Capitolo settimo

«Anche il povero Spicer,» disse Dallow, «aveva avuto la stessa idea – pensava di aprire un giorno un locale in qualche posto.» Batté sulla coscia di Giuditta e disse: «Che ne diresti se io e tu ci sistemassimo insieme ai due ragazzini?» Disse: «Mi pare già di vederlo. In piena campagna. Su una di quelle grandi strade di comunicazione, dove si fermano le corriere: la grande Strada del Nord. “Fermatevi qui”. Non mi meraviglierei se a lungo andare non si guadagnasse di più.» Si fermò e disse al Ragazzo: «Che c’è? Bevi un po’. Ora non c’è più nulla che possa preoccupare.»

Il Ragazzo gettò uno sguardo attraverso la sala da tè e le tavole vuote al punto in cui era seduta la donna. Come non mollava! Gli ricordava un furetto che aveva visto una volta in collina, tra le buche argillose, attaccato al collo della lepre. Tuttavia questa lepre era riuscita a sfuggire. Egli non aveva più ragione di avere paura di lei. Disse con voce sorda: «La campagna. Non ne so molto sulla campagna.»

«C’è aria buona,» disse Dallow. «Perbacco, vivrai sino a ottanta anni con la tua signora.»

«Press’a poco ancora sessant’anni,» disse il Ragazzo, «un tempo lungo». Dietro il capo della donna i fanali di Brighton si susseguivano in direzione di Worthing. L’ultima luce del tramonto si abbassava nel cielo e pesanti nuvole d’un turchino scuro calavano sopra gli alberghi, il Grande Albergo, il Metropolitan, il Cosmopolitan, sopra le torri e le cupole. Sessant’anni: era come una profezia – un fatto sicuro – un orrore senza fine.

«Voi due,» disse Dallow, «che cosa vi ha preso?»

Era questa la sala da tè, dove erano venuti, dopo la morte di Fred, Spicer e Dallow e Cubitt. Dallow aveva ragione, di certo: erano sicuri – con Spicer morto e Prewitt tolto di mezzo e Cubitt, Dio sapeva dove. (Quello, non avrebbero mai potuto chiamarlo sul banco dei testimoni: sapeva troppo bene che sarebbe stato impiccato – aveva fatto una parte troppo importante – e con dietro a sé il registro della questura del 1923.) E Rosa era sua moglie. Sicuri come non avrebbero potuto esserlo di più. Avevano vinto – alla fin fine. Gli stavano dinanzi – anche in questo Dallow aveva ragione – sessant’anni. I suoi pensieri sembrarono spezzettarsi nella sua mano: le notti del sabato: e poi la nascita, il bimbo, l’abitudine e l’odio. Guardò al di là dei tavolini: il riso di quella donna era un segnale di disfatta.

Disse: «Fa soffoco qui dentro. Ho bisogno di aria.» Si voltò lentamente verso Rosa: «Vieni a fare due passi,» disse. Nell’andare dal tavolino alla porta, egli scelse fra i tanti pensieri fatti a pezzi quello adatto al momento, e quando si trovarono fuori nel lato ventoso del molo, le gridò: «Bisogna che me ne vada di qui.» Le pose la mano sul braccio e con paurosa tenerezza la guidò dentro un casotto. Le onde venivano dalla Francia a infrangersi qui, martellando sotto i loro piedi. Fu preso da un accesso di spavalderia: era come quando aveva visto Spicer curvarsi accanto alla sua valigia o Cubitt che chiedeva del denaro nel corridoio. Attraverso le inferriate Dallow era seduto accanto a Giuditta con le bibite dinanzi: era come la prima settimana dei sessant’anni – il contatto, il tremito sensuale, il sonno insozzato e il risveglio, senza trovarsi solo: fra l’oscurità e il frastuono del mare egli si vide dinanzi nel suo cervello tutto quanto il futuro. Era come un distributore automatico; si metteva dentro una moneta e la luce si accendeva, gli sportelli si aprivano e le figure si muovevano. Disse con astuta tenerezza: «È qui che ci siamo incontrati quella notte. Ti ricordi?»

«Sì,» ella rispose e lo guardò intimorita.

«Non abbiamo bisogno di quelli,» disse. «Montiamo in macchina e andiamo» la osservò attentamente «in campagna.»

«Fa freddo.»

«Non farà freddo in macchina.» Lasciò andare il suo braccio e disse: «Naturalmente, – se non vuoi venire – andrò da solo.»

«Ma dove?»

Egli replicò con voluta noncuranza: «Te l’ho detto. In campagna.» Si trasse di tasca una moneta e la infilò nella fessura del distributore automatico più vicino. Tirò una maniglia, senza guardare quello che faceva, e con un tintinnio ne balzarono fuori dei pacchettini di caramelle di gomma al frutto – un premio – caramelle assortite di limone, pompelmo e liquerizia. Disse: «Ho avuto la mano felice.»

«C’è qualcosa che non va?» chiese Rosa.

Egli disse: «L’hai vista? Credi a me – quella non ci lascerà mai tranquilli. Ho visto un furetto una volta – nei pressi della pista.» Mentre si voltava, uno dei riflettori del molo lo colse negli occhi: un abbaglio: un senso di esilarazione. Disse: «Vado a fare una passeggiata. Rimani qui, se preferisci.»

«Verrò,» ella disse.

«Non ce n’è bisogno.»

«Verrò.»

Al tiro a segno si fermò. Pareva preso da una specie di allegria folle. «Che ora è?» chiese all’uomo.

«Lo sai già che ora è. Te l’ho già detto una volta che io non voglio servire a un tuo alibi...»

«Non hai bisogno di urlare tanto,» disse il Ragazzo. «Dammi un fucile.» Lo alzò, mirò con mano salda il centro, poi volutamente spostò l’arma e tirò – pensava: «Qualcosa lo aveva sconvolto, affermò il teste.»

«Che hai oggi?» esclamò l’uomo. «Hai colpito fuori bersaglio.»

Depose l’arma. «Abbiamo bisogno di una boccata d’aria fresca. Andiamo a fare un giretto in campagna. Buona sera.» Diede tale informazione con pedanteria, con la stessa precisione con cui aveva impartito le istruzioni di depositare i cartoncini di Fred lungo la strada – perché servissero poi. Si rivoltò persino per dire: «Andiamo sulla strada di Hastings.»

«Non m’importa affatto,» disse l’uomo, «di sapere dove andate.»

La vecchia Morris era nel parcheggio vicino al molo. La messa in moto non funzionava: dovette girare la manovella. Rimase lì un istante a guardare la vecchia macchina con un’espressione di disgusto: era mai possibile che un vecchiume simile fosse tutto ciò che si ricavava da una banda...

Disse: «Faremo la strada che abbiamo fatto quel giorno. Ricordi? Con l’autobus.»

Di nuovo diede l’informazione in modo che il guardiano potesse udirla.

«A Peacehaven. Andremo lì a bere.»

Si avviarono girando attorno all’Acquario e fecero la salita della collina in seconda. Egli teneva una mano in tasca e andava tastando il pezzetto di carta su cui ella aveva scritto il suo messaggio. Il soffietto sbatteva e il vetro incrinato e appannato del parabrezza limitava la visione. Disse: «Presto verrà giù una pioggia d’inferno.»

«Ci riparerà questo soffietto?»

«Non importa,» egli rispose, guardando dritto dinanzi a sé, «non ci bagneremo.»

Ella non osò chiedergli che volesse dire – non era sicura, e fintanto che non era sicura, poteva credere che fossero felici, due innamorati che vanno in gita al buio, dimentichi di ogni cruccio. Lo toccò con la mano e sentì il suo istintivo ritrarsi: per un momento fu scossa da un dubbio terribile – se questo fosse l’incubo peggiore, se egli non le volesse bene, come aveva detto quella donna... L’aria mossa ed umida le sferzava la faccia attraverso lo strappo. Non importava nulla: era lei a volergli bene, aveva una sua responsabilità.

Gli autobus passavano loro accanto nello scendere la collina in direzione della città: piccole gabbie domestiche illuminate, in cui la gente stava seduta con dei cesti e dei libri: un bimbo premeva il volto contro il vetro e per un momento, a un semaforo, gli furono così vicini, che ella avrebbe potuto stringersi al petto quel volto... «Vorrei sapere che pensi,» egli disse e la colse di sorpresa: «La vita non è poi tanto brutta.»

«Non crederlo,» egli ribatté. «Ti dirò che cosa è. È una galera, è non sapere dove trovare un po’ di denaro. Putredine e cataratta, cancro. Tu li senti gridare dalle finestre dei piani di sopra – i bimbi che sono nati. È un morire lentamente.»

La costa si stava avvicinando – ella lo capiva: la lampadina del cruscotto illuminava le dita scarne e decise: il volto era nel buio, ma ella poteva raffigurarsi l’esilarazione, l’eccitazione amara, l’anarchia nei suoi occhi. Una macchina privata lussuosa – una Daimler o una Bentley, ella non conosceva i tipi – li oltrepassò ben molleggiata.

Egli disse: «Non abbiamo fretta.» Trasse la mano di tasca e le pose sul ginocchio un foglietto ch’ella riconobbe. Le domandò: «Lo pensi proprio, vero?» Dovette ripetere: «vero?» Assentendo ella ebbe l’impressione di rinunciare assai più che alla propria esistenza – al cielo, qualunque esso fosse, al bimbo nell’autobus, al piccino che piangeva nella casa del vicino. «Sì,» disse.

«Andremo a bere qualcosa,» egli disse, «e poi – vedrai. Ho combinato tutto.» Continuò con una calma paurosa: «Non ci vorrà nemmeno un minuto.» Le mise il braccio attorno alla vita e il volto vicino al suo: ella poteva vederlo ora, che meditava e meditava: la sua pelle odorava di benzina: tutto odorava di benzina nella macchinetta antiquata, che perdeva da ogni parte. Ella disse: «Sei sicuro... non possiamo aspettare... un giorno?»

«A che pro? L’hai vista stasera. È lì in attesa. Un giorno o l’altro tirerà fuori la sua brava deposizione. A che servirebbe?»

«E perché non allora

«Allora potrebbe essere troppo tardi.» Con parole scucite fra lo sbattere del soffietto egli continuò: «Bussano alla porta e subito dopo capisci... le manette... troppo tardi.» Aggiunse astutamente: «Allora non saremmo più insieme.» Abbassò il piede e la lancetta oscillò sul trentacinque – la vecchia macchina non avrebbe potuto fare più di quaranta, ma l’impressione era quella di una velocità pazza: il vento sferzava il vetro e penetrava attraverso lo strappo. Egli incominciò sottovoce a intonare il “Dona nobis pacem”.

«Non vorrà.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Darci la pace.»

Egli pensava: ci sarà abbastanza tempo negli anni venturi – sessant’anni – per pentirsi di questo. Andare da un prete. Dire: “Padre, due volte ho assassinato. E poi c’era una ragazza – si è uccisa.” Anche se la morte fosse giunta improvvisamente, tornando a casa stanotte, nell’urto contro un lampione, c’era ancora l’istante “fra la staffa e il suolo”. Le case cessarono completamente da un lato, e il mare tornò vicino ad essi, il mare che batteva contro la scogliera, tutto oscurità e suono fondo. Non è che egli proprio si illudesse – aveva appreso il giorno prima che, quando il tempo sfugge, ci sono altre cose a cui pensare, oltre che a pentirsi. E ad ogni modo non aveva importanza... Egli non era fatto per la pace, non ci credeva. Il Cielo era una parola: l’Inferno, qualcosa in cui poteva credere. Un cervello formula soltanto ciò che può concepire, ed egli non poteva concepire ciò che non aveva mai sperimentato: nelle sue cellule mentali non c’era che il campo sportivo della sua scuola, la stufa spenta e l’uomo morente nella sala d’aspetto di S. Pancrazio, il suo letto da Billy e quello dei genitori. Un terribile risentimento si ridestò in lui – perché non avrebbe dovuto avere come gli altri un po’ di fortuna, intravvedere uno spiraglio di cielo, anche se fosse stato soltanto attraverso una fessura nei muri di Brighton...

Nel discendere in direzione di Rottingdean egli si girò e le gettò una lunga occhiata, come se ella avesse potuto rappresentare quello spiraglio – ma il cervello non poteva concepirlo – vide una bocca in attesa dell’amplesso sessuale, una rotondità di seni che chiedevano un bimbo. Oh, forse era una brava ragazza, si poteva crederlo, ma non era all’altezza: egli l’aveva trovata in basso.

Presso a Rottingdean incominciarono le nuove villette, un’architettura bizzarra: su in collina lo scheletro oscuro di un sanatorio, ad ali laterali come un aeroplano. Disse: «In campagna non ci sentiranno.» Le luci diminuivano sulla strada per Peacehaven: l’argilla di una nuova cava apparì sfacciata come un telo bianco nella luce dei fari anteriori: alcune macchine scesero in senso opposto al loro, accecandoli. Egli disse: «La batteria è esaurita.»

Ella ebbe la sensazione che egli fosse migliaia di miglia lontano – che i suoi pensieri fossero già oltre l’atto, ella non avrebbe potuto dire dove: ma egli era un saggio e forse stava prevedendo – ella s’immaginò – delle cose che a lei non era dato neppure di concepire – la punizione eterna, le fiamme... Provò un senso di terrore, l’idea della sofferenza la sconvolse, la loro meta li sospinse innanzi fra raffiche di pioggia contro il vecchio parabrezza appannato. Questa strada non portava in nessun altro luogo. Si diceva che fosse l’atto peggiore di tutti, l’atto della disperazione, la colpa senza possibilità di perdono: mentre era lì seduta nell’odore della benzina, ella cercò di concretizzare la disperazione, il peccato mortale, ma non vi riuscì: ciò che provava non rassomigliava alla disperazione. Egli si sarebbe dannato, ma ella avrebbe mostrato a tutti che non potevano mandare lui all’eterna dannazione, senza mandare lei pure: non c’era nulla che egli potesse fare e che anche lei non avrebbe fatto: si sentiva capace di prendere parte a qualsiasi delitto. Un fanale illuminò il viso del Ragazzo e lo abbandonò: un cipiglio, un pensiero, un volto di bambino: ella si sentì nel petto il senso della responsabilità: non lo avrebbe lasciato andare solo in quell’oscurità.

Incominciarono le strade di Peacehaven, che si dirigevano verso la scogliera e le collinette: cespugli spinosi crescevano attorno ai cartelli di “Affittasi.” Le strade terminavano nell’oscurità, in pozzanghere di acqua e in erba ricoperta di salmastro. Era come uno sforzo estremo fatto da pionieri per dissodare una nuova terra. La campagna li aveva sconfitti. Egli disse: «Andremo all’albergo a bere qualcosa e poi – so il posto adatto.»

Ora la pioggia veniva giù a dirotto: batteva sulle porte di un rosso sbiadito del «Teatro delle Meraviglie», sulla pubblicità della gita con bridge della settimana ventura e su quella del ballo della settimana prima. Furono costretti ad andare di corsa alla porta dell’albergo: nel vestibolo non c’era proprio nessuno – statuette bianche di marmo e nella fascia verde, al disopra delle pareti a pannelli, rose e gigli in istile Tudor orlati d’oro. Sui tavolini dipinti in azzurro stavano dei sifoni, e sulle invetriate a colori vascelli medioevali erano sballottati su onde calme e ricciolute. Qualcuno aveva spezzato le mani a una delle statuette – o forse era stata fatta apposta così, qualcosa di classico in un drappeggio bianco, un simulacro di vittoria o di disperazione. Il Ragazzo suonò un campanello e dal bar balzò fuori a prendere ordini un ragazzetto della sua stessa età: erano stranamente somiglianti, eppure in modo significativo diversi – spalle strette, volto magro, si affrontarono come dei cani alla vista l’uno dell’altro.

«Piker,» disse il Ragazzo.

«Che vuoi?»

«Dacci la lista,» disse il Ragazzo. Fece un passo avanti e l’altro indietreggiò e il Rossetto sogghignò. «Portaci due cognac doppi,» disse «e in fretta.» E sottovoce: «Chi avrebbe mai pensato di trovare qui Piker?»

Ella lo guardò sorpresa che potesse distrarsi dal loro proposito: poteva sentire il vento battere contro le finestre del piano superiore: dove i gradini facevano una curva, un’altra statuetta in istile funerario elevava le sue membra mozze. Egli continuò: «Eravamo a scuola insieme. Nei momenti di ricreazione gli facevo vedere l’inferno.» L’altro ritornò con il cognac, guardando di sbieco, impaurito e circospetto, quasi portasse con sé tutta una infanzia lugubre. Ella provò un morso di gelosia nei suoi riguardi, perché questa sera avrebbe dovuto avere per sé tutto quanto il Rossetto.

«Fai il servo?»

«Non il servo, il cameriere.»

«Vuoi che ti dia la mancia?»

«Non ho bisogno delle tue mance.»

Il Ragazzo prese il suo cognac e lo trangugiò: tossì, mentre gli scendeva per la gola, era come avere nello stomaco la sozzura del mondo. Disse: «Questo dà coraggio.» Domandò a Piker: «Che ora è?»

«Puoi vederlo sull’orologio,» disse Piker, «se lo sai leggere.»

«Non avete della musica?» chiese ancora il Ragazzo. «Maledizione, volevamo far festa.»

«C’è il piano. E la radio.»

«Aprila.»

La radio era nascosta dietro una pianta in vaso: ne uscì il lamento di un violino, con le note interrotte dai disturbi atmosferici. Il Ragazzo disse: «Mi odia. Odia la mia forza,» e si girò per schernire Piker, ma era sparito. Disse a Rosa: «Faresti bene a bere quel cognac.»

«Non ne ho bisogno,» ella disse.

«Come vuoi.»

Erano l’uno accanto alla radio, l’altra accanto al focolare spento: li dividevano tre tavolini e tre sifoni e una lampada in istile Tudor-moresco o come Dio vuole.

Si sentirono afferrati da un terribile senso di irrealtà, dal bisogno di fare conversazione, di dire «Che serata!» oppure «Fa freddo, per essere a quest’epoca dell’anno.» Ella disse: «Così, era alla tua scuola.»

«Sì.» Guardarono ambedue l’orologio: erano quasi le nove, e sotto il suono del violino si udiva la pioggia che sferzava le finestre verso il mare. Egli disse goffamente: «Faremmo meglio a rimetterci presto in cammino.»

Ella incominciò a pregare fra sé: “Santa Maria, madre di Dio”, poi s’interruppe – era in peccato mortale: non serviva a nulla pregare. Le sue preghiere si fermavano quaggiù con i sifoni e le statuette: non avevano ali. Rimase paziente e spaurita in attesa accanto al focolare.

Egli disse con un certo disagio: «Dovremmo scrivere qualcosa – così la gente saprà.»

«Non ha nessuna importanza, no?» ella chiese.

«Oh, sì, ne ha,» egli rispose in fretta. «Dobbiamo fare le cose bene. Questo è un patto. Nei giornali si legge di questi patti.»

«Li fa una quantità di gente – no?»

«Accade ogni tanto» egli disse. Per un istante fu tutto preso da una fiducia esagerata in se stesso, terribile e infondata: il violino svanì e si udì attraverso la pioggia il fischio del segnale orario. Una voce da dietro la pianta diede loro il bollettino meteorologico – dei temporali provenienti dal Continente, una depressione nell’Atlantico, le previsioni per l’indomani. Ella incominciò a prestare ascolto, ma poi si ricordò che il tempo dell’indomani non importava più affatto.

Egli disse: «Vorresti un liquore o qualcosa d’altro?» Si guardò attorno, cercando dove potesse essere il gabinetto per uomini: «Devo andare a lavarmi le mani un momento.» Ella notò l’oggetto pesante nella sua tasca – sarebbe accaduto in quel modo. Egli continuò: «Aggiungi solo una riga a quel bigliettino, mentre vado. Ecco la matita. Di’ che non potresti vivere senza di me, qualcosa del genere. Dobbiamo fare le cose bene, come si fanno sempre.» Uscì nel corridoio e chiamò Piker, per sapere dove dirigersi, poi infilò la scala. Giunto alla statuetta, si voltò a guardare giù nel vestibolo a pannelli. Era proprio questo il momento, di cui si serbava sempre il ricordo – il vento all’estremità del molo, i bicchieri di sherry e gli uomini che cantavano, la luce della lampada sul vino di Borgogna, il momento cruciale, mentre Cubitt pigliava a calci la porta. Si accorse di ricordare tutto quanto senza ripulsione; ebbe la sensazione che una certa tenerezza, al pari di un mendicante trattenuto fuori da una casa dalle imposte calate, si fosse destata in lui; ma era vincolato dall’abitudine dell’odio. Voltò le spalle e continuò a salire la scala. Si disse che fra poco sarebbe stato nuovamente libero – avrebbero visto il biglietto: egli aveva ignorato che la ragazza fosse tanto infelice, perché lui aveva detto che avrebbero dovuto separarsi: ed ella doveva avere trovato l’arma nella camera di Dallow ed essersela portata con sé. Naturalmente avrebbero controllato le impronte digitali e allora – guardò fuori dalla finestra della ritirata: marosi invisibili s’infrangevano sotto la scogliera. La vita avrebbe continuato. Non più contatti umani, le emozioni altrui che si riversavano sul suo cervello – sarebbe stato nuovamente libero: la parola prendeva un significato igienico fra le vasche di porcellana, i rubinetti, i tappi e gli scarichi. Si tolse la pistola di tasca e la caricò – due proiettili. Nello specchio al disopra del lavabo poteva scorgere la sua mano che lavorava attorno alla morte metallica, togliendo la sicurezza. Sotto, il giornale radio era finito e la musica aveva ripreso – il suono lamentoso saliva simile al guaito di un cane sopra una tomba e l’oscurità fitta premeva contro i vetri la sua bocca umida. Ripose la pistola e riuscì nel corridoio. Sarebbe stata quella la prossima mossa. Un’altra statuetta dalle mani funerarie e dal rosario di fiori di marmo era lì ad esprimere una morale oscura; una volta ancora egli sentì in sé la presenza corrosiva della pietà.