione di segreto piacere sensuale, che egli provava, tastando con le dita la bottiglietta del vetriolo, mentre Rosa arrivava di corsa dalla sala del concerto, era per lui più vicina alla passione. «Vattene,» disse a Spicer, «È qui.»

«Oh,» disse Rosa, «sono in ritardo. Ho fatto tutta la strada di corsa,» disse. «Pensavo che forse tu avresti creduto...»

«Avrei aspettato,» disse il Ragazzo.

«Era una serata terribile al caffè,» disse la ragazza. «Tutto andava male. Ho rotto due piattini e la panna era acida.» Tutto fu detto in un fiato solo. «Chi era il tuo amico?» chiese, cercando di vedere nell’oscurità.

«Non ha importanza,» disse il Ragazzo.

«Mi pareva quasi... Non ho potuto vedere bene...»

«Non ha importanza,» ripeté il Ragazzo.

«Che cosa faremo?»

«Ebbene, pensavo che prima potremmo stare un po’ qui a chiacchierare,» disse il Ragazzo, «e poi andare in qualche posto – da Sherry? Per me è lo stesso.»

«Mi piacerebbe andare da Sherry,» disse Rosa.

«Hai avuto il denaro per quel cartoncino?»

«Sì. Proprio stamattina.»

«Nessuno è venuto a farti delle domande?»

«Oh no. Ma non è stato terribile, che sia morto in quel modo?»

«Hai visto la sua fotografia?»

Rosa si avvicinò alla balaustrata e sollevò verso il Ragazzo un viso pallido.

«Ma non era lui. Ecco quello che non capisco.»

«La gente sembra diversa nelle fotografie.»

«Non dimentico mai le facce. E non era lui. Devono avere fatto degli imbrogli. Non ci si può mai fidare dei giornali.»

«Vieni qui,» disse il Ragazzo. Le fece svoltare l’angolo, finché non furono un poco più lontani dalla musica, più soli con il lampeggiare all’orizzonte e il tuono che brontolava vicino.

«Mi piaci,» disse il Ragazzo e un sorriso senza convinzione divaricava le sue labbra, «e voglio darti un consiglio. Quel tipo di Hale, ho sentito dire un mucchio di chiacchiere su di lui. Si era trovato immischiato in certe cose.»

«Che genere di cose?» sussurrò Rosa.

«Non preoccuparti di quali cose,» disse il Ragazzo. «Solo vorrei consigliarti, proprio per il tuo bene – tu hai avuto il denaro – di dimenticare, se fossi al tuo posto, tutto questo, dimenticare tutto riguardo a quel giovinotto che lasciò il cartoncino. È morto, vedi. Tu hai avuto il denaro. Ecco tutto quello che importa.»

«Farò come dici,» disse Rosa.

«Chiamami Rossetto, se ti va. È il nome che mi danno i miei amici.»

«Rossetto,» ripeté Rosa, provandosi timidamente a dirlo, mentre il fulmine le scoppiava sulla testa.

«Tu hai letto la storia di Peggy Baron, no?»

«No, Rossetto.»

«Era in tutti i giornali.»

«Non vedevo nessun giornale, finché non ho trovato questo lavoro. A casa non ci potevamo concedere il lusso di giornali.»

«Si è trovata immischiata in una banda,» disse il Ragazzo, «la gente venne a farle delle domande. È una cosa pericolosa.»

«Non vorrei trovarmi immischiata in una banda di quel genere,» disse Rosa.

«Non si può sempre impedirlo. Certe volte le cose vanno a quel modo.»

«Che cosa è accaduto?» chiese Rosa.

«Le hanno rovinato la faccia. Ha perduto un occhio. Le hanno gettato del vetriolo sul viso.»

Rosa sussurrò: «Vetriolo? Cosa è il vetriolo?» e il lampo illuminò un parapetto di legno incatramato, un’onda che si rompeva e il suo viso pallido, magro, atterrito.

«Non hai mai visto il vetriolo?» domandò il Ragazzo, sogghignando nell’oscurità. Le mostrò la bottiglietta. «Ecco del vetriolo.» Tolse il tappo e ne versò alcune gocce sul tavolato di legno del molo: sibilò come vapore. «Brucia,» disse il Ragazzo. «Sentine l’odore,» e le ficcò la bottiglietta sotto il naso.

Ella disse con sforzo: «Rossetto, tu non vorresti mai...»

«Ti stavo prendendo in giro,» egli le mentì senza sforzo. «Non è vetriolo, è soltanto alcool. Volevo metterti in guardia, ecco tutto. Tu ed io stiamo per diventare amici. Non voglio un’amica con la pelle bruciata. Tu mi dirai chiunque ti faccia delle domande. Chiunque – bada. Chiamami immediatamente al telefono da Frank. Tre-sei. Tientelo a mente.» La prese per il braccio per allontanarla dalla estremità solitaria del molo e ricondurla di nuovo vicino alla sala da concerto illuminata, alla musica che il vento portava verso terra, al lamento degli strumenti. «Rossetto,» ella disse, «non vorrei immischiarmi. Non mi immischio mai negli affari di nessuno. Non sono stata mai indiscreta. Te lo giuro.»

«Sei una buona bambina,» egli disse.

«Tu sai una quantità terribile di cose, Rossetto,» ella disse con orrore ed ammirazione: e ad un tratto nell’udire la vieta melodia romantica che l’orchestra stava suonando – deliziosa da guardare, bella da abbracciare, e il paradiso stesso – un sottile veleno di ira e di odio schizzò fuori dalle labbra del Ragazzo: «Si finisce per conoscere una quantità di cose» disse, «se si va in giro per il mondo. Su, andiamo da Sherry.»

Una volta lasciato il molo, dovettero mettersi a correre: i tassì li spruzzavano di acqua; le file di lampadine colorate lungo il viale Hove avvampavano come pozzi di petrolio attraverso la pioggia. Arrivati sulla soglia di Sherry, si scossero l’acqua di dosso e Rosa vide una coda su tutta la scala in attesa di salire alla galleria. «È pieno» disse, delusa.

«Andremo giù,» disse il Ragazzo, pagando i tre scellini d’ingresso, con noncuranza, come se ci andasse sempre, e si avanzò fra i tavolini, gli ebrei, le ballerine dalle lucenti capigliature metalliche e dalle borsettine nere, mentre le luci colorate scintillavano ora verdi, ora rosse, ora blu.

Rosa disse: «È carino qui. Mi fa venire in mente...» e nell’andare verso il loro tavolino, continuò ad enumerare ad alta voce tutte le cose che le ridestavano dei ricordi, le luci, la melodia che l’orchestra stava suonando, la folla che nel centro della sala cercava di danzare la rumba. Aveva una riserva immensa di ricordi insignificanti, e quando non viveva nel futuro, viveva nel passato. Quanto al presente, lo superava il più rapidamente possibile, sfuggendo via dalle cose, precipitandosi verso altre cose, cosicché la sua voce era sempre un poco affannata e il suo cuore batteva o per un’evasione o per un’attesa. «Io ho buttato il piatto sotto il grembiule e lei mi ha detto – Rosa, che cosa stai nascondendo?» e un minuto dopo volgeva degli occhi inesperti al Ragazzo, con uno sguardo pieno della più profonda ammirazione, della speranza più riverente.

«Che cosa vuoi bere?» chiese il Ragazzo.

Non conosceva neppure il nome di una bevanda. Nella Nelson Place, da cui era emersa come una talpa nella luce sfolgorante del ristorante Snow e del molo del Palace, non aveva mai conosciuto un ragazzo con denaro sufficiente per offrirle da bere. Avrebbe detto «birra,» ma non aveva avuto nessuna occasione di scoprire se la birra le piaceva.

Nei gelati da pochi soldi comprati su un triciclo Everest consisteva tutta la sua esperienza del lusso. Spalancò disperata gli occhi in faccia al Ragazzo, che le ripeté bruscamente:

«Che cosa vuoi bere? Non so quello che ti piace.»

«Un gelato,» ella disse delusa, ma non poteva fargli aspettare la risposta.

«Che specie di gelato?»

«Uno qualunque,» ella disse. In tutti gli anni di esistenza nel suo povero quartiere, Everest non le aveva mai offerto nessuna possibilità di scelta.

«Alla vaniglia?» chiese il cameriere. Ella fece cenno di sì col capo: supponeva che fosse quello che aveva sempre preso, come era infatti, soltanto di dimensioni maggiori, altrimenti le sarebbe proprio sembrato di trovarsi a leccarlo fra due cialde accanto a un triciclo.

«Sei una buona bambina,» disse il Ragazzo. «Quanti anni hai?»

«Diciassette,» rispose in tono di sfida. Una legge diceva che un uomo non può andare con una ragazza che non abbia diciassette anni.

«Anch’io ne ho diciassette,» disse il Ragazzo, e gli occhi che non erano mai stati giovani s’immersero con grigio disprezzo negli occhi che avevano appena incominciato a sapere una cosa o due. «Balli?» ed ella rispose umilmente: «Non ho mai ballato molto.»

«Non importa,» disse il Ragazzo, «il ballo non mi va.» E si volse a rimirare il lento movimento di quegli animali dalla doppia schiena; piacere, pensò, lo chiamano piacere: fu preso da un senso di solitudine, da una terribile mancanza di comprensione. Il centro venne sgombrato per l’ultimo numero di varietà della serata. Un proiettore illuminò un pezzo di pavimento, un cantante in abito da sera, un microfono posto su un lungo sostegno mobile. Egli se lo teneva teneramente stretto, come se fosse una donna, piegandolo gentilmente ora da un lato ora dall’altro, corteggiandolo con le labbra, mentre il suo sussurro dall’altoparlante sotto la galleria si ripercuoteva rauco in tutta la sala, come un dittatore che annunciasse una vittoria, come le notizie ufficiali che tengono dietro a un lungo periodo di censura. «Penetra in noi» disse il Ragazzo, «penetra in noi,» arrendendosi alla suggestione spudorata.

 

La musica parla, parla del nostro amore.

Lo stornello durante le nostre passeggiate parla,

Parla del nostro amore.

I tassì che suonano la tromba,

L’ultima civetta che ulula,

La metropolitana che rumoreggia,

L’ape affaccendata che ronza,

Parlano del nostro amore.

 

La musica parla, parla del nostro amore.

Il vento dell’ovest durante le nostre gite parla,

Parla del nostro amore.

L’usignolo che canta,

I postini che suonano il campanello,

Il trapano elettrico che geme,

Il telefono dell’ufficio,

Parlano del nostro amore.

 

Il Ragazzo fissò il proiettore: musica, amore, usignolo, postini: le parole risonavano nel suo cervello come poesia: una mano accarezzava la bottiglietta di vetriolo nella tasca, l’altra sfiorava il polso di Rosa. La voce non più umana sibilava per tutta la galleria e il Ragazzo rimase seduto in silenzio. Era lui che questa volta era messo in guardia: la vita aveva una sua bottiglia di vetriolo e lo metteva in guardia: ti sciuperò le fattezze. Glielo diceva nella musica, e quando egli protestava che per lo meno lui non si sarebbe mai lasciato impegolare, la musica aveva una sua replica pronta: «Non si può sempre impedirlo. Certe volte le cose vanno a quel modo.»

 

Il cane da guardia nelle nostre passeggiate parla,

Parla del nostro amore.

 

La folla stava attenta disposta su sei file dietro i tavolini (non c’era abbastanza spazio a pianterreno per tutta la gente). Il silenzio era di morte, come quando si eleva l’inno nazionale nel giorno dell’armistizio e il Re ha deposto la corona, tutti si tolgono il cappello, le truppe si irrigidiscono. Era ad un certo amore, ad una certa musica, ad una certa verità che prestavano l’orecchio.

 

Gracie Fields che scherza,

I banditi che sparano,

Parlano del nostro amore.

 

La musica risuonava sotto le lanterne cinesi e il proiettore rosso delineava l’ebreo che teneva il microfono più stretto alla camicia inamidata. «Sei mai stata innamorata?» chiese il Ragazzo in tono brusco e inquieto.

«Oh sì,» disse Rosa.

Il Ragazzo ribatté con perfidia improvvisa: «È naturale che tu lo sia stata. Sei inesperta. Non sai quello che fa la gente.» La musica terminò e nel silenzio egli rise forte: «Sei un’innocente.» La gente si rivoltò sulle seggiole e li guardò: una ragazza ridacchiò. Le sue dita pizzicarono il polso della ragazza. «Sei inesperta» egli disse di nuovo.

Si stava eccitando a una piccola rabbia sensuale, come gli era accaduto alla scuola comunale con i bambini deboli. «Non sai niente,» disse, esprimendo il suo disprezzo con le unghie.

«Oh no,» ella protestò, «so una quantità di cose.»

Il Ragazzo le rise in faccia: «neppure una» pizzicandole la pelle del polso, finché quasi le sue unghie non s’incontrarono. «Ti piacerebbe di avermi per innamorato, eh? Vogliamo metterci insieme?»

«Oh,» ella disse, «mi piacerebbe tanto.»

Lagrime di orgoglio e di dolore le spuntarono sotto le palpebre. «Se ti piace di farlo,» disse, «fai pure.»

Il Ragazzo smise. «Non essere remissiva,» disse. «Perché dovrebbe piacermi? Tu credi di sapere troppe cose,» si lamentò. Era lì seduto, con la rabbia in corpo come un carbone ardente, mentre la musica si elevava di nuovo: tutti i bei tempi di una volta, quando si divertiva con chiodi e schegge: gli scherzetti che aveva appreso in seguito con una lama di rasoio: dove andrebbe mai il divertimento, se la gente non gridasse?

Disse furioso: «Andiamocene, non posso sopportare questo posto,» e docilmente Rosa incominciò a preparare la borsetta, rimettendovi la cipria e il fazzoletto.

«Cos’è questo?» chiese il Ragazzo, nell’udire qualcosa tintinnare nella borsetta: ella gli mostrò l’estremità di un rosario.

«Sei cattolica?» disse il Ragazzo.

«Sì,» disse Rosa.

«Anch’io,» disse il Ragazzo. L’afferrò per il braccio, la spinse fuori nella strada oscura e gocciolante di pioggia. Rialzò il bavero della giacchetta e corse, mentre il lampo guizzava e il tuono riempiva l’aria. Corsero di porta in porta finché non si ritrovarono sul viale in uno dei casotti di vetro, deserto. Lo avevano tutto per loro nella notte rumorosa e soffocante. «Perbacco, una volta ho fatto parte di un coro,» confidò il Ragazzo, e improvvisamente incominciò a cantare dolcemente con la sua voce di bimbo viziato «Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem

Nella sua voce un intero mondo perduto riviveva – l’angolo illuminato sotto l’organo, l’odore dell’incenso e delle cotte di bucato, e la musica. La musica – non importava quale musica – l’Agnus Deideliziosa da guardare, bella da abbracciare – lo stornello nelle nostre passeggiate – credo in unum Dominum – qualsiasi musica lo commoveva, parlandogli di cose ch’egli non capiva.

«Vai a messa?» chiese.

«Qualche volta,» disse Rosa, «dipende dal lavoro. La maggior parte delle settimane non avrei molto da dormire, se andassi a messa.»

«Non m’importa di quello che tu fai,» disse brusco il Ragazzo. «Io non vado a messa.»

«Ma tu credi, però,» Rosa lo implorò, «credi davvero?»

«Ma certamente,» disse il Ragazzo. «Che cos’altro ci potrebbe esser di vero,» continuò in tono sprezzante. «Perbacco,» disse, «È l’unica cosa sicura. Questi atei, non sanno nulla. Certamente c’è l’inferno. Le fiamme e la dannazione,» disse con gli occhi fissi sull’acqua oscura e ondeggiante e sul lampeggiare e i fanali che si spegnevano al disopra degli archi neri del molo del Palace, «e i tormenti.»

«E il Cielo anche,» disse Rosa con ansietà, mentre la pioggia continuava interminabilmente a cadere.

«Oh, forse» disse il Ragazzo, «forse.»

 

Bagnato sino all’osso, i calzoni appiccicati alle gambe sottili, il Ragazzo salì la lunga scala senza tappeto che portava alla sua camera da letto da Frank. La ringhiera tremava sotto la sua mano e allorché egli aprì la porta e vi trovò la banda, che fumava seduta sul letto di ottone, disse furioso: «Quando mai quella ringhiera sarà aggiustata? Non è sicura. Uno di questi giorni qualcuno cadrà.» La tenda non era tirata, la finestra era aperta e l’ultimo lampo balenò fra i tetti grigi che si stendevano sino al mare. Il Ragazzo si avvicinò al letto e spazzò via le briciole del pasticcino alla salsiccia di Cubitt.

«Cosa c’è,» disse, «una riunione?»

«Ci sono delle difficoltà per le quote, Rossetto,» disse Cubitt. «Due non sono entrate. Di Brewer e Tate. Dicono che ora che Kite è morto...»

«Li dobbiamo sfregiare un poco, Rossetto?» domandò Dallow. Spicer era alla finestra e guardava il temporale. Non diceva nulla, ma fissava le fiamme e gli abissi del cielo.

«Chiedilo a Spicer,» disse il Ragazzo. «In questi ultimi tempi non ha fatto che meditare.»

Si voltarono tutti a guardare Spicer, il quale disse: «Forse sarebbe meglio che la smettessimo per un poco. Lo sapete che una quantità di ragazzi sono filati via, dopo che Kite è stato ucciso.»

«Da bravi,» disse il Ragazzo, «dategli ascolto. È quello che si dice un filosofo.»

«Ma insomma,» disse Spicer in tono arrabbiato, «c’è libertà di parola in questa banda, no? Quelli che sono filati via, non vedevano come un ragazzo potesse dirigere questa ruzza.»

Il Ragazzo, seduto sul letto, lo guardava fisso, tenendo le mani nelle tasche bagnate. Un istante ebbe un brivido.

«Io sono sempre stato contrario a uccidere,» disse Spicer. «Non me ne importa che lo si sappia.»

«Acido e vigliacco,» disse il Ragazzo.

Spicer si avanzò nel mezzo della stanza. «Ascolta, Rossetto,» disse. «Sii ragionevole.» Si appellò a tutti loro. «Siate ragionevoli.»

«C’è del vero in quello che lui dice,» improvvisamente Cubitt s’interpose. «Ce la siamo cavata bene. Non vogliamo attirare l’attenzione su di noi. Sarebbe meglio di lasciare per un po’ tranquilli Brewer e Tate.»

Il Ragazzo si alzò in piedi. Alcune briciole si erano appiccicate al vestito bagnato.

«Sei pronto, Dallow?» domandò.

«Ai tuoi ordini, Rossetto,» disse Dallow, con una smorfia da cane affezionato.

«Dove vai, Rossetto?» chiese Spicer.

«Vado da Brewer.»

Cubitt disse: «Ti comporti come se avessimo ammazzato Hale l’anno scorso, non la settimana scorsa. Dobbiamo agire con precauzione.»

«Quella è una faccenda bell’è finita,» disse il Ragazzo. «Avete sentito il verdetto. Morte naturale,» egli disse, volgendo lo sguardo fuori, al temporale che stava scemando.

«Dimentichi quella ragazza di Snow. Potrebbe farci impiccare.»

«Mi sto occupando io della ragazza. Non parlerà.»

«La sposerai, vero?» disse Cubitt. Dallow rise.

Il Ragazzo si tolse le mani di tasca, le nocche strette da esserne bianche.

Disse: «Chi vi ha detto che la sposerò?»

«Spicer,» rispose Cubitt.

Spicer indietreggiò per allontanarsi dal Ragazzo. Disse: «Ascolta, Rossetto. Ho detto soltanto che questo l’avrebbe resa innocua. Una moglie non può testimoniare...»

«Non ho bisogno di sposarmi uno sgorbio per renderlo innocuo. Come faremo per rendere innocuo te, Spicer?» La lingua gli uscì fra i denti a leccare gli angoli delle labbra secche e screpolate. «Se una sfregiatina ci riuscisse...»

«Non era che uno scherzo,» disse Cubitt, «non hai bisogno di prenderlo in modo così solenne. Ti manca il senso dell’umorismo, Rossetto.»

«Vi pareva divertente, eh?» chiese il Ragazzo. «Io sposare quella ragazza da niente.» Gracchiò: «Ah, ah,» e rivolgendosi verso di loro: «Me lo terrò a mente. Andiamo, Dallow.»

«Aspetta fino a domattina,» disse Cubitt. «Aspetta che venga qualcuno degli altri ragazzi.»

«Anche tu un vigliacco?»

«Non puoi pensarlo, Rossetto. Ma dobbiamo andare adagio.»

«Sei con me, Dallow?» disse il Ragazzo.

«Sono con te, Rossetto.»

«Allora andiamo,» disse il Ragazzo. Traversò la camera, si avvicinò al lavabo e aprì lo sportello dove stava il pitale. Tastò dietro il pitale e ne cavò fuori una lametta, come quelle con cui le donne si tolgono i peli, ma con un lato spuntato e ricoperto di taffetà. La ficcò sotto l’unghia lunga del pollice, l’unica che non fosse rosicchiata, e infilò il guanto. Disse:

«Saremo di ritorno con la Metropolitana fra mezz’ora,» e infilò dritto le scale di Frank. Il freddo dei vestiti inzuppati gli era penetrato sotto la pelle: uscì fuori sul marciapiedi un passo avanti a Dallow, il viso acceso dalla febbre, le spalle strette contratte dai brividi. Senza voltare la testa, disse a Dallow: «Andiamo da Brewer. Una lezione basterà.»

«Come vuoi, Rossetto,» disse Dallow, tenendogli dietro a fatica.

La pioggia era cessata: era marea bassa e l’orlo del mare che si era ritirato andava raspando ben lontano dal margine della sabbia. Un orologio sonò la mezzanotte. Di botto Dallow incominciò a ridere.

«Che ti ha preso, Dallow?»

«Stavo pensando,» rispose Dallow. «Sei un tipetto magnifico, Rossetto. Kite aveva avuto ragione di agguantarti. Vai diritto allo scopo!»

«Hai ragione,» disse il Ragazzo, guardando fisso dinanzi a sé, il volto alterato dalla febbre. Passarono oltre il Cosmopolitan, le cui luci brillavano qua e là su tutta la vasta facciata fino alle torrette stagliate contro il cielo tutto a nuvole in moto. Da Snow, quando ci passarono dinanzi, una sola luce trapelava. Svoltarono per l’Old Steyne.

Brewer aveva una casa accanto alla linea tramviaria sulla strada di Lewes, quasi sotto il viadotto della ferrovia.

«È andato a letto,» disse Dallow. Il Rossetto suonò il campanello, tenendo il dito sul bottone. Da un lato e dall’altro si susseguivano delle botteghe basse, chiuse da imposte, un tram passò senza nessuno e con la scritta «al deposito», scampanellando e oscillando giù per la strada deserta, mentre il bigliettaio sonnecchiava su un sedile all’interno, e il rivestimento superiore luccicava per il temporale. Il Rossetto continuava a tenere il dito sul campanello.

«Perché mai Spicer avrà detto quello – che io mi sposerò?» disse il Ragazzo.

«Pensava soltanto che questo le avrebbe tappata la bocca,» disse Dallow.

«Non è lei che mi tiene sveglio,» disse il Ragazzo, continuando a premere il campanello. Una luce si accese al primo piano, una finestra scricchiolò e una voce chiese: «Chi è?»

«Sono io,» disse il Ragazzo. «Il Rossetto.»

«Cosa vuoi? Perché non vieni di mattina?»

«Ho bisogno di parlarti, Brewer.»

«Non ho niente da dirti, Rossetto, che non possa aspettare.»

«Faresti meglio ad aprire, Brewer. Non vorrai che tutta la banda venga qui.»

«La vecchia sta terribilmente male, Rossetto. Non voglio essere disturbato. Si è addormentata. Erano tre notti che non dormiva.»

«Questo la sveglierà,» disse il Ragazzo, con il dito sul campanello. Lungo il viadotto passò un lento treno merci, gettando fumo nella strada.

«Smettila, Rossetto, e ti aprirò.»

Il Ragazzo rabbrividì mentre aspettava, la mano inguantata ben ficcata nella tasca umida. Brewer aprì la porta; un tipo tozzo di mezza età, in un pigiama bianco sporco. L’ultimo bottone mancava e la giacchetta ciondolava sulla pancia prominente dall’ombelico fondo. «Entra, Rossetto,» disse, «cammina adagio. La vecchia sta male. Dal cruccio stavo perdendo la testa.»

«È per questo che non hai pagato la quota, Brewer?» chiese il Ragazzo. Si guardò attorno con disprezzo nello stretto ingresso – il bossolo di proiettile trasformato in portaombrelli; la testa di cervo tarmata che portava su un corno un cappello duro; un elmetto di acciaio che conteneva una piantina di felce. Kite avrebbe dovuto farli guadagnare di più. Brewer si era appena innalzato al disopra delle scommesse fatte all’angolo della strada, e nei bar. Un pasticcione. Non c’era mezzo di ricavare più del dieci per cento dalle sue scommesse.

Brewer disse: «Entrate qui e accomodatevi. Qui fa caldo. Che notte fredda!»

Aveva dei modi falsamente allegri anche in pigiama. Era come un avviso pubblicitario su un programma delle corse. «Una vecchia Ditta. Potete fidarvi del vecchio Bill Brewer.» Aprì il robinetto del gas, accese una lampada da tavolo con un paralume di seta rossa dalla frangia di perline. La luce brillò su un portadolci argentato e su una fotografia di nozze incorniciata.

«Volete un dito di whisky?» offrì Brewer.

«Lo sai che non bevo,» disse il Ragazzo.

«Ted lo prenderà,» disse Brewer.

«Non rifiuto un dito,» disse Dallow. Sogghignò e disse: «Eccoci qua.»

«Siamo venuti per quella quota, Brewer,» disse il Ragazzo.

L’uomo in pigiama bianco si versò del selz nel bicchiere. Voltando la schiena sorvegliava il Rossetto nello specchio al disopra della credenza, finché non incontrò gli occhi dell’altro. Disse: «Sono preoccupato, Rossetto. Sempre, da quando Kite fu fatto fuori.»

«Ebbene?» disse il Ragazzo.

«Le cose stanno così. Mi sono detto, se la banda di Kite non può neppure proteggere...» s’interruppe bruscamente e si mise in ascolto. «È la vecchia?» Debolissimo giunse un suono di tosse dalla camera di sopra. Brewer disse: «Si è svegliata. Devo andare a vederla.»

«Rimani qui a parlare,» disse il Ragazzo.

«Avrà bisogno di essere rivoltata.»

«Quando avremo finito, potrai andare.»

Tosse, tosse, tosse: era come una macchina che cercasse di mettersi in moto e non vi riuscisse. Brewer disse disperatamente: «Siate umani. Non saprà dove mi sono andato a ficcare. Non starò via che un minuto.»

«Non c’è bisogno che tu ti fermi qui più di un minuto,» disse il Ragazzo. «Non vogliamo che quello che ci spetta. Venti sterline.»

«Non ce le ho in casa. Sinceramente, non ce le ho.»

«Peggio per te.» Il Ragazzo si tolse il guanto destro.

«Le cose stanno così, Rossetto. Le ho date tutte via ieri. A Colleoni.»

«In nome di Gesù,» disse il Ragazzo, «che c’entra Colleoni?»

Brewer continuò a parlare rapido e disperato, prestando l’orecchio alla tosse, tosse, tosse di sopra. «Sii ragionevole, Rossetto. Non vi posso pagare tutti e due. Sarei stato fatto fuori, se non avessi pagato Colleoni.»

«È a Brighton?»

«È al Cosmopolitan.»

«E Tate – anche Tate ha pagato Colleoni?»

«Proprio così, Rossetto. Sta facendo affari su larga scala.» Su larga scala era come un’accusa, un ricordo del letto d’ottone da Frank, delle briciole sul materasso.

«Mi credi finito?» chiese il Ragazzo.

«Segui il mio consiglio, Rossetto, e mettiti d’accordo con Colleoni.»

Il Ragazzo di botto tirò fuori la mano e sfregiò la guancia di Brewer con l’unghia armata di lametta. Fece scaturire il sangue dallo zigomo. «Non farlo,» disse Brewer, «non farlo,» indietreggiando contro la credenza, e rovesciando il portadolci. Disse: «C’è chi mi protegge. Stai attento. C’è chi mi protegge.»

Il Ragazzo rise. Dallow si riempì nuovamente il bicchiere con il whisky di Brewer.

Il Ragazzo disse: «Guardatelo. C’è chi lo protegge.» Dallow sprizzò un po’ di selz nel bicchiere.

«Ne vuoi ancora?» disse il Ragazzo. «Era solo per farti vedere chi è che ti protegge.»

«Non posso pagarvi tutti e due, Rossetto. Per amor di Dio, stai indietro.»

«È per quelle venti sterline che siamo venuti, Brewer.»

«Colleoni vorrà il mio sangue, Rossetto.»

«Non preoccuparti. Ti proteggeremo.»

La donna di sopra continuava a tossire, tossire, tossire, e poi si udì un debole grido come di un bimbo nel sonno. «Mi chiama,» disse Brewer.

«Le venti sterline.»

«Non ho qui il denaro. Lascia che lo vada a prendere.»

«Vai con lui, Dallow» disse il Ragazzo. «Aspetterò qui» e si sedette su una seggiola scolpita a schienale diritto da sala da pranzo e guardò fuori – la strada misera, le pattumiere lungo il marciapiedi, l’ombra voluminosa del viadotto.

Rimase lì perfettamente immobile, con i suoi occhi grigi da vecchio che non lasciavano trapelare nulla.

Su larga scala – Colleoni ci si era messo su larga scala – lo sapeva che non c’era un essere nella banda di cui potesse fidarsi, eccetto forse Dallow. Questo non aveva importanza. Non si possono commettere degli sbagli quando non ci si fida di nessuno. Un gatto costeggiò con cautela una pattumiera sul marciapiede, si arrestò bruscamente, si rannicchiò all’indietro, e nella penombra i suoi occhi di agata fissarono il Ragazzo. Ragazzo e gatto non si mossero, sorvegliandosi l’un l’altro, finché Dallow non fu di ritorno.

«Ho il denaro, Rossetto,» disse Dallow. Il Ragazzo volse il capo per ridacchiare con Dallow; d’un tratto il suo volto si contrasse ed egli starnutì due volte, con violenza. Sopra, la tosse era cessata. «Non dimenticherà questa visita,» disse Dallow. E aggiunse con sollecitudine: «Dovresti bere un dito di whisky, Rossetto. Hai preso freddo.»

«Sto benone,» disse il Ragazzo. Si alzò in piedi. «Non ci fermeremo a fare i saluti.»

Il Ragazzo andava avanti nel mezzo della strada deserta fra le rotaie del tram. Disse ad un tratto: «Mi credi finito, Dallow?»

«Tu?» disse Dallow. «Ma se non hai neppure incominciato!» Camminarono per un poco in silenzio e l’acqua dalle grondaie gocciolava sul marciapiede. Poi Dallow parlò.

«Ti preoccupi per Colleoni?»

«Non mi preoccupo.»

Dallow disse improvvisamente: «Vali una dozzina di Colleoni. Il Cosmopolitan!» esclamò e sputò per terra.

«Kite pensava di darsi alle macchine automatiche. Poi ci ha ripensato. Ora Colleoni crede che il campo sia libero. Sta allargando le sue attività.»

«Avrebbe dovuto imparare da Hale.»

«Hale è morto di morte naturale.»

Dallow rise: «Dillo a Spicer.» Svoltarono l’angolo presso il Royal Albion e di nuovo il mare fu accanto a loro – la marea era cambiata – tutto moto, onde, oscurità. Improvvisamente il Ragazzo gettò un’occhiata di fianco su Dallow – di lui poteva fidarsi – traendo dal viso brutto e deformato un senso di trionfo, di cameratismo e di superiorità. Provava la stessa sensazione che prova uno scolaro fisicamente debole, ma astuto, che si è fatto del ragazzo più forte della classe un amico di fedeltà indiscutibile. «Semplicione,» disse e gli diede un pizzicotto sul braccio. Era qualcosa che si avvicinava all’affetto.

Da Frank una luce brillava ancora e Spicer li stava aspettando nell’ingresso.

«È successo qualcosa?» chiese ansiosamente. Il suo viso pallido si era fatto a chiazze intorno alla bocca e al naso.

«Che ti credi?» gli gridò il Ragazzo, nel salire le scale. «Abbiamo portato la quota.»

Spicer lo seguì nella stanza da letto. «Ti hanno chiamato al telefono, non appena eri andato via.»

«Chi?»

«Una ragazza che si chiama Rosa.»

Il Ragazzo era seduto sul letto e si stava slacciando una scarpa.

«Cosa voleva?» chiese.

«Ha detto che mentre era a spasso con te, è venuta una persona a chiedere di lei.»

Il Ragazzo rimase immobile, con la scarpa in mano. «Rossetto,» chiese Spicer, «È quella ragazza? Quella di Snow?»

«Naturalmente.»

«Ho risposto io al telefono, Rossetto.»

«Ha riconosciuto la tua voce?»

«E come posso saperlo?»

«Chi ha chiesto di lei?»

«Non lo sapeva. Ha detto di dirtelo, perché tu volevi saperlo. Rossetto, e se la Polizia ci fosse arrivata?»

«La Polizia non è così furba,» rispose il Ragazzo. «Forse è uno degli uomini di Colleoni, che si sta informando del loro compagno Fred.» Si tolse l’altra scarpa. «Non hai bisogno di fare il vigliacco, Spicer.»

«Era una donna, Rossetto.»

«Non me ne preoccupo. Fred è morto di morte naturale. Questo è il verdetto. Puoi dimenticartene. Adesso ci sono altre cose a cui pensare.» Pose le scarpe l’una accanto all’altra sotto il letto, si tolse la giacca, l’appese a un pomo del letto, e si sdraiò sopra il letto in pantaloni e camicia. «Sto pensando, Spicer, che dovresti prenderti un po’ di vacanza... Hai l’aria disfatta. Non vorrei vedere nessuno con un aspetto come il tuo.» Chiuse gli occhi. «Vattene via, Spicer, e prendi le cose allegramente.»

«Se quella ragazza venisse mai a sapere chi ha messo il cartoncino...»

«Non lo saprà mai. Spegni la luce e vattene.»

La luce si spense e fuori la luna si accese come una lampada, risalendo di sbieco lungo i tetti, deponendo sulle colline l’ombra delle nuvole, illuminando le tribune bianche e deserte del campo di corsa al disopra di Whitehawk Bottom e i monoliti di Stonehenge, risplendendo sulla marea che da Boulogne saliva e veniva a frangersi contro i pilastri del molo del Palace. Illuminò il lavabo, lo sportello aperto, dove stava il pitale, i pomi di ottone alla estremità del letto.