XXX

 

 

 

 

 

 

 

«Non ho ancora visto Ghiaccio. È in ritardo?»

Adraman si guardò intorno. La sala era gremita di soldati, e ognuno rappresentava un reparto dell’esercito dell’alleanza. Avevano risposto quasi tutti alla chiamata di Eldain. Lungo la linea di difesa erano rimasti soltanto i delegati dei comandanti. Un azzardo estremamente pericoloso, per quanto necessario.

«Non vedo Ghiaccio da dieci giorni» rispose Berg «è partito per coordinare gli uomini degli alleati che lui rappresenta, e quando noi siamo andati via, non era ancora tornato.»

«Temo che non lo vedrai più…» esclamò Adraman. «Probabilmente non ha preso molto bene lo sgarro che io e Mordraud gli abbiamo fatto durante la riunione al fronte… quando gli abbiamo impedito di portare a termine il ritiro delle truppe che lui rappresenta.»

«Dici che è tornato a Est?»

«Sì, ho sentito voci a riguardo.»

Eldain si sedette sullo scranno di legno. Un trono scarno, come l’uomo a cui apparteneva. Quando tutti ebbero preso posto, si alzò e salutò i presenti con un gesto della mano.

«La famiglia Rinn ha dato ordine alle sue truppe di abbandonare il fronte.»

La sala venne squassata da un brusio incontenibile. Eldain aveva iniziato senza girare intorno al problema. Adraman guardò Berg costernato, ma lui non ne sapeva nulla, come del resto tutti gli altri. Una notizia drammatica. Molti si coprirono il volto, pallidi e senza più speranze.

«Ho parlato con Rinnion in persona, qualche settimana fa. Ci siamo incontrati al crocevia della strada maestra del Sud, in territorio neutrale. Vi riporto testualmente le sue parole: che si fotta Cambria e la guerra, non voglio che la mia gente muoia come sta morendo la tua.» Eldain gesticolava e parlava strisciando la lingua sui denti, imitando il vecchio e ormai passato alleato. «Abbiamo ancora la possibilità di impedire alla pestilenza di raggiungerci. Tieniti i miei soldati già malati, il resto se ne torna a casa. Non ho intenzione di aspettare un giorno di più

«Ma è impazzito?! Così facendo ci condanna tutti! Senza di loro, anche gli altri alleati dell’Est abbandoneranno il fronte!» gridò Berg infuriato. Gli altri capitani si unirono alle sue grida bestemmiando contro Rinnion e i suoi. I rapporti non erano idilliaci, fra le famiglie Eld e Rinn. I vecchi dissapori vennero a galla tutti insieme, nello stesso istante.

«Porci di fiume! Dovremmo attaccarli e fargliela pagare! Traditori!» urlò il comandante del fronte a Sud, quello più a ridosso di Hannrinn. Anche i capitani del Nord, il fronte vicino a Cambrinn, erano dello stesso parere. Eldain non rispondeva a nessuno, lasciando inspiegabilmente che la confusione montasse a valanga. Adraman si alzò in piedi urlando a squarciagola di mantenere la calma.

«Dobbiamo trovare una soluzione, dateci un taglio tutti! Non possiamo attaccare la famiglia Rinn, è una follia! Gli altri alleati ci salterebbero alla gola! Per noi sarebbe la fine!»

«E cosa proponi di fare, Adraman?! E voi, Eldain? Cosa avete risposto a Rinnion?» chiese un coro indignato di capitani.

«Ho detto che poteva andare a farsi fottere. E che i conti li avremmo fatti a tempo debito» rispose lui. Adraman perse la pazienza. Si avvicinò al trono a passo furente.

«Che ti prende Eldain?! Ci hai convocato per scatenarci contro Hannrinn? Lo sai bene che senza di loro siamo spacciati!»

Mordraud sopraggiunse alle sue spalle e lo tirò indietro fino a riportarlo al suo posto. Sembrava l’unico ad aver mantenuto un minimo di controllo. In realtà era solo apparenza. Dentro di lui si agitava un fiume in piena, inattaccabile anche da notizie così drammatiche. Aveva visto suo figlio. L’aveva tenuto in braccio. Nient’altro importava, né la guerra, né la maledetta famiglia Rinn.

Aveva ben altro a cui pensare. Non voleva che Deanna e il bambino vivessero per tutta la vita in guerra. Non voleva neppure immaginare suo figlio su un campo di battaglia.

«Ora calmati Adraman, devi dare l’esempio.»

«Bah, ma quale esempio!» imprecò lui. «Senza i Rinn questa guerra è FINITA!»

«Lo so perché sei preoccupato… per Deanna, e per… Mordraud…» abituarsi al nome di suo figlio non era una cosa facile «ma dobbiamo restare lucidi, abbiamo superato anche Lungo Inverno, possiamo farcela!»

Adraman annuì mestamente. «Hai ragione, sono troppo preoccupato… proprio ora che la situazione sembrava migliorare… maledizione…»

«Dobbiamo fare in modo che i nostri nemici non vengano a sapere, almeno non subito, dell’abbandono di Rinnion» gridò Eldain per richiamare l’attenzione di tutti. «Almeno non fino alla prossima primavera. Sono riuscito a ottenere più scorte possibili dai feudi della costa dell’Est, pesce essiccato e sotto sale in cambio di protezione. Ho dato ordine ai battaglioni di stanza a Cambrinn e Hannrinn di ripiegare nell’interno, per tenere tutti più vicini e impedire ai malati di raggiungere i nostri alleati. I veri alleati.»

«Così avremo il fronte scoperto! E se la famiglia Rinn si alleasse con Cambria?» esclamò Berg.

«Non lo faranno. Rinnion e suo fratello sanno benissimo che Loralon li farebbe impiccare alla prima occasione, non prima però di aver messo le mani sul ponte dell’Hann. Diciamo che, con la loro scelta… hanno anche deciso di combattere da soli contro l’impero. Ma non sono sicuro che l’abbiano realmente capito.»

Eldain sorrise con evidente sarcasmo. Adraman non l’aveva mai visto così vendicativo. Sembrava un vecchio incattivito dall’età, terribilmente simile a Rinnion quando lui gli aveva implorato di non abbandonare l’alleanza. Non riusciva proprio a immaginare quale strategia stesse elaborando. Si voltò verso Mordraud, ma lui stava fissando Eldain annuendo impercettibilmente.

«Ci stai dicendo che saremo noi ad attaccare, non è vero?» disse Mordraud improvvisamente, spiazzando l’intera sala. Adraman, Berg e tutti gli altri si voltarono di scatto verso di lui. In tutta risposta, Eldain sorrise di nuovo.

«Magari non ora. Però devo ammettere che ci ho pensato su» rispose il vecchio nobile.

«È UNA FOLLIA!» urlò Adraman, insieme a molti altri. Ma non tutti. A piccoli gruppi, alcuni capitani si misero a confabulare fra loro, in sintonia con le parole di Mordraud.

«Attaccare Cambria?! E con quali uomini? L’impero ha un numero mostruoso di soldati rispetto a noi! Non abbiamo la minima speranza neppure di avvicinarci alla capitale!»

«Ho saputo che un nutrito gruppo di appestati si è organizzato ed è partito per raggiungere l’Ansa dell’Hann, di fronte a Hannrinn oltre il fiume, in territorio nemico. O mi sbaglio?» chiese Mordraud.

Adraman non sapeva nulla, ma Berg sì.

«Non sbagli. Noi come al solito non glielo abbiamo impedito, quella gente ha diritto di scegliere come preferisce morire…»

«L’hai ordinato tu, Eldain… non è vero?» continuò Mordraud. Eldain annuì e aggiunse «non solo. Ne ho inviati altri fuori dalla cintura dei monti di Cambrinn, sempre in territorio nemico.»

Adraman ragionò in fretta, per non perdere il filo della situazione. Eldain voleva appestare le terre a ridosso dei possedimenti dei Rinn. Non poteva essere soltanto una mossa di ripicca, oltretutto ignobile e disgustosa. Doveva esserci un motivo.

«Volete spronare i Rinn ad attaccare Cambria per accaparrarsi i territori di contesa!» gridò sbalordito. «Vedendoli indeboliti dalla pestilenza, Rinnion e suo fratello potrebbero farsi venire strane idee di conquista… aveva accennato a qualcosa di simile anche con me, quando l’ho incontrato a Hannrinn.»

«Esatto. Per ora, mi basterebbe che quei fetenti figli del fiume si azzardassero a pizzicare Cambria. Così facendo, l’impero avrebbe un’altra gatta da pelare, prima di pensare a noi e al Terrapieno.»

«Non è una brutta idea» ammise Berg soppesando le parole di Eldain.

«Ma stai scherzando?! Vuole dire fare il doppio gioco con i Rinn!»

«Non necessariamente, Adraman. Attaccare, ne convengo con te, mi sembra una follia, ma l’idea di Eldain è l’unica speranza che abbiamo per prendere tempo.»

Adraman si guardò intorno, e non vide altro che assensi e facce piuttosto convinte. Eldain aveva una presa inossidabile sulla sua gente. Si fidavano di lui ciecamente.

«Ora discuteremo i particolari, ma a grandi linee il piano è tutto qui. Tenere lontano Cambria per un po’, e mettergli i bastoni tra le ruote con i nostri vecchi alleati. Inoltre…»

Eldain si alzò lentamente. Le sue gambe non lo reggevano più molto bene, notò Adraman con ansia. Il vecchio nobile era stanco, sfiancato dagli anni passati in guerra contro l’impero. Ma senza di lui… non osò nemmeno finire quel pensiero nefasto.

«Inoltre voglio comunicare a tutti una novità molto importante. D’ora in poi, Adraman sarà ufficialmente il mio portavoce. Le sue parole saranno le mie. Qualcuno ha delle obiezioni?»

Adraman restò a bocca aperta, con le mani stese sulle ginocchia. Portavoce era sinonimo di sostituto. Eldain stava velatamente abdicando.

«Bravo Adraman… questa sì che è un’ottima notizia!» si complimentò Mordraud.

Anche Berg fece lo stesso. Nessuno dei presenti portò avanti la minima critica. La fiducia nei suoi confronti era pari a quella che tutti avevano per Eldain.

Inoltre, nessuno si sarebbe mai sognato di desiderare le responsabilità che gli erano appena cadute addosso. Responsabilità che neppure lui voleva.

Ma era pur sempre un uomo di Eldain. Fino alla fine.

«Se nessuno si propone al posto mio, accetto» esclamò Adraman con un nodo in gola.

 

***

 

«Quanti oggi?»

«Ottanta, signore.»

Dunwich prese la tavoletta di legno, strinse il coltello e segnò. Il risultato era sempre più sconfortante. Di quel passo, prima della nuova primavera avrebbe perso più della metà degli uomini.

«Il recinto è terminato?»

«Ancora qualche giorno, signore» rispose il soldato, visibilmente a disagio. I lavori procedevano fastidiosamente a rilento. Nessuno voleva farne parte, per paura delle ritorsioni. L’idea di costruire un campo chiuso e isolato dal resto dell’accampamento non era stata ben accolta dalle truppe. Chiunque venisse spedito là dentro, poteva già considerarsi automaticamente morto. Senza un muro di cinta, però, Dunwich doveva disporre troppe guardie a difesa del perimetro. Era necessario isolare i malati nel modo più efficace, con o senza l’appoggio dei suoi uomini.

«Avvisate i manovali che se non finiscono entro domani, la prima cosa che farò sarà di chiuderli dentro e buttare via la chiave.»

«Sì… signore.»

Eldain aveva giocato sporco. Molto sporco. Dunwich poteva capirlo. Dopo Lungo Inverno, era chiaro che sarebbe saltato ogni schema, e soprattutto ogni regola. I ribelli stavano usando l’unica arma a loro disposizione, cosa che lui non poteva fare. Aveva provato a proporlo ai capitani di reparto, ma nessuno aveva preso minimamente in considerazione l’idea. Un conto sarebbe stato se i malati stessi si fossero fatti avanti per una missione suicida, come era certo avessero fatto gli uomini di Eldain. Ma i soldati di Cambria non erano ribelli, neanche un po’. Mancavano di determinazione, di tutto quello che rendeva la gente di Eld così dura da sottomettere. In compenso, i suoi uomini mostravano ancora un’incrollabile fiducia che la potenza dell’impero, tutti i suoi uomini, il suo oro, potessero ancora avere la meglio. Anche sulla pestilenza. Dopotutto, dalla loro parte avevano il potere delle armonie.

Peccato che i cantori avessero già precisato che non avevano la minima idea di come curare quella malattia.

Le falde della tenda si scostarono e un altro soldato entrò, rosso in volto. «Comandante, è arrivato un messaggero per voi!»

«Fatelo subito entrare. E tu puoi andare. Vai a riferire le mie parole ai manovali. E non essere tenero!»

Non era un comune messaggero, l’uomo mandato da Cambria. Era una Lancia, per giunta di rango. Lo conosceva, avevano parlato diverse volte nella capitale, e lo aveva incontrato spesso in compagnia di Asaeld. Il suo nome era Griserio. Una persona di fiducia dell’Imperatore e un ottimo comandante da scrivania, come lui chiamava gli strateghi che stazionavano nei pressi del fronte. Si salutarono con piacere, e Dunwich gli offrì da bere. Non ne era rimasto molto, dato che la sera aveva preso l’abitudine di darsi da fare per abbassarne le scorte, complici la tensione e le responsabilità che si sentiva addosso. Griserio si sedette su una poltrona, ringraziando prese il liquore, e distese le gambe per sgranchirle dopo la lunga cavalcata. Dunwich sorrise. Anni prima, quando era ancora in carriera, non aveva provato simpatia per quel mezzo politicante dalla lingua appuntita. Ma era da tanto tempo che non poteva tenere una conversazione di livello, e la cosa lo rallegrò.

«Ti ricordi quella risonanza che insegnavano in accademia… quella per resistere alla fatica e dormire meno?» disse Griserio sghignazzando. «Beh… non usarla. Il canto è pessimo, e per tenerlo in piedi si fa solo una gran fatica. Alla fine, hai le gambe riposate e la testa che ciondola.»

«Immagino che ti abbiano messo una gran fretta…» rispose Dunwich «ah… quella risonanza non l’ho mai ricercata. Preferisco un paio di bicchieri di vino.»

«Già, hai proprio ragione! Devo consegnarti due missive, una da parte dell’approvvigionamento, l’altra di Asaeld. Tieni…» Griserio tirò fuori dalla sacca che portava a tracolla un plico chiuso da uno spago. Dunwich spezzò il sigillo e diede un’occhiata al primo messaggio.

«Senti qua!» esclamò basito. «Per ora, non possiamo inviarvi i cavalli che avete richiesto. Sono tutti in uso per il lavoro nei campi. È incredibile! Stalloni di qualità spediti in mezzo al fango e ai cavoli!» concluse Dunwich digrignando i denti. «Ma come pretendono che io possa attaccare il Terrapieno senza i mezzi?! Non si rendono conto che quaggiù perdiamo uomini ogni giorno?»

«E non sai il resto…» rispose la Lancia «a Nord del fronte, e all’altezza dell’Ansa dell’Hann a Sud, siamo sotto attacco.»

«CHE COSA?!» urlò Dunwich costernato. «Loro che attaccano noi?!»

«Proprio così! Gli eserciti della famiglia Rinn hanno preso il controllo delle terre subito a ridosso dei loro confini. Dicono che laggiù la pestilenza stia imperversando. Loralon ha già inviato nuovi battaglioni in zona, ma sarà difficile riprenderne il controllo.»

«Non mi sembri molto preoccupato…»

Griserio allargò le braccia sorridendo.

«Perché dovrei esserlo? Quattro pezzenti ammalati che attaccano un paio di campi aridi… e allora? Cosa cambia all’impero? Cosa cambia a noi?»

«Li stai sottovalutando…» rispose Dunwich «tu, come tutti gli altri. Non sapete di cosa sono capaci.»

«Quello che so, è che Eldain è messo male. Molto male. Attaccarci è la scelta peggiore che potesse fare. Loralon ha ordinato che dal Terrapieno venissero inviati un paio di battaglioni a Sud, per chiudere in fretta questo irritante contrattempo. Organizza un contingente, mettici dentro tutti quelli che ti danno dei problemi qui al campo, e vedrai che prima dell’arrivo della primavera sarà tutto sistemato!»

Dunwich scoppiò a ridere. Griserio lo guardò stupito, senza comprendere il motivo di tanta ilarità. Dunwich conosceva alla perfezione quello sguardo.

Si chiamava ignoranza.

«Gli ordini dell’Imperatore non si discutono. Entro tre giorni, Loralon avrà gli uomini che chiede.»

«Perfetto» rispose dubbioso Griserio «ma cosa ci trovi di tanto divertente?!»

«Nulla, o almeno, niente che voi possiate capire. Tranquillo, rispetterò gli ordini. Però trovo molto buffo che mi sia stato chiesto di vincere questa guerra, per poi trovarmi da solo, e in più rapinato dei miei uomini.»

«Io porto solo gli ordini, Dunwich.»

«Lo so… a proposito, devo dare un’occhiata al resto delle missive. Mi puoi scusare? Magari potresti cenare con me, più tardi.»

Griserio si alzò con un mezzo inchino e poggiò il bicchiere vuoto sul tavolo.

«Capisco. Vuoi stare un po’ da solo… non c’è problema. A dopo, Dunwich.»

La Lancia abbandonò la tenda senza aggiungere altro. Dunwich si riempì di nuovo il bicchiere, si mise comodo sulla poltrona e spezzò il sigillo in ceralacca della seconda lettera. Era il simbolo di Asaeld, una lettera A incrociata da due spade.

Una comunicazione ufficiale. Un evento raro.

 

Restare al fronte centrale, a qualunque costo. Colpire il Terrapieno se l’occasione sarà propizia. Le Lance che nomino qui sotto hanno l’ordine di ritornare a Cambria con urgenza. Non prendere nessun altro ordine in considerazione, se non quelli che io, di persona, ti invierò.

 

«Restare a qualunque costo… che messaggio curioso» mormorò Dunwich sorseggiando il calice di vino mentre scorreva l’elenco dei nomi citati. «Non c’era bisogno di ribadirlo. Avevo già ricevuto comandi precisi da parte dell’Imperatore…»

Liberarsi di quelle Lance era un brutto colpo, e si chiese il motivo di tanta fretta da parte di Asaeld. Era successo qualcosa che ancora lui non sapeva? Magari era venuto a conoscenza di nuovi fantomatici piani di attacco dei traditori dell’impero. Di certo, la faccenda del cancelliere Parro e delle sue macchinazioni doveva pur avere delle conseguenze. Quale che fosse il motivo, non poteva far altro che obbedire.

Le parole di Asaeld erano legge per tutto l’esercito. Lo stesso valeva per lui.

“Perché tutta questa fretta, Asaeld? Cosa sta succedendo a casa?”

 

***

 

Deanna spalancò gli occhi nel buio della camera da letto, madida di sudore ghiacciato. Adraman era sdraiato al suo fianco. Con il palmo della mano sentì il suo respiro. Era vivo, per fortuna. Le coperte della culla di Mordraud si muovevano impercettibilmente, segno che anche lui stava bene.

Era stato solo un sogno. Sempre il solito, orrendo incubo che la tormentava tutte le notti da quando aveva partorito.

Deanna si girò e rigirò nel letto, sprimacciò il cuscino, tolse e riprese le coperte infastidita da vampate di caldo e freddo improvvise. Niente da fare. Non riusciva più a prendere sonno. Non dormiva decentemente da giorni, e quando era quasi sul punto di farcela, il bambino iniziava a frignare. Doveva cambiarlo, pulirlo, dargli da mangiare. Aveva il seno gonfio fin quasi a scoppiare, e i capezzoli le facevano un male assurdo ogni volta che Mordraud si attaccava per succhiare.

Mordraud. Quel nome era un coltello ficcato in mezzo alla spina dorsale. Si era trovata incastrata nelle sue menzogne. Non aveva potuto neppure fiatare quando Adraman aveva scelto di chiamare così suo figlio. Avrebbe potuto capire tutto.

Se Adraman avesse saputo la verità, l’avrebbe certamente abbandonata. Ripudiata. Cacciata di casa. Forse anche portata davanti alla giustizia di Eldain, che da bravo amico di famiglia, l’avrebbe di certo condannata alla pena peggiore possibile. L’esilio nell’infamia. E se esisteva una cosa che la terrorizzava fino a farle perdere il sonno, era proprio la paura di restare da sola.

La tranquillità che faticosamente era riuscita a rattoppare nei lunghi mesi di gravidanza, quel senso di pace che aveva raggiunto accettando una volta per tutte Adraman come marito e uomo della sua vita, era svanito pochi istanti dopo il parto. Era ritornata ai momenti peggiori, quando rifiutava tutto e tutti, se stessa compresa.

Era in trappola. Le mancava il respiro, come se stesse lentamente affondando giorno dopo giorno in un lago di melassa. Ogni volta che contemplava gli occhi verdi di suo figlio, vedeva il vero padre. Quando Adraman lo prendeva in braccio, lo coccolava, lo riempiva di attenzioni, al suo posto immaginava Mordraud. Che, senza ombra di dubbio, sarebbe stato un padre assai peggiore di Adraman. Ma almeno, sarebbe stato quello vero.

Mordraud era troppo giovane, aggressivo, pieno di rabbia per cose che lei non sapeva, e non voleva sapere. Era come lei, sotto tanti aspetti. Una pessima moglie. Una pessima madre.

“Allora perché vorrei che ci fosse lui, qui al mio fianco?” pensò amaramente. Adraman dormiva ancora, indisturbato da tutte le sue smanie. Si svegliava soltanto quando sentiva anche il minimo vagito di suo figlio. Era naturalmente pronto a essere un padre, sebbene fosse sterile. Gli Dei erano stati fin troppo crudeli con lui.

Deanna si alzò, prese una vestaglia dal baule e si sedette allo specchio. Dalle ante di legno socchiuse della finestra filtrava una debole luna azzurra. Eld era ammantata di silenzio.

«Deanna, sei inguardabile… un vero schifo» mormorò con un filo di voce al suo viso riflesso sulla lastra d’argento. Complice la luce fredda della notte, era pallida come uno straccio, la pelle sembrava di cera, gli occhi infossati in un pozzo di occhiaie gonfie. Anche i capelli neri, il suo vanto, sembravano stoppa intrisa nell’inchiostro. Era ingrassata e si sentiva flaccida. Stizzita, prese una matita di terra scura e iniziò a truccarsi. Prima solo un velo, ma non ottenne altro che di vedersi più brutta. Le sue mani si muovevano nervosamente, a piccoli scatti. Aggiunse colore su colore, sfumature sotto gli occhi, sulle guance, spalmò un paio di creme diverse, ma sembrava solo diventare più sciatta e deforme.

Prese la spazzola e con colpi secchi e violenti tentò di districare l’ammasso di capelli arruffati. A ogni strappo, una puntura di dolore le solleticava la testa. Una sensazione piacevole. Fissava il suo simulacro intrappolato nello specchio, e godeva a fargli male. Era la maschera cattiva che i saltimbanchi usavano negli spettacoli delle feste di paese. La strega. Lo spettro della vergine. Sentì la pancia gorgogliare in modo orrendo, come se qualcos’altro stesse crescendo dentro di lei. Oppure era solo il vuoto che suo figlio le aveva lasciato fra le budella. Un buco nel suo corpo. Una voragine che non si sarebbe mai riempita di carne nuova.

Mordraud si agitò nella culla, e gemette infastidito dal rumore ruvido della spazzola. Deanna si alzò e lo raggiunse a passi felpati. Non voleva che Adraman si svegliasse. Non doveva vederla in quello stato. Gli rimboccò le coperte, ma lui continuava a mugolare. Lo accarezzò, lo prese in braccio, fece due passi, ma Mordraud continuava a lamentarsi debolmente. Allora lo depose nella culla, con l’ansia che le mordeva il cranio. Il vagito era un urlo che le trapanava le orecchie.

«Shh… sta’ buono… shh» mormorò infastidita «sta’ zitto…»

«Mordraud ha fame?»

Deanna si voltò di scatto. Adraman si stava alzando dal letto sbadigliando. Poi guardò il bambino. Aveva smesso di frignare, finalmente.

Gli aveva tappato la bocca con un dito. Mordraud non si muoveva più. Le sue manine erano rigide, serrate sul suo palmo in un’ultima lotta disperata.

«Tutto a posto? Stai bene amore?»

Deanna tirò via la mano e fece un passo indietro. Il sudore le stava facendo colare il trucco sugli occhi. Guardò prima la culla, poi il marito. Adraman non l’aveva vista, o almeno, così sembrava.

«Torna a letto, sembri distrutta…» disse lui mentre prendeva in braccio Mordraud. Deanna sentì il suo vagito, lo vide muoversi, come se non fosse successo niente.

Ma era davvero successo qualcosa? Oppure stava solo sognando? Deanna incespicò in silenzio fino al letto, si sdraiò e cacciò la testa sotto il cuscino. Voleva piangere, ma non ci riusciva. Voleva sentirsi in colpa, ma non riusciva nemmeno in quello. Adraman stava giocando con Mordraud, poteva sentirli ridere insieme, fin sotto le coperte dove si era nascosta. Tremava di vergogna come un’appestata.

Quando aveva visto suo figlio con gli occhietti chiusi, fermo e in silenzio, non aveva avuto paura. Tutt’altro.

Non le era affatto dispiaciuto.

 

***

 

«DOVE SI È CACCIATO?!»

Asaeld era un fiume in piena lanciato nei corridoi del grande palazzo imperiale. Uno stuolo di Lance tentava di star dietro la sua falcata lunga e rabbiosa. L’eco della sua voce risuonava sulle pareti tappezzate di quadri e arazzi, vibrava sulle statue in marmo bianco che celebravano gli eroi della famiglia Loren, e si perdeva nel dedalo di stucchi policromi che incrostavano i soffitti a botte delle sale vuote.

«FATE QUALCOSA, INVECE DI STARMI IN MEZZO AI PIEDI!» abbaiò furiosamente agli uomini del suo seguito. Nessuno però sapeva cosa fare. Dunwich aveva lasciato Cambria da alcuni mesi, in missione al fronte centrale per ordine di Loralon. Asaeld aveva tentato di opporsi, ma senza successo. In realtà avrebbe potuto convincerlo facilmente a cambiare idea, ma non aveva voluto tirare troppo la corda. La faccenda di Parro, il cancelliere, era stato un colpo di mano non da poco. Aveva preferito lasciare correre, per poi muoversi nella solita maniera. Le missive che aveva spedito al fronte, però, non avevano ricevuto risposta. Era la prima volta che accadeva una cosa simile.

Un affronto inaudito alla sua autorità.

«Signore, abbiamo chiesto a tutti i soldati di ritorno dal Terrapieno… Dunwich è rimasto laggiù e non accenna a ritornare…»

«Questo lo so, IDIOTA! Voglio che troviate quel demente a cui ho affidato i miei messaggi, se li ha persi o non è riuscito a recapitarli, portatelo da me! Non faccio molta fatica a ritagliargli addosso una bella accusa, per tenerlo in gabbia qualche decennio!»

Il momento di agire era finalmente arrivato. Non era proprio l’incastro perfetto che Asaeld sognava da anni, ma ci si poteva accontentare. Le truppe personali della famiglia Rinn si erano mosse a Nord e Sud del fronte, rivendicando terre sotto il controllo di Cambria. La guerra aveva cambiato volto, da espansione coloniale a strenua difesa dei diritti del popolo dell’impero. L’inverno di quell’anno infradiciato di pioggia era ormai agli sgoccioli. La primavera stava arrivando, già carica di sconfitte al fronte. L’indignazione della gente era ai massimi livelli di sempre, almeno stando alle voci che Asaeld riceveva dalla miriade di informatori che aveva sparso ovunque. Vocine costose, che intaccavano il suo borsello ogni mese da anni. Ma il tempo dell’attesa silenziosa era finito. L’alleanza dei ribelli gli aveva fornito il prezioso pretesto su un piatto d’argento.

L’unico neo del suo piano era Dunwich. La sua popolarità fra le truppe era alle stelle, sia per la velocità della sua ascesa, sia per gli eventi al profumo di miracolo a cui era sopravvissuto. La battaglia dei Fuochi, gli attentati, il veleno, e ora il comando del fronte centrale. Gli uomini lo adoravano, e si fidavano ciecamente di lui. Asaeld ovviamente aveva fatto di tutto perché le cose andassero in quel modo. Aveva osteggiato pubblicamente Lungo Inverno, ma aveva collaborato con Nector e Raelin dell’Arcana per svilupparlo in fretta. Aveva goduto quando il piano era fallito, e aveva colto l’occasione per attaccare politicamente Loralon. Aveva nascosto anche il fatto che fosse stato un gruppo di Lance deviate a uccidere il coro. Aveva pilotato gli attentati dei lealisti alla famiglia Loren, trasformandoli in attacchi scellerati, portati avanti da una frangia violenta di pericolosi nemici dell’impero. Quelli più scomodi, come la fine di Lungo Inverno, li aveva insabbiati. E aveva fatto credere che Parro, il consigliere di Loralon, facesse parte dei cospiratori della patria.

Tutto, pur di mantenere il controllo. Della gloria, a lui, non importava assolutamente niente. Dunwich era perfetto nel ruolo di testa di ponte, come lui lo era nel suo. Il problema era un altro.

Gli serviva in città. A tutti i costi, e in fretta. Al suo piano mancava ancora l’ultima spintarella, l’abbellimento finale di un canto eseguito alla perfezione, con pazienza e metodo assoluti. Ma Dunwich non era a Cambria, proprio nel momento in cui aveva iniziato a muovere tutte le altre voci del coro.

Il dissenso e la rabbia andavano sospinte, e non poteva esistere un momento migliore che dopo la sconfitta bruciante che i Rinn avevano inferto al dominio di Loralon. Le Lance erano state allertate. I capitani dell’esercito erano, inconsapevolmente, già dalla loro parte.

Mancava solo Dunwich.

«LORALON!» urlò Asaeld spalancando la grande porta d’ottone della sala principale delle udienze. L’Imperatore sedeva sul trono, rannicchiato con le gambe sul cuscino e scomposto sul grosso bracciolo di legno intarsiato. Intorno a lui, la guardia imperiale aspettava in silenzio e sull’attenti. Dieci fra le migliori Lance dell’esercito, le più giovani, le più forti.

Le aveva scelte tutte Asaeld.

Ognuna aveva una riga precisa sul suo libro paga.

«Cosa succede, comandante? Come mai tutta questa irruenza?!» chiese Loralon con voce stanca. Le continue notizie negative lo avevano consumato fino a trasformarlo nella patetica ombra di se stesso. Magro e ossuto come un pettirosso, con gli occhi sempre mezzi chiusi e infossati nel cranio, era l’emblema vivente del fallimento. Il popolo, l’esercito intero lo aveva ormai capito. I comizi, le parate erano finite da un pezzo. La fame, le piogge, i campi marciti, e ora la pestilenza e le sconfitte sul campo di battaglia, avevano spento le luci sul grande spettacolo dell’impero, nato e morto in uno schizzo insignificante della storia. Alla fine, i ribelli avevano vinto, pensò Asaeld sorridendo. Non nel modo in cui speravano, ma di certo avevano ottenuto più di ogni rosea aspettativa.

«Sono qui per avere delle spiegazioni!»

«In merito a cosa, di grazia?!» squittì Loralon facendosi piccolo sul suo trono sontuoso.

«Avete dato voi l’ordine a Dunwich di non ritornare a Cambria? Ho richiesto la sua presenza in città con estrema urgenza!»

«Sì, sono stato io.»

«Benissimo, allora… fatelo tornare IMMEDIATAMENTE!»

Asaeld fece un passo avanti, fissandolo con l’autorità di un Dio.

«No.»

Asaeld sgranò gli occhi stupito. Non era la risposta che si aspettava.

«Forse non avete colto l’urgenza… la famiglia Rinn ci sta attaccando… dobbiamo organizzare, pianificare…»

«So cosa devi pianificare, Asaeld.»

Loralon parlò con voce molto ferma, in forte contrasto con la sua espressione spaventata. Asaeld restò un momento in silenzio, confuso dal suo atteggiamento.

«Ti stupisci, comandante? Pensavi davvero che fossi tanto stupido?»

«Non capisco cosa volete dire…»

L’Imperatore scattò in avanti, con le dita artigliate sui braccioli del trono. Non sembrava più così tanto affranto, anzi. Sembrava inferocito, come mai nessuno l’aveva visto prima.

«SMETTILA CON QUESTE FOTTUTE MENZOGNE, ASAELD!»

Le guardie imperiali non si mossero di un soffio, simili a statue di pietra. Le Lance alle spalle di Asaeld, invece, arretrarono di un passo preoccupate dalla reazione dell’Imperatore.

«Di quali menzogne state parlando, signore?» esclamò lui con un mezzo sorriso teso.

Loralon sfilò da una tasca una pergamena marchiata con il sigillo della famiglia Loren, e iniziò a leggere con voce stridula. «Io Loralon, erede della famiglia reale Loren, richiedo l’immediato dispiegamento di truppe nella valle di Essar, con l’ordine di sedare ogni focolaio di rivolta in corso per l’accaparramento del grano. C’È LA MIA FIRMA SOPRA!»

«Non riesco proprio a capire di cosa mi stiate accusando…» disse Asaeld allargando le braccia.

«I soldati hanno soffocato nel sangue quelle rivolte! Decine di contadini uccisi per un tozzo di pane! E ancora: Io Loralon, erede della famiglia reale Loren, richiedo lo spostamento di tre reparti di fanteria dal fronte centrale al campo ‘Ansa dell’Hann’. Con massima urgenza. Ovviamente, firmato ancora Loralon! Indovina un po’: due giorni dopo lo spostamento, i nostri uomini attaccano il Terrapieno. La fanteria è quasi dimezzata: un fallimento totale!»

«Vi state lamentando con me dei vostri ordini, signore?!» gridò Asaeld costernato e rabbioso.

«Ti sei fatto prendere la mano, eh?! Non ti bastava avere il controllo dell’esercito: volevi anche il dominio su tutta Cambria! E come fare, senza passare per un traditore?! Eh, Asaeld? COME FARE?!»

Loralon era paonazzo e sputacchiava a ogni parola, ma non era fuori di sé come al solito. Asaeld l’aveva imbonito mille e più volte quando l’aveva trovato in quelle condizioni. Poteva ancora farcela.

«Semplice da dire, terribilmente difficile da fare» continuò Loralon. «Trasformare il legittimo Imperatore, nella figura più odiata del continente. Spronare una rivolta. Creare un consenso incondizionato a un rovesciamento del trono. Prendere un BURATTINO, e metterlo al mio posto! Trasformare un tradimento in una necessaria per quanto violenta, oh per gli Dei, presa di posizione dei veri custodi dell’impero, le LANCE, per fermare lo scempio che IO, LORALON, avrei commesso! GUAI a farmi vincere la guerra, vero Asaeld?! Il popolo avrebbe gradito troppo! IO DEVO ESSERE UN INCOMPETENTE, UN IDIOTA, VERO ASAELD?!»

Dal buio in fondo alla sala si fece avanti un uomo, con le braccia colme di plichi, missive, pergamene arrotolate. Zoppicava, e aveva la faccia devastata da cicatrici e ossa rotte mal curate. Era Parro, il vecchio cancelliere. Un sorriso maldestro e deforme gli illuminava il volto massacrato.

«Devo dire che l’uomo che ti falsificava i documenti è stato proprio bravo, un artista nel suo campo. Non me ne sarei mai accorto, nessuno se ne sarebbe mai accorto, se tu non avessi esagerato. Troppa smania di potere, caro Asaeld! Conosco Parro da decenni, sapevo che non era il tipo portato a complottare. Inoltre, sa fare perfettamente il suo mestiere. Questi…» ringhiò l’Imperatore strappando di mano al cancelliere un pugno di fogli «questi sono tutti documenti che precedono e seguono quelli che tu hai portato a sorpresa come prove della sua colpevolezza. Li ho studiati tutti, analizzati fino al minimo dettaglio, e stavo quasi per lasciar perdere. Un mio amico, il cancelliere della mia famiglia, era veramente un traditore! Poi ho notato una cosa… guarda qui.»

Loralon allungò due pergamene ad Asaeld, che però non le prese.

«GUARDALE!» urlò furiosamente «GUARDA, ADESSO!»

«Sono due comunicazioni dal fronte, firmate da me e dal cancelliere» mormorò cupamente Asaeld mentre scorreva le pergamene «… in una, comunico la richiesta di cavalli per il fronte…»

«Quella ricordo di averla ricevuta, e approvata» lo interruppe Loralon «e l’altra?!»

«In questa… descrivo la condizione dei campi e le devastazioni delle piogge sui raccolti…»

«… e questa è una delle famose lettere che il cancelliere avrebbe nascosto, secondo la tua accusa. C’è una data precisa in fondo, sotto la firma di Parro. Peccato che proprio quel giorno, lui fosse nella sala del Silenzio al tempio dell’Ala Bianca, a pregare per suo fratello, MORTO LA NOTTE PRIMA! ED ERA CON ME! Parrican era un mio amico d’infanzia, proprio come Parro! Questa lettera non può averla ricevuta e firmata lui!»

«Può… può averla firmata dopo la veglia… o il giorno dopo…» provò a spiegare Asaeld. «Non scherziamo, è soltanto una data… quando mai coincide con la vera firma, come minimo il cancelliere si era dimenticato di apporla tempestivamente… è venuto alla cerimonia di sepoltura, qualcun altro ha ritirato la missiva, lui si è sbagliato a inserire la data. Può succedere. Comunque, quella lettera è stata firmata da lui. Si vede. È una prova incontrovertibile

Loralon scoppiò a ridere sguaiatamente.

«Continua a mentire, forza! Non riesci più a smettere, non è vero?! Non ti ricordi la prassi? Se il cancelliere non può ricevere una missiva, allora deve essere consegnata alla guardia di servizio agli ingressi della corte, e dev’essere compilato l’apposito modulo. Che non esiste da nessuna parte! Ho interrogato tutti. Ho fatto saltare denti a tutte le guardie del palazzo per scoprire dove fosse finito eventualmente il modulo di ricezione, ma non esiste, perché nessuno ha mai davvero consegnato questa lettera per essere messa in firma del cancelliere. NON PUÒ AVERLA FIRMATA LUI! SEI STATO TU!»

«E quindi, soltanto perché qualcosa non torna in questi documenti, io dovrei essere il fulcro di una macchinazione perversa ai danni dell’impero?! Loralon, mi stai accusando di ALTO TRADIMENTO?!» urlò Asaeld inferocito. «Dimostrami le tue accuse! Altrimenti, nessuno ti crederà mai! L’esercito è con me, capisci?! CON ME!»

«Non ho bisogno di prove! Io sono sopra ai giudici, alla legge e a tutti voi poveri mentecatti! Io sono l’Imperatore! Sei tu che non capisci, Asaeld! Io faccio di te quello che voglio!»

Asaeld aveva solo due possibilità, e poco tempo per pensare. Le valutò entrambe, e poi prese una decisione.

Dichiararsi innocente. Andarsene indignato, costringere Loralon ad accusarlo pubblicamente, e rovinarlo con le sue stesse accuse. Senza la sicurezza assoluta di riuscirci.

Oppure, farla finita senza più indugi, lì e subito, con quel buffone e la sua manica di incompetenti. Prendere il controllo con la forza. Passare dagli intrighi all’azione. Con la sicurezza di farcela, dato che tutti in quella sala erano fedeli a lui, al suo denaro e alla causa delle Lance.

«Loralon, vista la tua evidente incapacità di amministrare con giustizia e lungimiranza Cambria e l’impero…» Asaeld avanzò lentamente, un passo dopo l’altro «ti ORDINO di deporre la tua carica, ritirarti nei tuoi alloggi, e consegnare la città…» giunto ai piedi del trono, Asaeld sguainò la spada e l’alzò sopra la testa, come un giudice di fronte al condannato «di consegnarla nelle mani del glorioso e nobile ordine delle Lance! Ci hai sfruttati come bestie, ci hai mandato al massacro, hai costruito un impero fallimentare con il nostro sangue! UOMINI! ARRESTATE IL FIGLIO CADUTO DI LOREN!»

Era arrivato il suo momento, e Asaeld si gustò ogni parola, come liquore pregiato sulle labbra. Il discorso era un po’ improvvisato, ma lo trovò comunque efficace. Come prima cosa, lo avrebbe fatto scolpire sul trono, subito dopo aver piazzato Dunwich nel ruolo che aveva preparato per lui.

Era fatta. Prima del previsto, ma era fatta.

«CHE ASPETTATE, UOMINI?! ESEGUITE GLI ORDINI!»

Fra le otto Lance alle sue spalle, solo tre lo raggiunsero davanti all’Imperatore, che intanto fissava tutti con un sorriso tirato e storto. Fra le dieci guardie personali di Loralon, quattro si fecero avanti, ma le altre rimasero ferme. «Perché non vi date una mossa, fottuti cacasotto?!» berciò Asaeld.

L’Imperatore si alzò lentamente in piedi, picchiettando fastidiosamente il petto del comandante con un dito.

«Confidavo che ti saresti fatto prendere la mano. Grazie, Asaeld. Hai fatto proprio la scelta giusta» sussurrò.

«Procedete.»

Le guardie rimaste ferme sguainarono le spade, afferrarono alle spalle i loro compagni che erano avanzati in appoggio ad Asaeld, e li sgozzarono sotto la mentoniera con un gesto secco della lama. Le altre Lance si guardarono terrorizzate intorno e si voltarono verso i compagni che erano rimasti indietro. Troppo tardi. Fu una mattanza improvvisata e fulminea. Le spade cozzarono solo per qualche istante, prima di lasciare il posto a un silenzio pesante come una balla di lana fradicia.

Asaeld scese dai gradini del trono intonando a squarciagola un canto di difesa. Tutto era accaduto troppo in fretta, ma non voleva darsi per vinto. Poteva ancora fuggire, gli uomini erano ancora con lui. “Magari non tutti, la maggior parte…” pensò freneticamente. Si voltò per andarsene. Cantò in un fazzoletto di note, da vero esperto. Alzò le mani verso le Lance che stavano avanzando a spada tratta verso di lui, lasciandosi l’Imperatore alle spalle. Erano loro il muro da superare per poter scappare.

Il suo canto era quasi giunto all’apice, quando la sua voce si spense strozzata da un dolore improvviso.

Asaeld si toccò la schiena. Aveva le dita sporche di sangue.

Il suo sangue.

«Non ti ammazzo subito, solo perché voglio conoscere uno per uno tutti i tuoi compari…» gli bisbigliò Loralon all’orecchio. Fra le mani stringeva uno stiletto incrostato di gemme. Un gingillo da uniforme, buono solo da mostrare in parata. Ma per le sue budella bastava e avanzava, nude fra le giunture della sua inutile armatura cerimoniale.

«E puoi stare tranquillo… il tuo giocattolino preferito per ora non lo tocco… hai spinto tutti a idolatrarlo, lo hai reso intoccabile… ma immaginati cosa penserà quando scoprirà chi sei veramente… serpe schifosa… dopo essere stato il tuo, diventerà il mio cagnolino!»

«Lui non ti crederà MAI!» grugnì Asaeld. Provò a voltarsi, ma Loralon ruotò la lama con estrema soddisfazione. Il dolore brutale lo tenne inchiodato fra le grinfie dell’Imperatore.

«Oh sì che mi crederà. Quando i tuoi servi più fedeli saranno stati tutti ammazzati, e nessuno potrà più difenderti, gli spiegherò tutto. È un ragazzo sveglio, molto sveglio. Avresti dovuto sceglierlo più incapace, Asaeld. Dunwich capirà al volo da che parte gli conviene stare. E l’esercito tornerà in mano mia!»

«TI STRAPPO LA TESTA!» urlò Asaeld con furia omicida «TI AMMAZZO CON LE MIE MANI, LORALON!»

«Ne dubito» rispose trionfante l’Imperatore. «Uomini! Portatelo nelle segrete! Dategli una sistemata, prima dell’arrivo degli aguzzini! Ah, mi raccomando Parro…» Loralon sfilò lo stiletto e lasciò Asaeld nelle mani delle Lance. Era bastato così poco per convincerli a parlare, e a passare dalla sua parte. Un posto di prestigio di qua, un pugno d’oro di la… l’onore delle Lance valeva meno della merda, pensò Loralon gongolando.

«Sì signore?» rispose il cancelliere.

«Prepara un bel po’ di lettere di richiamo. Voglio tutti quelli che usciranno dalla bocca di Asaeld qui in città, con la massima urgenza. E controlla che non parta nulla e nessuno verso il fronte. Dunwich non deve scoprire nulla.»

«Cosa facciamo con i ribelli? Senza Asaeld non abbiamo più una guida per l’esercito…»

«Eldain ora ha ben altri problemi. Vedrai che la pestilenza gli spegnerà del tutto i bollenti spiriti» rispose Loralon.

«E se Dunwich chiedesse nuovi ordini? Cosa dobbiamo dirgli?» continuò Parro.

«Prepara un bel messaggio firmato da Asaeld in persona. Il suo comandante non lo vuole in città, per nessun motivo.»

«Ottima idea, signore» disse il cancelliere inchinandosi.

«Lo so, Parro» rispose Loralon ridendo di gusto.

 

***

 

Quello che dovevo fare, l’ho fatto.

Anche questo inverno è passato. L’ennesimo della mia vita. Dopo Lungo Inverno, la peggiore delle nevicate mi è sembrata finta, come disegnata su un quadro. Niente sarà mai aberrante quanto Lungo Inverno. La mia gente muore ogni giorno, di fame, di stenti, d’acciaio. Ma quelli che sopravvivranno, avranno visto il confine ultimo dell’orrore. L’avranno annusato, toccato, provato sulla loro pelle. Hanno sentito la morte addosso per mesi, la stessa morte che prova il condannato sulla forca, in attesa che venga tirata la fatidica leva.

La mia gente è dura come il legno vecchio. Non si piega, e anche se si spezza, resta sempre un ramo buono spinto verso il cielo. Io sono uno di loro. Sono il ramo che si spezza, dopo aver protetto tutti gli altri dal peso della neve.

Dalla finestra più alta del mio castello, riesco a vedere i segni della primavera ovunque. Eld sembra pulsare di nuova vita, le vie si animano di carretti e di donne indaffarate con le coperte pesanti da lavare al fiume. I bambini giocano fino a tardi sul selciato della piazza. Il mercato è un letto di colori cangianti. Anche se tanti sono morti, Eld non è caduta. Anche se molte case sono abbandonate, diroccate, sventrate, altre si sono riempite di nuova linfa. Cambria può assediarci anche per sempre, se ci riesce. Le alleanze vanno e vengono, per una che si spegne, da qualche parte un’altra aspetta solo di essere stretta. Ma è il popolo che deve resistere, lui da solo. E il mio popolo può resistere ancora. Con o senza di me.

Adraman farà un ottimo lavoro, ne sono certo. Ora ha un obiettivo più grande dell’onore di soldato. Ha una famiglia da difendere. Un futuro di pace che deve essere costruito, non per lui, che ormai ne ha dimenticato il significato. Per Deanna, per suo figlio. Avrei tanto voluto lasciarlo libero. Fargli vivere gli ultimi anni di vita come padre e marito, e non come guerriero. Ma non ho nessun altro di cui fidarmi. Lui è l’anima di Eld, come lo sono stato io. E al suo fianco ha Mordraud, come io ho avuto lui.

Hai scelto di chiudere gli occhi di fronte alla realtà delle cose, amico mio, e ti capisco. Forse l’avrei fatto anch’io. Alla nostra età, tutto diventa sfumato. Eventi che da giovani fanno ribollire il cuore di rabbia, con il passare degli anni perdono la loro travolgente carica, e invitano a riflettere.

Avresti mai avuto un erede se non fosse stato per lui, Adraman? Penso di no, e so che anche tu te lo sei chiesto. Non me l’hai voluto dire, ma penso di conoscerti abbastanza bene. Era quello che sognavi, e sebbene molti criticherebbero la tua scelta, hai accettato il modo in cui hai ottenuto tuo figlio. Io non ti biasimo per questo.

Spero solo che tu sia felice.

Il petto mi fa male. Sono anni che sento il cuore sgretolarsi lentamente sotto il peso di tutte le decisioni che ho preso. Tanta brava gente è morta per colpa delle mie scelte. Persone che avrebbero potuto vivere ancora a lungo, come quei ragazzi laggiù che tentano di lavorare la terra a ridosso delle mura per trasformarla in un orto. Sono ancora giovani per maneggiare una spada, e spero che non arriverà mai il giorno in cui dovranno farlo. A volte vorrei non aver resistito a Cambria. Altre, ne vado fiero. In realtà non ho mai avuto troppo tempo da perdere in inutili recriminazioni. Dovevo pensare alla mia terra, alla mia gente. Non a me stesso, ai miei piagnistei.

Ma ora, penso di essermelo meritato, un po’ di tempo solo per me. Per commiserarmi. Per convincermi di aver vissuto una vita giusta.

Non avrei mai pensato di arrivare fino alla primavera, non questa volta. Le gambe sembrano steli di vetro, e il petto è come schiacciato sotto un’incudine. Faccio fatica a respirare. Almeno, da quassù posso vedere di nuovo il verde dei prati. Era il tuo colore preferito, non è vero Rania? Il verde dei primi prati… spero che Elder sia con te, da qualche parte, anche se non credo che vi raggiungerò. Avrei tanto voluto vederlo adulto, seduto sul mio trono, ad amministrare le terre di suo padre e di suo nonno.

I colori del mondo sembrano molto più vividi, ora. Pensavo che morire facesse più male, e invece… non sento niente.

Quello che dovevo fare, l’ho fatto. Peccato solo di non aver potuto fare di più.

Addio, amico mio.

Mordraud, Libro Primo
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