Parte terza

Capitolo primo

Ida Arnold si rizzò a sedere sul letto della pensione. Per un istante non seppe dov’era. La testa, dopo quella notte di bagordi da Sherry, le faceva male. Lentamente, mentre fissava la pesante brocca sul pavimento, la bacinella di acqua grigia in cui si era lavata sommariamente, le rose di un vivo incarnato sulla carta del parato, una fotografia nuziale, le riuscì di ricordare: Filippo Corkery che indugiava nervoso fuori del portone, Fil Corkery che la baciava a fior di labbra, che se ne andava via oscillando per il viale, come se null’altro potesse aspettarsi, mentre la marea si ritirava. Si guardò attorno nella stanza: nella luce del mattino non le sembrò così bella come quando l’aveva fissata, ma «è intima», pensò soddisfatta, «è come piace a me.»

Il sole splendeva: Brighton si presentava sotto l’aspetto migliore. Il corridoio fuori della sua camera era cosparso di sabbia, ed ella continuò a sentirsela sotto i piedi nello scendere abbasso; e nel vestibolo c’erano un secchiello e due palette e un lungo tralcio di alghe appeso alla porta come un barometro. Da ogni parte si vedevano dei sandali da spiaggia, e dalla sala da pranzo giungeva la querula voce di un bimbo, che continuava a ripetere: «Non voglio scavare la sabbia, voglio andare al cinematografo, non voglio scavare la sabbia.»

All’una ella si sarebbe incontrata con Fil Corkery da Snow. Ma prima c’erano altre cose da fare: doveva preoccuparsi di trovare del denaro, non consumarne troppo in birra Guinness. Non era economico vivere a Brighton, ed ella non aveva intenzione di farsi dare dei soldi da Corkery – aveva una sua coscienza, un suo codice morale, e se accettava del denaro, dava qualcosa in ricambio. La soluzione era in Black Boy: e doveva occuparsene anzitutto, prima che la quotazione diminuisse: il denaro era il nerbo della lotta: ed ella si diresse verso Kemp Town dall’unico allibratore che conoscesse, il vecchio Jim Tate, «l’onesto Tate» del recinto a prezzi popolari.

Non appena la vide entrare nell’ufficio, questi le mugghiò: «Ecco Ida. Si sieda, signora Turner,» sbagliando nome. Le porse una scatola di Gold Flakes: «Aspiri questo tabacco.» Era di grandezza superiore alla normale. La sua voce, dopo venti anni di campi di corse, non poteva trovare alcuna tonalità che non fosse forte e rauca. Era un tipo che bisognava guardare attraverso l’estremità sbagliata di un telescopio, per crederlo la brava e sana creatura che egli voleva dare ad intendere di essere. Da vicino, gli si vedevano le fitte vene azzurre sulla fronte a sinistra, la rossa ragnatela intorno alle pupille.

«Ebbene, signora Turner, Ida, qual è il suo preferito?»

«Black Boy,» rispose Ida.

«Black Boy,» ripeté Jim Tate. «Lo do dieci a uno.»

«Dodici a uno.»

«La quotazione è diminuita. Hanno puntato una grossa somma su Black Boy questa settimana, non lo avrebbe a dieci a uno da nessuno che non fosse questo suo vecchio amico.»

«Benissimo,» disse Ida. «Mi segni per 25 sterline. E non mi chiamo Turner, mi chiamo Arnold.»

«Venti bigliettoni. È una scommessa grossa per lei, signora. Comunque lei si chiami.» Si leccò il pollice e incominciò a contare i biglietti. A metà del lavoro si interruppe, e rimase immobile allo scrittoio come un grosso rospo, tendendo l’orecchio. Attraverso la finestra aperta penetravano molti rumori, passi sulle pietre, voci, musiche lontane, dei campanelli che suonavano, il mormorio continuo della Manica. Rimase seduto perfettamente immobile, con in mano metà dei biglietti. Sembrava inquieto. Il telefono squillò. Lo lasciò suonare per due secondi, gli occhi striati fissi su Ida, poi sollevò il ricevitore.

«Pronto, pronto, parla Jim Tate.» Era un telefono di modello antiquato. Si incollò il ricevitore all’orecchio e rimase immobile, mentre una voce bassa ronzava come un’ape.

Tenendo con una mano il ricevitore appiccicato all’orecchio, Jim Tate riunì i biglietti, preparò un talloncino. Disse con voce rauca: «Va benissimo, signor Colleoni, lo farò, signor Colleoni,» e riabbassò il ricevitore.

«Ha scritto Black Dog,» disse Ida.

La guardò male. Gli ci volle un istante per capire. «Black Dog, cane nero,» disse e rise, di un riso rauco e cavernoso. «A che pensavo mai? Davvero, Cane nero!»

«Significa preoccupazioni,» disse Ida. «I Pontefici solevano trovarli sotto il letto.»

«Beh,» egli mugghiò con un buon umore non convincente, «c’è sempre qualcosa per cui ci si deve preoccupare.» Il telefono squillò di nuovo. Jim Tate prese l’aria di chi se ne aspettasse una stilettata.

«Lei ha da fare,» disse Ida, «me ne vado.»

Quando si trovò in istrada, guardò da una parte e dall’altra per vedere se le riusciva di scorgere una ragione dell’inquietudine di Jim Tate; ma non si vedeva nulla: solo Brighton, con la sua vita solita, in una bella giornata. Entrò in un bar e si fece dare un bicchiere di Porto Douro. Se lo sentì scorrere giù caldo, dolce e profumato. Ne bevve un altro. «Chi è il signor Colleoni?» chiese al barista.

«Lei non sa chi è Colleoni?»

«Non l’ho mai sentito nominare fino a un momento fa.»

Il barista disse: «Sta subentrando a Kite.»

«Chi è Kite?»

«Chi era Kite? Non ha saputo come è stato sgozzato a S. Pancrazio?»

«No.»

«Non credo che volessero farlo,» continuò il barista, «volevano soltanto sfregiarlo, ma un rasoio è sfuggito di mano.»

«Beva anche lei.»

«Grazie. Prenderò un gin.»

«Cincin.»

«Cincin.»

«Non avevo sentito niente di tutto ciò,» disse Ida. Al disopra della spalla del barista guardò l’orologio: nulla da fare sino all’una: tanto valeva bere un altro bicchierino e intanto chiacchierare. «Mi dia un altro Porto. Quando è successo tutto questo?»

«Oh, prima della Pentecoste.»

La parola Pentecoste ora la colpiva sempre: significava una quantità di cose, un biglietto sporco da dieci scellini, i gradini bianchi della scala che scendeva al gabinetto per signore, la TRAGEDIA in lettere maiuscole. «E che ne è degli amici di Kite?» ella chiese.

«Non hanno nessuna probabilità di successo, ora che Kite è morto. La banda non ha capo. Che vuole, si raggruppano tutti intorno a un ragazzetto di diciassette anni. Un ragazzetto simile che potrà fare contro Colleoni?» Si chinò sul banco e sussurrò: «Ha sfregiato Brewer la notte scorsa.»

«Chi? Colleoni?»

«No, il Ragazzo.»

«Non so chi è Brewer,» disse Ida, «ma le cose mi sembrano animate.»

«Aspetti che incomincino le corse,» disse l’uomo. «Allora sì che saranno animate. Colleoni vuole avere il monopolio. Svelta, guardi dalla finestra e lo vedrà.»

Ida si avvicinò alla finestra per guardare fuori, e di nuovo vide solo la Brighton che conosceva: non vi aveva visto nulla di diverso persino il giorno che Fred era morto: due ragazze in pigiama da spiaggia che camminavano a braccetto, degli autobus che passavano diretti a Rottingdean, un uomo che vendeva dei giornali, una donna con una borsa per la spesa, un ragazzo dall’abito sdrucito, un piroscafo da crociera che rimpiccioliva, quanto più si allontanava dal molo, e il molo stesso che si stendeva lungo, luminoso e trasparente, come un granchiolino nella luce del sole.

Ella disse: «Non vedo nessuno.»

«Ora se ne è andato.»

«Chi? Colleoni?»

«No, il Ragazzo.»

«Che,» disse Ida, «quel ragazzo,» riavvicinandosi al bar, e bevendo il suo Porto.

«Scommetto che quello deve avere delle belle preoccupazioni!»

«Un marmocchio di quell’età non dovrebbe immischiarsi in cose del genere,» disse Ida. «Se fosse mio, gliene farei passare la voglia a furia di bastonate.»

Con queste parole stava per dimenticarlo, per distogliere la sua attenzione da lui, facendo ruotare il suo cervello intorno all’asse come una gigantesca draga di acciaio, quando si ricordò: un viso in un bar, visto al disopra della spalla di Fred, il suono di un bicchiere che s’infrangeva, «Il signore pagherà.» Aveva una memoria da re.

«Si è mai incontrato con Kolley Kibber?»

«Mai avuto tanta fortuna,» disse il barista.

«È sembrata strana quella sua morte. Deve avere fatto nascere un bel po’ di chiacchiere.»

«Non ho sentito nulla,» disse il barista. «Non era uno di Brighton, nessuno lo conosceva da queste parti. Era un forestiero.»

Un forestiero: la parola non aveva alcun significato per lei: non c’era nessun luogo al mondo in cui ella si sentisse forestiera. Rimescolò la feccia del Porto da poco prezzo sul fondo del bicchiere e osservò senza rivolgersi a nessuno in particolare: «La vita è bella.» Non c’era nulla con cui ella non si sentisse in affinità; lo specchio pubblicitario dietro la schiena del barista rifletteva la sua figura, le ragazze della spiaggia passeggiavano ridendo su e giù per il viale: il gong risonava sul piroscafo per Boulogne: la vita era bella. Solamente il buio entro cui il Ragazzo camminava, allontanandosi da Frank, ritornando da Frank, le era estraneo: ella non aveva compassione per qualcosa che non comprendeva. Disse: «Me ne andrò.»

Non era ancora l’una, ma c’erano delle domande che ci teneva a fare prima dell’arrivo del signor Corkery. Disse alla prima cameriera che incontrò: «È lei la fortunata?»

«Non che io sappia,» rispose freddamente la cameriera.

«Voglio dire quella che ha trovato il cartoncino – il cartoncino di Kolley Kibber.»

«Oh, è quella là,» rispose la cameriera, indicandola con un cenno sprezzante del mento aguzzo e incipriato.

Ida cambiò tavola. Disse: «Ho un amico che deve venire. Dovrò aspettarlo, ma vorrei sgranocchiare qualcosa. È buona la focaccia di patate?»

«Sembra ottima.»

«Con una crosta ben colorita?»

«È una meraviglia.»

«Come ti chiami, cara?»

«Rosa.»

«Ma, se non sbaglio,» disse Ida, «sei tu la fortunata che ha trovato il cartoncino?»

«Gliel’hanno detto loro?» chiese Rosa. «Non me l’hanno perdonato. Trovano che non avrei dovuto avere tanta fortuna nel mio primo giorno.»

«Il tuo primo giorno? Davvero ch’è stata una fortuna. Non dimenticherai tanto presto quel giorno.»

«No,» disse Rosa, «lo ricorderò sempre.»

«Non dovrei tenerti qui a chiacchierare.»

«Se vuole, continui pure. Dovrebbe fare finta di ordinare qualcosa. Non c’è nessun altro da servire e sto per cadere dalla stanchezza con questi vassoi!»

«Non ti piace questo lavoro?»

«Oh,» disse Rosa in fretta, «non dico questo. È un buon posto. Non vorrei per tutto il mondo avere qualcosa d’altro. Non vorrei essere in un albergo o da Chessman, neppure se mi pagassero due volte tanto. Qui è elegante,» continuò, sorvolando con lo sguardo la distesa di tavolini dipinti di verde, le margherite, i tovagliolini di carta, le bottigliette di salsa.

«Sei di qui?»

«Ho sempre vissuto qui tutta la vita,» disse Rosa «in piazza Nelson. È un buon posto per me, perché si ha anche l’alloggio. Non siamo che in tre nella mia stanza e abbiamo due specchi.»

«Quanti anni hai?»

Rosa si chinò soddisfatta sulla tavola:

«Sedici,» disse, «ma non l’ho detto. Dico di averne diciassette. Se lo sapessero, direbbero che non ho un’età sufficiente. Mi rimanderebbero...» esitò un lungo momento prima di pronunciare la terribile parola “a casa”.

«Devi essere stata ben contenta,» disse Ida, «quando hai trovato quel cartoncino.»

«Oh sì.»

«Credi che potrei avere un bicchiere di birra scura, cara?»

«Dobbiamo mandarla a prendere fuori,» disse Rosa. «Se lei mi dà il denaro...»

Ida aprì la borsetta. «Immagino che non dimenticherai mai quell’ometto.»

«Oh non era tanto...» Rosa incominciò e improvvisamente si interruppe, gettando un’occhiata attraverso la finestra di Snow sul molo al di là del viale.

«Non era che cosa?» disse Ida. «Che cosa stavi per dire?»

«Non ricordo,» disse Rosa.

«Ti avevo appena chiesto se avresti mai dimenticato quell’ometto.»

«Mi è passato di mente,» disse Rosa.

«Le andrò a comperare la birra. Costa così caro un bicchiere di birra scura?» chiese, prendendo le due monete da uno scellino.

«Una è per te, cara,» disse Ida. «Sono curiosa. Non posso farne a meno. Sono fatta a questo modo. Dimmi, che aspetto aveva?»

«Non so. Non ricordo. Non ho nessuna memoria per le facce.»

«Non puoi averla, cara, altrimenti lo avresti fermato. Dovevi avere visto la sua fotografia nei giornali.»

«Lo so. Sono sciocca in quelle cose.» Era lì in piedi, pallida, decisa, ansimante e colpevole.

«E allora sarebbero state dieci ghinee non dieci scellini.»

«Andrò a comperare la sua birra.»

«Dopo tutto, forse aspetterò. Il signore, che mi ha invitato a colazione, potrà pagare.» Ida raccattò di nuovo le monete e gli occhi di Rosa seguirono la mano che li riponeva nella borsa. «Chi non spreca, non chiede,» disse Ida con voce gentile, osservando i particolari del viso scarno, la bocca larga, gli occhi troppo discosti, il pallore, la corporatura ancora acerba; e di nuovo d’un tratto si rifece allegra e rumorosa nel chiamare «Fil Corkery, Fil Corkery,» agitando la mano.

Il signor Corkery indossava una giacca di flanella con uno stemma e, sotto, un colletto duro. Sembrava un essere che avesse bisogno di essere nutrito, quasi fosse consumato da passioni che non aveva mai avuto il coraggio di esprimere.

«Allegro, Fil. Che vuoi mangiare?»

«Bistecca di rognone,» disse malinconicamente il signor Corkery. «Cameriera, vogliamo bere.»

«Dobbiamo mandare a prendere fuori.»

«Bene, in questo caso, due bottiglie grandi di birra Guinness,» disse il signor Corkery.

Quando Rosa fu di ritorno, Ida la presentò al signor Corkery: «È la ragazza fortunata che ha trovato un cartoncino.»

Rosa si voltò per andarsene, ma Ida la trattenne, afferrandola saldamente per la manica di cotone nero. «Aveva mangiato molto?» disse.

«Non ricordo nulla,» disse Rosa, «proprio non ricordo.» I loro visi, un poco arrossati dal caldo sole estivo, erano come dei segnali di pericolo.

«Si sarebbe detto,» chiese Ida, «un uomo che stava per morire?»

«Come posso dirlo?» disse Rosa.

«Suppongo che avrai parlato con lui?»

«Non gli ho parlato. Gli ho portato una birra Bass e un pasticcino alla salsiccia, e non l’ho mai più visto.»

Strappò la manica dalla mano di Ida e sparì via.

«Non puoi cavarne molto,» disse il signor Corkery.

«Oh, sì, che lo posso,» disse Ida, «più di quanto non chiedessi.»

«Ebbene, cosa c’è che non va?»

«C’è quello che la ragazza ha detto.»

«Non ha detto molto.»

«Ha detto abbastanza. Ho sempre avuto l’impressione che ci fosse qualcosa che puzzava. Vedi, nel tassì quell’uomo mi aveva detto che stava per morire e per un momento gli ho creduto: la cosa mi ha sconvolto, finché lui non mi ha detto che era tutta un’invenzione.»

«Però stava per morire.»

«Le sue parole non avevano quel significato. Me lo dice l’istinto.»

«Ad ogni modo,» disse il signor Corkery, «c’è il verdetto che è morto di morte naturale. Non vedo che ci sia di che preoccuparsi. Ida, è una bella giornata, andiamo sulla Brighton Belle; e quando saremo lassù, ne riparleremo. In mare non c’è orario di chiusura. Dopo tutto, se si è ammazzato, è affare suo.»

«Se si è ammazzato,» disse Ida, «fu costretto a farlo. Ho sentito quello che ha detto la ragazza e so questo – non era lui che ha lasciato qui il cartoncino.»

«Buon Dio,» disse il signor Corkery, «che vuoi dire? Non dovresti parlare in questo modo, è pericoloso.» Inghiottì nervosamente e il pomo di Adamo sussultò sotto la pelle del collo rugoso.

«Certo che è pericoloso,» disse Ida, seguendo con lo sguardo il corpicciolo sottile della sedicenne in vestitino di cotone nero che si scostava nel passare accanto a loro, e ascoltando il tintinnio di un bicchiere su un vassoio portato da una mano malsicura, «ma per chi, questa è un’altra faccenda.»

«Andiamo fuori al sole,» pregò il signor Corkery. «Non fa tanto caldo qui.» Non aveva né panciotto né cravatta: e rabbrividì leggermente nella sua tenuta sportiva.

«Devo riflettere,» ripeté Ida.

«Non me ne immischierei affatto, Ida. Egli non era nulla per te.»

«Non era nulla per nessuno, ecco il guaio,» disse Ida. S’immerse nel più profondo del suo animo, là dove erano le memorie, gli istinti, le speranze, e ne trasse fuori l’unica filosofia che la guidava nella vita. «Mi piace quello che è giusto,» disse. Si sentì meglio dopo di averlo detto e aggiunse con una terribile gaiezza: «Occhio per occhio, Fil. Vuoi aiutarmi?»

Il pomo di Adamo sussultò. Una folata d’aria, da cui era stato aspirato via tutto il sole, penetrò attraverso la porta girevole e il signor Corkery se la sentì sul petto scarno, disse: «Non so che cosa ti abbia dato quest’idea, Ida, ma io sono per la legge e per l’ordine. Ti aiuterò.» La sua audacia gli diede alla testa. Le pose una mano sul ginocchio. «Farei qualunque cosa per te, Ida.»

«Non c’è che una sola cosa da fare, dopo ciò che quella lì mi ha detto,» disse Ida.

«Ossia?»

«La Polizia.»

 

Ida entrò di volata nella sezione di polizia, sorridendo a questo agente e salutando quello con la mano. Non li aveva mai conosciuti da Adamo in poi. Era gaia e decisa e si trascinava Fil nella sua scia.

«Voglio vedere l’ispettore,» disse al sergente seduto alla scrivania.

«È occupato, signora; per che motivo lo vuole vedere?»

«Posso aspettare,» disse Ida, sedendosi fra i mantelli degli agenti. «Siediti, Fil.» Rivolse a tutti quanti una smorfia allegra con sfrontata sicurezza.

«I locali pubblici non si aprono sino alle sei,» disse, «Fil ed io non abbiamo nulla da fare sino ad allora.»

«Per che motivo lo vuole vedere, signora?»

«Un suicidio,» rispose Ida, «proprio sotto il vostro naso e che voi chiamate morte naturale.»

Il sergente la guardò fisso ed ella ricambiò lo sguardo. I suoi grandi occhi limpidi, (una bevutina qua e là non li alterava) non dicevano nulla, non rivelavano nessun segreto. La cordialità, il buon umore, l’allegria erano come saracinesche calate sul cristallo di una vetrina. Si potevano fare solo delle congetture sulle merci celate lì dietro: merci solide, antiche, con tanto di bollo, la giustizia, occhio per occhio, la pena capitale, un poco di divertimento di tanto in tanto, nulla di malvagio, nulla di tenebroso, nulla di cui doversi vergognare nel confessarlo, nulla di misterioso.

«Non si prende gioco di me, no?» chiese il sergente.

«Per questa volta no, sergente.»

Egli passò oltre una porta e la richiuse dietro a sé, e Ida si sedette con maggiore decisione sulla panca, mettendosi comoda. «Fra un po’ soffoco, qui, ragazzi,» disse, «che ne direste se aprissimo un’altra finestra?» e docilmente essi ne apersero una.

Il sergente la chiamò dalla porta. «Può entrare.»

«Vieni, Fil,» disse Ida e se lo trascinò dietro nell’ufficio stretto e ingombro, che odorava di lucido da scarpe e di colla.

«E così,» domandò l’ispettore, «voleva parlarmi per un suicidio, signora...?»

Aveva un aspetto stanco e vecchio e timido. Aveva cercato di nascondere una scatola di pasticche di frutto dietro il telefono e un libro di appunti.

«Arnold, Ida Arnold. Pensavo che la cosa lo potrebbe interessare, ispettore,» ella disse con evidente sarcasmo.

«Il signore è suo marito?»

«Oh no, un amico. Volevo un testimone, ecco tutto.»

«E di chi si sta occupando, signora Arnold?»

«Di uno che si chiama Hale, Fred Hale. No, scusi, Carlo Hale.»

«Sappiamo tutto su Hale, signora Arnold. È morto proprio di morte naturale.»

«Oh no,» disse Ida, «non sapete tutto. Non sapete che era con me, due ore prima che lo trovassero.»

«Non è venuta all’inchiesta?»

«Non sapevo che fosse lui, finché non ne ho visto la fotografia.»

«E perché ritiene che ci sia qualcosa che non va?»

«Ascolti,» disse Ida, «lui era con me e aveva paura di qualche cosa. Ci trovavamo sul molo del Palace. Io dovetti andare a lavarmi e a pettinarmi, ma lui non voleva che lo lasciassi. Stetti via soltanto cinque minuti, e lui se ne era andato. Dove era andato? Voi dite che se ne è andato a fare colazione da Snow, e che poi è andato lungo il molo fino al casotto presso Hove. Lei penserà semplicemente che egli mi ha piantato in asso, ma non era Fred – voglio dire Hale – quello che ha fatto colazione da Snow e ha lasciato il cartoncino. Ho appena visto la cameriera. Ad Hale non piaceva la birra Bass – non la voleva bere –, mentre l’uomo che era da Snow ne ha fatta comperare una bottiglia.»

«Non vuol dire nulla,» disse l’ispettore. «Era una giornata calda. Di più quello si sentiva male e si era stancato di fare tutto quello che avrebbe dovuto fare. Non mi sorprenderei che avesse pensato a un sotterfugio e mandato un’altra persona da Snow.»

«Quella ragazza non vuole dire niente su di lui. Sa, ma non vuole parlare.»

«Posso pensare a una spiegazione abbastanza facile, signora Arnold. Può darsi che l’uomo le abbia lasciato un cartoncino a condizione che lei non dicesse nulla.»

«Non è così. È spaventata. Qualcuno l’ha spaventata. Forse la stessa persona che spinse Fred... E ci sono ancora altre cose.»

«Sono dolente, signora Arnold. Complicare a questo modo le cose non serve che a far perdere del tempo. Lei sa che c’è stato un verdetto post-mortem. La testimonianza medica prova senza dubbio alcuno che egli è morto naturalmente. Aveva una malattia di cuore, i medici la chiamano trombosi coronaria. Io la direi invece caldo e folla e stanchezza – e un cuore debole.»

«Potrei vedere il rapporto?»

«Non sarebbe nelle consuetudini.»

«Ero un’amica sua, vede,» disse Ida dolcemente, «mi farebbe piacere di avere questa soddisfazione.»

«Ebbene, per metterle l’animo in pace farò un’eccezione. È proprio qui sul mio scrittoio.»

Ida lo lesse attentamente. «Questo dottore,» chiese, «sa il fatto suo?»

«È un dottore di prim’ordine.»

«Sembra chiaro, no?» disse Ida e riprese a rileggerlo da capo. «Quanti particolari, vero? Perbacco, non ne saprei di più su di lui, se lo avessi sposato. Cicatrice di operazione d’appendicite, capezzoli in numero superiore al normale, o come volete dire, soffriva di flatulenza – capita anche a me nei giorni di festa. È quasi irrispettoso, no? Non gli sarebbe piaciuto tutto questo,» ella meditava il rapporto con una semplice bontà: «Vene varicose. Povero caro Fred. Cosa vuol dire questo a proposito del fegato?»

«Che beveva troppo, ecco tutto.»

«Non me ne meraviglierei. Povero Fred. E così aveva delle unghie incarnate. Non sembra giusto di venire a saperlo.»

«Era una sua intima amica?»

«Beh, non ci conoscevamo che da quel giorno. Ma mi piaceva, era un vero gentiluomo. Se non fossi stata un pochino brilla quel giorno, questo non sarebbe successo.» Sporse il petto in fuori. «Non avrebbero potuto fargli del male, finché fosse stato con me.»

«Ha finito il rapporto, signora Arnold?»

«Fa menzione di tutto, questo vostro dottore, no? Contusioni superficiali, qualsiasi significato abbia la parola – sulle braccia. Che pensa di questo, signor ispettore?»

«Nulla affatto. Colpa della folla dei giorni di festa. Spintoni di qua e di là.»

«Oh, la pianti,» disse Ida, «la pianti.» La sua lingua si fece infiammata. «Sia umano. Era a spasso lei in quella festa? Dove ha trovato simile folla? Brighton è abbastanza grande, no? Non è l’ascensore di una ferrovia sotterranea. Io ero qui, lo so.»

L’ispettore disse ostinato: «Lei si fa delle idee, signora Arnold.»

«Così la Polizia non vorrà fare nulla? Non vorrà interrogare quella ragazza di Snow?»

«La pratica è chiusa, signora Arnold. E anche se fosse stato un suicidio, perché riaprire delle vecchie ferite?»

«Qualcuno lo ha costretto... forse non fu affatto un suicidio... forse...»

«Le ho detto, signora Arnold, che la pratica è chiusa.»

«È quello che crede lei,» Ida disse. Si alzò in piedi, e con un cenno del mento chiamò Fil. «Ma non è neppure per metà chiusa,» disse. «Ci rivedremo.» E dalla soglia si voltò a riguardare l’uomo attempato dietro allo scrittoio e lo minacciò con la sua spietata vitalità: «O forse no,» disse. «Posso arrangiarmi da sola. Non ho bisogno della vostra polizia.» (Gli agenti nell’altra stanza si agitarono inquieti, uno rise, un altro lasciò cadere una scatola di lucido da scarpe). «Ho i miei amici.»

I suoi amici – erano dappertutto nell’atmosfera animata e brillante di Brighton. Seguivano docilmente le mogli dei pescivendoli, portavano alla spiaggia i secchielli dei bambini, si indugiavano nei dintorni dei bar in attesa che si aprissero, si concedevano la visione per pochi soldi di «Una notte d’amore» sul molo. Ella non aveva che da fare appello ad ognuno di essi, perché Ida Arnold era dalla parte del giusto. Era allegra, era sana, poteva anche ubbriacarsi un poco con i migliori fra loro. Le piaceva divertirsi, il suo petto abbondante metteva francamente in mostra la sua grazia di Dio giù per l’Old Steyne, ma bastava guardarla per sapere che si poteva avere fiducia in lei. Non avrebbe raccontato delle storie alle vostre mogli, non vi avrebbe rammentato l’indomani quello che volevate dimenticare; era onesta, era gentile, apparteneva a quella grande classe media ossequente alla legge, i cui divertimenti erano i suoi divertimenti, le loro superstizioni le sue superstizioni (la Tavoletta che raschiava la vernice del tavolo scelto per l’occasione, il sale gettato sopra la spalla) né ella amava nessuno più di quanto ne fosse amata.

«Le spese saliranno,» disse Ida. «Non ci pensiamo. Tutto andrà bene dopo le corse.»

«Hai avuto il nome di un favorito?»

«Dalla bocca stessa del cavallo. Non dovrei dirlo. Povero Fred.»

«Passalo a un amico,» implorò il signor Corkery.

«Tutto a suo tempo,» disse Ida. «Sii bravo e non sai quello che potrebbe accadere.»

«Ma non ci pensi più, vero?» sondò il signor Corkery, «dopo quello che ha scritto il dottore?»

«Non ho mai accordato la minima attenzione ai dottori.»

«Ma perché?»

«Dobbiamo scoprirlo.»

«E come?»

«Dammi tempo. Non ho ancora incominciato.»

Il mare si apriva oltre l’estremità della strada come un pittoresco oggetto di bucato nel cortile di un caseggiato. «Ha il colore dei tuoi occhi,» interloquì il signor Corkery pensieroso e con una punta di nostalgia. E disse: «Non potremmo ora andare almeno per un poco sul molo, Ida?»

«Sì,» disse Ida. «Il molo. Andiamo al molo del Palace, Fil,» ma quando vi furono giunti, non volle oltrepassare l’arganello, ma si piantò come una rivendugliola di fronte all’Acquario, alla toeletta per signore. «È di qui che devo prendere le mosse,» disse. «Mi aspettava qui, Fil,» e fissò lo sguardo sulle luci rosse e verdi, sul fitto traffico del suo campo di battaglia, preparando i suoi piani, disponendo le sue munizioni, mentre cinque metri più in là anche Spicer stava aspettando che un nemico apparisse. Soltanto un tenue dubbio turbava il suo ottimismo. «Quel cavallo dovrà vincere, Fil,» disse, «altrimenti non ce la farò.»