Capitolo terzo

Egli aveva paura – nel tornare da solo verso il quartiere che aveva lasciato – oh, anni fa. Il mare biancastro si arrotolava sui ciottoli e la torre verde del Metropolitan sembrava una moneta scavata che il lavorio del tempo avesse ricoperto di verderame. I gabbiani si gettavano a capofitto su tutto il viale, stridendo e roteando nel sole, e un noto autore popolare metteva in mostra il viso grassoccio fin troppo famoso a una finestra dell’albergo Albione Reale, guardando verso il mare. Era una giornata così tersa che ci si sarebbe aspettati di vedere la Francia.

Il Ragazzo attraversò il viale in direzione dell’Old Steyne, camminando lentamente. Le vie, nel risalire la collina al disopra dello Steyne, si restringevano: il misero segreto celato dietro la camicetta sgargiante, il petto deforme. Ogni passo era una ritirata. Egli aveva creduto di essersi allontanato per sempre, di quanto era lungo il viale, ed ora l’estrema povertà lo riprendeva; una bottega dove si poteva farsi mettere i capelli in piega per due scellini nello stesso locale in cui c’era un fabbricante di bare di quercia, olmo o piombo: non una vetrina bene addobbata, ma soltanto una bara da bimbo polverosa per non essere stata usata, e il listino dei prezzi da parrucchiere. L’edificio dell’Esercito della Salute segnava con i suoi merli il limite preciso della sua dimora di un tempo. Egli incominciò a temere di essere riconosciuto, a provare un’oscura vergogna, come se fossero le sue strade natie ad avere il diritto di perdonare e non lui quello di rimproverare loro il suo passato lugubre e tetro. Oltrepassata la Pensione Alberto («Buone camere per viaggiatori»), si trovò, giunto in cima alla collina, proprio in pieno territorio bombardato: una grondaia che penzolava, dei vetri di finestre, un letto di ferro in un giardinetto lì davanti, largo quanto un tavolo. Metà di Paradise Piece era a pezzi come per lo scoppio di una bomba: dei bambini giocavano su un pendio ripido fatto di detriti: un frammento di focolare dimostrava che una volta lì c’erano delle abitazioni, e un avviso del municipio – l’annuncio di nuove costruzioni – era affisso sopra un palo piantato nel selciato asfaltato tutto a buchi, proprio di fronte a un cumulo sporco di rottami, tutto ciò che rimaneva di Paradise Piece.

La sua dimora era sparita: uno spazio noto fra i detriti avrebbe potuto segnarne il focolare: la stanza alla svolta della scala, dove si svolgeva il rito del sabato sera, non era più che aria. Egli si chiese inorridito se tutto ciò avrebbe dovuto essere ricostruito nuovamente per lui. Era meglio così, trasformato in aria.

La notte prima aveva mandato Rosa a casa ed ora con passo strascicato andava a raggiungerla. Non serviva più a nulla ribellarsi: doveva sposarla, doveva essere al sicuro. Fra i detriti, dei ragazzi stavano giocando alle guardie con pistole acquistate nell’emporio di Woolworth; un gruppetto di ragazze imbronciate stava a guardarli. Un bimbo con la gamba in una staffa di ferro si buttò zoppicando alla cieca contro di lui, che lo spinse via, e una voce acuta da bimbo gridò: «Mani in alto.» Lo riportavano al passato: ed egli li odiò appunto per questo: era come il tragico appello dell’innocenza, ma lì non c’era innocenza: bisognava tornare ancora parecchio indietro, prima di trovare l’innocenza: l’innocenza era una bocca che perdeva saliva, delle gengive senza denti che succhiavano le tettine, forse neppure allora: l’innocenza era lo stridulo vagito della nascita. Trovò la casa a Nelson Place, ma prima ancora che avesse il tempo di bussare, la porta si aperse. Rosa era stata a spiarlo attraverso il vetro rotto. Disse: «Oh, come sono felice... Pensavo che forse...» Nell’orribile stretto andito, che puzzava come un cesso, ella gli corse incontro rapida e appassionata. «È stato terribile la notte scorsa. Vedi, io mandavo loro del denaro... non capiscono che tutti possono perdere il posto ogni tanto.»

«Li calmerò io,» disse il Ragazzo. «Dove sono?»

«Devi stare attento,» disse Rosa. «Sono di cattivo umore.»

«Dove sono?»

Ma in realtà non c’era molta scelta in fatto di direzione: non c’era che una sola porta e una scala tappezzata di vecchi giornali. Sui gradini più bassi, fra le macchie di fango, vi fissava il viso infantile e abbronzato di Violet Crow, violata e sepolta sotto il molo occidentale nel 1936. Egli aprì la porta e lì accanto alla cucina nera con il carbone di legna consumato e freddo per terra, stavano seduti i genitori di Rosa. Erano in un accesso di cattivo umore: lo fissarono con indifferenza silenziosa ed altezzosa: lui, un ometto mingherlino e attempato, il viso profondamente solcato dai geroglifici della sofferenza, della pazienza e del sospetto; lei una donna di mezza età, istupidita, vendicativa. I piatti non erano stati lavati e la cucina non era stata accesa.

«Sono di cattivo umore,» gli disse Rosa a voce alta. «Non hanno voluto lasciarmi fare nulla. Neppure accendere il fuoco. A me piace la casa pulita, sinceramente. La nostra non sarebbe come questa.»

«Vede, signor...» disse il Ragazzo.

«Wilson,» disse Rosa.

«Wilson. Io voglio sposare Rosa. Pare che sia necessario il suo permesso, dato che è così giovane.»

Non gli risposero. Si tenevano stretto il loro cattivo umore, come se fosse il solo bell’oggetto di porcellana in loro possesso: qualcosa da mostrare ai vicini dicendo, “è mio”.

«Non c’è niente da fare,» spiegò Rosa, «quando sono di cattivo umore.»

Da una cassetta di legna un gatto stava a guardare.

«Sì o no,» disse il Ragazzo.

«Non serve a nulla,» disse Rosa, «almeno quando sono di cattivo umore.»

«Risponda chiaramente,» disse il Ragazzo. «La sposo Rosa sì o no?»

«Ritorna domani,» disse Rosa, «allora non saranno di cattivo umore.»

«Non starò qui ad aspettare i loro comodi,» egli disse. «Dovrebbero essere fieri...»

L’uomo d’un tratto si alzò e diede un calcio furioso al carbone, sparpagliandolo per terra. «Vattene fuori di qui,» disse. «Non vogliamo avere niente a che fare con te,» continuò, «mai, mai, mai,» e per un istante negli occhi spenti apparve qualcosa di fedele che ridestò nel Ragazzo l’orribile ricordo di Rosa.

«Sta’ quieto, papà» disse la donna, «non parlare con quelli lì,» e si teneva stretto il suo cattivo umore.

«Sono venuto per combinare l’affare,» disse il Ragazzo. «Se non volete combinare l’affare...» Si guardò attorno nella stanza rovinata e desolata. «Pensavo che forse dieci sterline vi sarebbero state utili,» e attraverso il cieco silenzio vendicativo vide affiorare l’incredulità, l’ingordigia, il sospetto.

«Non vogliamo,» ricominciò l’uomo di nuovo e poi si interruppe, come un grammofono. Incominciò a pensare: si poteva scorgere i pensieri che s’inseguivano l’uno dopo l’altro.

«Non vogliamo il tuo denaro,» disse la donna. Ognuno di essi aveva una sua peculiare fedeltà.

Rosa disse: «Non badare a quello che dicono. Non rimarrò qui.»

«Aspetta un momento. Aspetta un momento,» disse l’uomo. «Tu, mamma, stai zitta.» Si rivolse al Ragazzo. «Nemmeno per dieci sterline potremmo lasciare andare Rosa con uno sconosciuto. Come possiamo sapere se tu la tratterai bene?»

«Ve ne darò dodici,» disse il Ragazzo.

«Non è una questione di denaro,» disse l’uomo. «Mi fai una buona impressione. Non vorremmo essere d’ostacolo a un miglioramento della posizione di Rosa – ma sei troppo giovane.»

«Quindici è il mio massimo,» disse il Ragazzo, «prendere o lasciare.»

«Non puoi fare nulla senza il nostro consenso,» osservò l’uomo.

Il Ragazzo si scostò un poco da Rosa. «Non sono poi tanto innamorato.»

«Cambiale in ghinee.»

«Avete avuto la mia offerta.» Con orrore si guardò tutt’attorno nella stanza. Nessuno avrebbe potuto dire che egli non aveva fatto bene ad allontanarsi da tutto questo, a commettere qualsiasi delitto... quando l’uomo apriva la bocca, gli pareva di sentire suo padre, quella figura nell’angolo era sua madre: contrattava per sua sorella e non provava nessun desiderio... Si girò verso Rosa: «Me ne vado,» e provò una debolissima fitta di compassione per la bontà, che non sapeva ammazzare per sfuggire. Si diceva che i santi hanno – qual era la frase? – “delle virtù eroiche”, una pazienza eroica, una forza di sopportazione eroica, ma egli non riusciva a scorgere nulla di eroico nel viso scarno, negli occhi sporgenti, nell’ansia pallida, mentre s’ingannavano a vicenda e la vita della ragazza si confondeva con un contratto finanziario. «Ebbene,» disse, «ci rivedremo,» e si avviò verso la porta.

Quando fu lì, si rivoltò: sembrava una riunione di famiglia. Impaziente e sprezzante cedette: «Benissimo. Ghinee. Manderò il mio avvocato» e mentre attraversava l’andito puzzolente, Rosa gli venne dietro, per esprimergli ansimante la sua gratitudine.

Fece la sua parte sino all’ultimo, riuscendo a cavar fuori un sorriso e un complimento: «Farei di più per te.»

«Sei stato meraviglioso,» ella disse, volendogli bene fra i cattivi odori del cesso, ma la lode fu un veleno: era un segno ch’ella lo possedeva, conduceva diritto a quanto ella si aspettava da lui, all’orrenda manifestazione di un desiderio che egli non provava. Rosa lo seguì fuori nell’aria fresca di Nelson Place. I bambini giocavano fra le rovine di Paradise Piece e il vento soffiava dal mare sul posto dove sorgeva la sua casa di un tempo. Divampò in lui un confuso desiderio di annientamento, l’immensa superiorità della non-esistenza.

Ella disse, come aveva già detto un’altra volta: «Mi sono sempre chiesta come sarebbe successo.» La sua mente si aggirava confusamente in mezzo agli eventi del pomeriggio, ne trasse fuori l’inaspettata scoperta: «Non ho mai visto un accesso di cattivo umore passare così in fretta. Devono averti preso in simpatia.»