Parte quinta
Capitolo primo
Tutto andava bene: l’inchiesta non era neppure arrivata ai titoli dei giornali: nessuno aveva sollevato dei dubbi. Il Ragazzo stava tornando a casa con Dallow, e avrebbe dovuto sentirsi trionfante. Disse: «Non mi fiderei di Cubitt, se Cubitt lo sapesse.»
«Cubitt non lo saprà. Prewitt ha paura di parlare – e tu sai che io non parlo, Rossetto.»
«Ho la sensazione che siamo pedinati, Dallow.»
Dallow guardò dietro a sé. «Nessuno. Conosco ogni poliziotto di Brighton.»
«Nessuna donna?»
«No. A chi pensi?»
«Non so.»
La banda dei ciechi si avanzava lungo l’orlo del marciapiedi, sfregando i lati delle scarpe contro il margine, esplorando a tastoni la strada nella luce abbagliante, sudando lievemente. Il Ragazzo risalì un lato della via per incontrarli: la musica che suonavano era lamentosa, compassionevole, qualcosa tolto dal libro degli inni, che parlava di fardelli: era come una voce che profetizzasse sciagure nel momento della vittoria. Il Ragazzo si scontrò col cieco di testa e lo spinse fuori strada, lanciandogli sottovoce delle maledizioni, e tutta la banda, nell’udire il capo mutare direzione, si spostò incerta con un piede sul lastricato e rimase incagliata, finché il Ragazzo non li ebbe felicemente oltrepassati, come barche in bonaccia su un Atlantico immenso e senza terre. Poi tornarono tutti sull’orlo, cercando a tastoni l’inizio del marciapiedi.
«Che ti prende, Rossetto?» chiese Dallow. «Sono ciechi.»
«Perché dovrei uscire dal mio cammino per un mendicante?» ma non si era accorto che erano dei ciechi, ed ora si vergognava del proprio contegno. Era come se fosse stato portato ben lontano su una strada, di cui intendeva percorrere solo un certo tratto. Si fermò appoggiandosi alla balaustrata del lungomare, mentre la folla del giovedì passava e il sole cocente si affievoliva.
«Che stai rimuginando, Rossetto?»
«Sto pensando a tutto questo pasticcio per Hale. Meritava quello che ha avuto, ma se avessi saputo come sarebbe andata, forse lo avrei lasciato in vita. Forse non valeva la pena di ucciderlo. Un piccolo giornalista da niente, che ha fatto il gioco di Colleoni e ha fatto ammazzare Kite. Perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di lui?» Di botto guardò al disopra della sua spalla. «Ho già visto quel tipo?»
«Non è che un bagnante.»
«Mi pareva di avere già visto la sua cravatta.»
«Sono a centinaia nei negozi. Se tu fossi uno che beve, direi che avresti proprio bisogno di una sbornietta. Perbacco, Rossetto, ma tutto va bene. Nessuno ha sollevato dei dubbi.»
«Ci sono soltanto due persone che potrebbero farci impiccare: Spicer e quella ragazza. Ho ammazzato Spicer e sto per sposare la ragazza. Mi sembra che sto facendo tutto.»
«Bene, ora saremo tranquilli.»
«Oh sì, tu sarai tranquillo. Sono io che corro tutto il rischio. Tu sai che ho ammazzato Spicer, Prewitt lo sa, ci manca solo Cubitt e questa volta ci vorrà un massacro per mettermi a posto.»
«Non dovresti parlarmi in questo modo, Rossetto. Da quando Kite è morto, hai vissuto come se tu fossi ripiegato su te stesso. Hai bisogno di godertela un poco.»
«Volevo bene a Kite,» disse il Ragazzo. Guardò dritto dinanzi a sé, verso la Francia, un paese che non conosceva. Dietro il suo dorso al di là del Cosmopolitan, dell’Old Steyne, di Lewes Road, c’erano colline, villaggi e mandrie intorno alle pozze di rugiada, un’altra terra che non conosceva. Questo era il suo regno, il lido popoloso, poche migliaia di iugeri di case, una stretta striscia di linee elettrificate che portavano a Londra, due o tre stazioni ferroviarie con i loro ristoranti e le loro focacce. Era stato il regno di Kite, era stato abbastanza per Kite e quando Kite era morto nella sala d’aspetto di S Pancrazio, era stato come se gli fosse morto un padre, lasciandoglielo in eredità con l’obbligo di non abbandonarlo mai per contrade sconosciute. Aveva ereditato persino le sue manie, le unghie rosicate, le bevande non alcooliche. Il sole scese lontano in mare e come una seppia scagliò nel cielo la macchia delle agonie e delle sofferenze.
«Sfogati, Rossetto. Lasciati andare. Concediti una vacanza. Vieni con me e con Cubitt a far bisboccia alla Regina di Cuori.»
«Lo sai che non bevo mai nulla.»
«Lo dovrai ben fare il giorno del tuo matrimonio. Chi ha mai sentito di un matrimonio senza brindisi?»
Un vecchio ricurvo scese sulla spiaggia, molto lentamente, girando attorno alle pietre, alla ricerca di mozziconi di sigarette e di resti di cibo in mezzo alle alghe disseccate. I gabbiani che erano rimasti appollaiati come candele sul lido si innalzarono stridendo sotto il viale. Il vecchio trovò una scarpa e la stipò nel suo sacco e un gabbiano si precipitò giù dal viale, passando rapidamente attraverso la navata di ferro del molo del Palace, bianco e teso alla meta nell’oscurità: mezzo avvoltoio e mezzo colombo. Alla fin fine uno doveva sempre imparare.
«Benone, verrò,» disse il Ragazzo.
«È la migliore taverna sulla strada di Londra,» Dallow lo incoraggiò.
Si recarono in campagna nella vecchia Morris. «Mi piace di prendere una boccata d’aria,» disse Dallow. Era il momento fra l’accensione delle lampade e la vera oscurità, quando i fari delle macchine scintillano nella scarsa visibilità altrettanto deboli e inutili dei lumini da notte nelle camere dei bimbi. I cartelli pubblicitari si susseguivano lungo la strada maestra: delle villette e una fattoria semidistrutta, un prato d’erba corta e di terra argillosa, in cui era stato abbattuto un silos; un mulino a vento che offriva tè e limonate, con le grandi ali in rovina spalancate.
«Questa passeggiata sarebbe piaciuta al povero Spicer,» disse Cubitt. Il Ragazzo era seduto dietro a Dallow che guidava e Cubitt stava appollaiato sul sedile posteriore. Il Ragazzo poteva vederlo nello specchietto che sobbalzava lievemente sui sostegni difettosi.
La Regina di Cuori appariva inondata di luce dietro ai distributori di benzina: era un granaio del tempo dei Tudor, poi trasformato, e tracce del cortile di una fattoria erano rimaste nella sistemazione del ristorante e dei bar: dov’era stato il chiuso delle bestie, c’era ora una piscina. «Avremmo dovuto portare con noi qualche ragazza,» disse Dallow.
«Non se ne possono invitare in questo locale. È un posto chic.»
«Venite al bar,» disse Cubitt e mostrò la strada. Si soffermò sulla soglia e fece un cenno a una ragazza seduta che beveva da sola al lungo bancone d’acciaio sotto le vecchie travi. «Sarebbe meglio di dirle qualcosa, Rossetto. Sai il genere di frasi: “Era veramente un buon compagno, e prendiamo parte al tuo dolore”.»
«Cosa stai borbottando?»
«Quella è la ragazza di Spicer,» disse Cubitt.
Il Ragazzo ristette nel vano della porta e con riluttanza la esaminò tutta: capelli chiari come argento, una vasta fronte vacua, delle belle chiappette delineate dallo sgabello alto, sola con il suo bicchiere e il suo dolore.
«Come vanno le cose, Silvia?» chiese Cubitt.
«Malissimo.»
«Terribile, vero? Era un buon compagno. Uno dei migliori.»
«Eri lì, vero?» ella domandò a Dallow.
«Billy avrebbe dovuto far riparare quella scala,» disse Dallow. «Ecco il Rossetto, Silvia, il migliore della nostra banda.»
«Anche tu c’eri?»
«Non c’era,» disse Dallow.
«Un altro bicchierino?» disse il Ragazzo.
Silvia trangugiò quello che aveva nel bicchiere. «Non dico di no. Un sidecar.»
«Due whiskies, un sidecar, una spremuta di pompelmo.»
«Come,» disse Silvia, «tu non bevi?»
«No.»
«Scommetto che non vai neppure con le ragazze.»
«L’hai preso in pieno, Silvia,» disse Cubitt, «al primo colpo.»
«Ammiro un tipo simile,» disse Silvia. «Penso che sia meraviglioso di essere in forma. Spicer diceva sempre che un giorno ti saresti sfogato e allora – caspita, che cosa meravigliosa!» Fece per porre giù il bicchiere, si sbagliò e rovesciò il cocktail. Disse: «Non sono ubbriaca. Sono sconvolta per il povero Spicer.»
«Su,» disse Dallow, «Rossetto, bevi qualcosa. Ti tirerà su.» Spiegò a Silvia. «Anche lui è sconvolto.» Nella sala da ballo, la musica stava suonando Amami stanotte e dimentica nella luce del giorno tutto il nostro godimento...
«Bevi,» disse Silvia. «Sono stata terribilmente sconvolta. Lo puoi vedere che ho pianto. Non ho degli occhi orrendi...? Perbacco, non osavo quasi di farmi vedere. Ora posso capire perché la gente va nei conventi.» La musica faceva breccia nella resistenza del Ragazzo, che fissava con una specie di orrore e curiosità l’amica di Spicer: quella conosceva il gioco. Scosse il capo, ammutolito nel suo orgoglio ferito. Egli sapeva il proprio valore, sapeva di essere un capo e che non v’erano limiti alla propria ambizione; nulla doveva esporlo alle canzonature di gente più esperta di lui. Essere messo a confronto con Spicer ed essere giudicato inferiore... – i suoi occhi si aggiravano sconfortati e la musica continuava il suo lamento dimentica nella luce del giorno... – nel gioco, di cui tutti ne sapevano tanto più di lui.
«Spicer diceva che tu non avevi mai avuto una ragazza,» disse Silvia.
«Ce n’erano un mucchio che Spicer non conosceva.»
«Sei terribilmente giovane per essere così famoso.»
«Tu ed io faremmo meglio ad andarcene,» disse Cubitt a Dallow. «A quanto pare, non c’è bisogno di noi. Andiamo a guardarci le bellezze in costume da bagno.»
Sparirono a passi lenti. «Dallie lo capisce, quando un ragazzo mi piace,» disse Silvia.
«Chi è Dallie?»
«Il tuo amico, il signor Dallow, stupido. Balla – via, non conosco neanche il tuo vero nome?»
Egli la guardava con una bramosia spaventata: era stata l’amante di Spicer, la sua voce piagnucolosa era giunta sui fili del telefono fissando degli appuntamenti, Spicer aveva ricevuto delle lettere in buste violette, indirizzate a lui, anche lui aveva avuto qualcosa di cui essere orgoglioso, da mostrare agli amici – “la mia ragazza”. Ricordò dei fiori che erano arrivati da Frank con un cartoncino “Col cuore spezzato”. Era affascinato da tanta infedeltà. Ella non era di nessuno – a differenza di una tavola o di una seggiola. Disse lentamente, attorniandola col braccio per prendere il suo bicchiere, premendole goffamente il seno: «Sto per sposarmi fra un giorno o due.» Era come se volesse asserire un diritto alla propria parte di infedeltà: non sarebbe stato sopraffatto dall’esperienza. Alzò il bicchiere della ragazza e lo bevve: il dolce sapore gli scese nella gola e il suo primo alcool gli parve sgradevole al palato – ecco dunque quello che la gente chiamava divertirsi – questo è il gioco. Pose la mano sulla coscia della ragazza con una specie di orrore: Rosa e lui: quarantott’ore dopo che tutto fosse stato combinato da Prewitt – soli in Dio sa quale alloggio – e allora e allora? Sapeva i gesti tradizionali come uno può imparare i principii del tiro con il gesso sopra una lavagna, ma tradurre questa scienza in atto, sopra il villaggio da distruggere e la donna da violentare – bisognava essere aiutati dai nervi. Ed i suoi erano irrigiditi dalla ripulsione: essere toccato, concedersi, mettersi a nudo – finché aveva potuto, aveva respinto ogni intimità alla estremità di una lametta da rasoio.
Disse: «Vieni, balliamo.»
Fecero lente evoluzioni nella sala da ballo. Essere sopraffatto dall’esperienza era già abbastanza triste, ma esserlo dall’inesperienza e dall’innocenza, da una ragazzina che circolava con i vassoi da Snow, da una cagnetta di sedici anni...
«Spicer aveva una grande opinione di te,» disse Silvia.
«Vieni fuori dove c’è il parcheggio delle macchine,» propose il Ragazzo.
«Non mi sento, con Spicer che è morto solo ieri.»
Si fermarono e batterono le mani e di nuovo la musica ricominciò. Dal bar giungeva il rumore dello shaker e le foglie di un unico alberello premevano contro la finestra al di là del grosso tamburo e del sassofono.
«Mi piace la campagna, mi rende romantica. A te piace la campagna?»
«No.»
«Questa è vera campagna. Poco fa ho visto una gallina. Nei gin-slings mettono le uova di qui.»
«Andiamo dove sono le macchine.»
«Ci starei anch’io. Perdio, non sarebbe bello? Ma non posso, con il povero Spicer...»
«Hai mandato dei fiori, no, hai pianto...»
«Ho degli occhi orribili.»
«Che puoi fare di più?»
«Mi ha spezzato il cuore. Che il povero Spicer se ne andasse a quel modo.»
«Lo so. Ho visto la tua corona.»
«Sembra una cosa orribile, no? Ballare con te così e lui...»
«Andiamo dove sono le macchine.»
«Povero Spicer,» ma era lei che andava avanti, ed egli osservò con inquietudine come ella corresse – letteralmente corresse – attraverso l’angolo illuminato di quella che una volta era stata un’aia, verso l’oscuro parco delle macchine e il gioco.
Pensò con un senso di nausea: «Fra tre minuti saprò.»
«Qual è la tua macchina?» chiese Silvia.
«Quella Morris.»
«Non fa per noi,» disse Silvia. Sfrecciò via lungo la fila delle macchine.
«Questa Ford.» Con una spinta ne aprì lo sportello, disse «Oh, scusate,» lo richiuse, si arrampicò sul sedile posteriore della macchina seguente nella fila e lo aspettò.
«Oh» la sua voce affermò dolce ed appassionata dall’interno oscuro: «mi piacciono le Lancia.» Egli rimase ritto sulla soglia e tra lui e la faccia bella e vacua l’oscurità si andava diradando. La ragazza, tirata la sottana sopra i ginocchi, lo aspettava con docilità lussuriosa.
Per un istante e all’ombra dell’atto odioso e volgare egli ebbe la coscienza delle proprie immense ambizioni: l’appartamento al Cosmopolitan, l’accendisigari d’oro, le poltrone con le corone impresse per una sgualdrina straniera che si chiamava Ugegna. Hale scomparve, come una pietra gettata al di là di una scogliera: egli si trovava all’inizio di un lungo vestibolo dal pavimento di legno lucido, c’erano dei busti di grandi uomini e si udivano degli applausi, il signor Colleoni si inchinava come un commesso di magazzino, indietreggiando; un esercito di rasoi stava dietro a lui, divenuto un conquistatore. Degli zoccoli tamburinavano lungo la dirittura e un altoparlante annunciava il vincitore: una musica suonava. Gli doleva il petto dallo sforzo di contenere l’intero mondo.
«Lo sai quello che devi fare, vero?» chiese Silvia.
Con spavento ed orrore egli si domandò: «Qual è la prima mossa?»
«Svelto,» disse Silvia, «prima che ci trovino qui.»
Il pavimento di legno si arrotolò come un tappeto. Il chiarore della luna batté su un anello da poco prezzo e un ginocchio grassoccio. In un accesso di rabbia dolorosa ed amara, egli disse: «Aspetta lì, ti chiamerò Cubitt» e voltò le spalle alla Lancia, ritornando verso il bar. Delle risate che provenivano dalla piscina lo fecero deviare. Si fermò sulla soglia con il gusto dell’alcool sulla lingua, guardando una ragazzina sottile con una cuffia rossa di gomma che rideva sguaiata nella luce dei riflettori. Il suo cervello andava e veniva continuamente e inevitabilmente verso Silvia come un modello di macchina mosso elettricamente. Il timore e la curiosità rodevano l’ambizioso futuro: si accorse di avere la nausea e vomitò.
Sposarmi, pensò: al diavolo, no: piuttosto farsi impiccare.
Un uomo in costume da bagno scese correndo il trampolino, si buttò con una capriola nella luce lattiginosa, fendette l’acqua oscura: i due bagnanti nuotarono insieme, una bracciata dopo l’altra, verso l’acqua bassa, si girarono e tornarono indietro, sempre affiancati, tranquilli e senza fretta, facendo un loro gioco privato, felici e comodi.
Il Ragazzo rimase immobile a guardarli, e allorché essi ripercorsero una seconda volta la piscina, egli vide nell’acqua illuminata mossa dalle loro bracciate fremere la propria immagine, le spalle strette e il petto incavato, e sentì le scarpe brune appuntite scivolare sulle piastrelle bagnate e rilucenti.