Capitolo quarto
Egli disse a Dallow: «Devi sorvegliare il posto. Non mi fido niente di lui. Mi pare sempre di vederlo lì a guardare fuori, in attesa di qualche cosa, e scorgere lei...»
«Non sarebbe tanto sciocco.»
«È ubbriaco. Dice di essere all’Inferno.»
Dallow rise: «L’Inferno. Questa è buona.»
«Sei uno stupido, Dallow.»
«Non credo a ciò che i miei occhi non vedono.»
«Allora non vedono molto,» disse il Ragazzo. Lasciò Dallow e salì al piano superiore.
Ma se questo era l’Inferno, egli pensava, non era poi tanto male: il telefono di vecchio tipo, la scala stretta, la penombra tranquilla e polverosa – non era come la casa di Prewitt, scomoda, vibrante, con quella vecchiaccia nel seminterrato. Aperse la porta della sua camera ed ecco lì il suo nemico – egli pensò – si guardò attorno con un iroso disappunto per la camera trasformata – la posizione di ogni cosa leggermente mutata e tutto quanto il vano spazzato e ripulito e riordinato. La sgridò: «Ti avevo detto di non farlo.»
«Ho soltanto fatto pulizia, Rossetto.»
Ora la camera non era più sua, ma di Rosa: la guardaroba e il lavabo spostati e il letto – naturalmente quella non aveva dimenticato il letto. Ora l’Inferno, se pur doveva essere di qualcuno, era suo – non volle riconoscerlo. Si sentì spinto ad andarsene, ma ogni cambiamento non avrebbe potuto che peggiorare le cose. La guardò come si guarda un nemico, mascherando l’odio, cercando di intravvedere nel suo viso la vecchia, quale un giorno sarebbe apparsa, mentre guardava in su da un seminterrato. Era tornato indietro tutto pervaso dal destino di un’altra persona – in una duplice tenebra.
«Non ti va, Rossetto?»
Egli non era come Prewitt – aveva del fegato; non aveva perso la battaglia. Disse: «Oh sì – è tutto in ordine. Soltanto che non me lo aspettavo.»
Ella interpretò erroneamente la sua freddezza: «Qualche cattiva notizia?»
«Non ancora. Dobbiamo esserci preparati, naturalmente. Io ci sono preparato.» Si avvicinò alla finestra e guardò fuori attraverso una foresta di antenne radio, nel cielo domenicale nuvoloso e pacifico, poi di nuovo dentro, nella camera mutata. Ecco come avrebbe potuto diventare, il giorno in cui egli se ne fosse andato ed altri inquilini... La osservò attentamente, mentre eseguiva il gioco di prestigio, presentando la sua idea come fosse di Rosa. «Ho la macchina pronta. Potremmo andare in campagna, dove nessuno sentirebbe...» Misurò con cura il terrore manifesto in lei: e prima che ella potesse rendergli la pariglia, mutò di tono. «Ma questo soltanto se il peggio arriverà proprio al peggio di tutto.» La frase lo intrigò: la ripeté; il peggio – era la grassona che con il suo sguardo limpido e retto venisse avanti nella strada piena di fumo – il peggio di tutto – era il signor Prewitt ebbro e rovinato lì dietro la tendina in attesa di almeno una dattilografa. «Non succederà,» la incoraggiò.
«No,» ella assentì appassionatamente, «non succederà, non può succedere.» L’immensa sicurezza ebbe su di lui un buffo effetto, – come se quel suo progetto fosse stato ripulito, spostato, capovolto, a tale punto da non poterlo più riconoscere come il suo. Avrebbe voluto controbattere che «poteva succedere»: scoprì in sé uno strano desiderio dell’atto più nefando di tutti.
Ella disse: «Sono così felice. Dopo tutto non può andare tanto male.»
«Che vuoi dire?» la rimbeccò. «Non tanto male? Siamo in peccato mortale.» E gettò uno sguardo pieno di furioso disgusto al letto rifatto, come se pensasse a un rinnovarsi dell’amplesso di tanto in tanto – per ficcarsi bene in testa la lezione.
«Lo so,» ella replicò, «lo so, ma pure...»
«Non c’è che una sola cosa di peggio,» egli disse. Era come se Rosa gli sfuggisse: già stava rendendo inoffensiva la loro trista alleanza.
«Sono felice,» ella contraddisse in tono estatico. «Tu sei buono con me.»
«Questo non vuole dire niente.»
«Ascolta,» ella disse, «che c’è?» Un tenue vagito giungeva dalla finestra.
«Il bambino dei vicini.»
«Perché nessuno lo quieta?»
«È domenica. Forse saranno fuori,» egli disse. «Vuoi fare qualcosa? Andare al cinema?» Non lo stava ad ascoltare: quel lamento continuato l’assorbiva: aveva preso un’espressione di persona responsabile e matura. «Qualcuno dovrebbe vedere di che cosa ha bisogno,» disse.
«Sarà fame o qualcosa del genere.»
«Forse è malato.» Ascoltava come se soffrisse lei pure: «Le cose vengono ai bambini improvvisamente. Non sai mai quello che potrebbe essere.»
«Non è tuo.»
Ella girò verso di lui degli occhi sognatori. «No,» disse, «ma stavo pensando – che potrebbe esserlo.» Disse con passione: «Non lo lascerei per un intero pomeriggio.»
Egli replicò in tono inquieto: «E neppure essi lo hanno fatto. Ha smesso. Che ti avevo detto?» Ma le parole gli erano rimaste infisse nel cervello. “Potrebbe esserlo.” Non ci aveva mai pensato: la osservò con terrore e disgusto, come se stesse osservando lo stesso brutto spettacolo della nascita, la ribaditura di un’altra esistenza che già stesse inchiodando lui pure, mentre ella continuava a rimanere in ascolto – riconfortata, paziente, come se già fosse passata attraverso anni di un’ansia simile e sapesse che il sollievo non durava mai a lungo e l’ansia ricominciava sempre di nuovo.