V

 

 

 

 

 

 

 

«Caccia agli scoiattoli?»

«Sì!»

Mordraud prese un lungo bacchetto dalla legnaia e corse nel bosco insieme a Gwern. Suo fratello gli zampettava dietro mentre lui si intrufolava fra la vegetazione folta. Alberi bassi e tozzi, macchie di arbusti spinosi, cumuli d’edera che nascondevano ceppi coperti di larghi funghi piatti. Mordraud gli stava spiegando tutto ciò che Eglade gli aveva passato durante le loro passeggiate, quando lui non era ancora nato. Quando si annoiava, smetteva di parlare di piante e gli raccontava una storia spensierata degli Aelian. Eglade gliene aveva insegnate parecchie, nelle lunghe sere da soli in casa.

Non avevano amici. Qualche volta Mordraud si era spinto fino al villaggio, ma da quando sua madre si era ammalata non si azzardava più ad allontanarsi da casa. E non lo faceva mai quando era insieme a Gwern. Non gli piacevano gli sguardi della gente. Gli era capitato più volte di sentirsi osservato. Di solito erano le donne intorno al pozzo che lo indicavano parlottando fitto. In qualche occasione, Mordraud aveva notato un tizio dalla faccia anonima seduto fuori da una casa diroccata. Stava lì a fissarlo finché non se ne andava. Era un po’ che non lo vedeva in giro, pensò. Probabilmente se n’era andato dal paese. Di quell’uomo, l’avevano colpito gli occhi. Un colore indefinibile. Come se riflettessero la luce in modo vagamente innaturale.

Ma non era lui il motivo per cui non amava il villaggio. Erano i bambini che ci abitavano. Non riusciva a legare con loro. Non ci aveva neppure provato, perché quel branco di marmocchi impolverati l’avevano istantaneamente preso di mira.

Lo avevano chiamato figlio della strega.

«Ecco che arriva, il figlio della strega! Sbuca dalla foresta come un cinghiale e scappa via! Si pulisce il culo con le mani e ti porta la febbre nera in casa! Il figlio della strega!»

Erano tutti più grandi di lui, più grossi e giravano sempre in gruppo. Lo insultavano urlando mezze filastrocche incastrate a pezzi di insulti in grottesche scene senza senso. Mordraud aveva scoperto di non essere un ragazzo particolarmente paziente. Un giorno, stanco di sentirsi prendere in giro ogni volta che metteva piede in paese, era saltato addosso a quello che sembrava il loro capo. L’aveva caricato a testa bassa. Per fortuna, Gwern quel giorno era a casa. Mordraud era scappato via malconcio. In tasca, un premio di lividi e graffi. Ma chi aveva pronunciato le parole figlio della strega poteva solo sperare in una buona dentiera su misura.

Gli aveva spezzato i denti frontali con un paio di pugni duri e ben assestati.

«Ecco, vedi che in quel tronco c’è un buco? Lassù, sopra il secondo ramo…»

«Dove? Non lo vedo!»

Mordraud si avvicinò mimando di fare in silenzio. Gwern soffocò una risatina divertita. Lui schiaffeggiò il tronco. Uno scoiattolo saltò fuori da una fenditura nella corteccia. Suo fratello saltellava agitando il bacchetto, ridendo e cantando stonato il ritornello di una canzone da taverna che suo padre fischiettava di tanto in tanto. Corsero insieme seguendo le evoluzioni del batuffolo di pelo bruno fra i rami degli alberi.

«Ancora, dai!»

Mordraud fissò il cielo incastrato fra le fronde del bosco. Notò che il sole era basso e pronto a sparire oltre l’orizzonte. Era tardi, doveva ancora preparare la cena.

«No, adesso torniamo a casa. La mamma deve mangiare qualcosa di caldo.»

«Solo un altro, dai dai dai…»

«No!»

Gwern si irrigidì e perse di colpo il sorriso. Mordraud si accorse tardi di essere stato troppo brusco. Prima che iniziasse a piagnucolare, lo afferrò per i fianchi e sbuffando come un torello lo alzò, e lo fece sedere sulle sue spalle. Ritornarono indietro insieme. Gwern rideva e picchiettava la testa del fratello con le piccole mani bianche. Esili, molto diverse da quelle di Mordraud. Era di carnagione leggermente più chiara, pallida e vagamente malsana. I suoi capelli erano di un castano simile alla stoppa vecchia. I riflessi ricordavano quelli della madre. Vispi occhietti grigi venati d’azzurro. Era, fra i fratelli, quello che più ricordava Eglade nella femminilità dei lineamenti, sebbene fossero ancora molto acerbi.

Nello spiazzo di terra battuta davanti a casa aspettava pazientemente una carrozza agganciata a due cavalli scuri. Bestie poderose e impazienti. Un servitore in livrea grigia era impegnato a strigliar loro il pelo. Quando vide i due bambini sbucare dalla foresta si portò un braccio al ventre e si produsse in un rigido inchino. Mordraud sapeva già di chi fosse quella bella carrozza. Gwern si agitò sulle sue spalle eccitato da una tanto inattesa sorpresa.

«Dunwich!» disse il bimbo scalciando di gioia. Aveva già tre anni, ma come era normale nella loro famiglia, ne dimostrava meno. Aveva imparato a camminare bene da poco, mentre sembrava che fosse nato con il dono della parola. Eglade non aveva fatto la minima fatica a insegnargli come parlare le lingue dei due popoli, era stato persino più facile che con il fratello maggiore.

«Già. Forse è lui.»

«Non sei contento? È tornato a casa, e magari sta un po’ con noi!»

Mordraud non rispose. Puntò dritto verso la porta socchiusa dell’ingresso. Poggiò a terra Gwern, chiedendogli, con un tono che non ammetteva repliche, di andare dietro nell’orto a raccogliere qualche carota e un paio di patate. Quando lo vide andarsene, solo allora entrò in casa.

Dunwich stava armeggiando con un pentolino d’acqua calda davanti al camino acceso. Eglade era seduta su una poltroncina di midollo intrecciato. La sua coperta preferita sulle gambe. Fissava il suo primo figlio persa d’ammirazione. Stavano parlando di lui, Gwern e papà. Mordraud restò ad ascoltare in silenzio fuori dalla stanza, nascosto dietro la porta aperta.

«Da quanto tempo sei malata? Bisogna fare qualcosa.»

«Oh, non esagerare! Non sono malata, mi mancano solo un po’ le forze… da quando è nato il piccolo Gwern mi sento così affaticata…»

«Ma sono passati tre anni!»

La voce di Dunwich era carica di dolorosa apprensione. Mordraud sentì montargli nel petto quella familiare rabbia che provava quando pensava a lui e a Varno.

«Ma lo sai che noi Aelian siamo così… lenti…» rispose Eglade ridacchiando fra alcuni colpi di tosse.

«Anche Gwern non sta molto bene, vero? Me lo hai scritto nell’ultima lettera.»

«Sì, purtroppo è un po’ fragile, come me. Ma è ancora piccolo, magari con il tempo si rafforzerà come i suoi fratelli…» rispose lei. Mordraud passò dal suo viso a quello di Dunwich. Si somigliavano in tanti piccoli dettagli. Lineamenti eleganti e aggraziati, movenze leggere, fisico asciutto. Suo fratello era longilineo ma definito. Le spalle già segnate da un esercizio fisico mirato. Gli occhi di Dunwich erano soltanto un po’ più chiari di quelli della madre, ma altrettanto brillanti.

«Mordraud invece come sta?» chiese lui, sempre con lo stesso tono preoccupato. Aveva un buon motivo per esserlo. L’ultima volta che si erano incontrati, la serata non era andata proprio bene. Mordraud era ancora piccolo, ma era stato subito chiaro che l’affetto che un tempo provava per lui era del tutto svanito. Non si erano neppure salutati. Da allora non l’aveva più visto. Erano già passati tre anni.

Dunwich era venuto a trovare Eglade quando aveva saputo che era nato Gwern. Si era presentato con una bella carrozza e un cesto pieno di regali. Salumi, vino, formaggi. Una saccoccia di scudi d’oro.

Quel giorno, ovviamente, Varno non era a casa.

Mordraud, frustrato dal comportamento assente del padre, e preoccupato per la madre che sembrava non riprendersi più dal parto, aveva iniziato a incolpare Dunwich di tutto. Era sempre stato lui il figlio prediletto di Varno. Era stato lui ad andarsene a Cambria per studiare. Ed era stato lui a non tornare più, se non quando gli veniva voglia di mostrare a tutti quanto fosse un giovane di successo.

Ma soprattutto, non era mai stato presente quando Varno aveva iniziato a comportarsi in modo strano.

«Ecco, sta bene…» rispose Eglade con poca convinzione. «Mh… è un po’ chiuso, parla poco e non si lamenta mai, ma è così sensibile… mi aiuta in casa, sai, da quando papà ha accettato l’incarico a Nord.»

«Nel fronte Nord» disse Dunwich poggiandole una mano sulla gamba. «Laggiù si combatte poco, anche se il clima è duro e il cibo a volte scarseggia. È un fronte periferico, perfetto per la sua età. Non devi preoccuparti troppo per lui, madre. Varno è un soldato esperto.»

«Sei così formale quando mi parli…» mugolò Eglade. «Mi ricordo come se fosse ieri quando eri qui a casa, con me, e mi facevi sempre un mucchio di domande… non sapevo come farti stare tranquillo.»

«È passato molto tempo, mamma… ora lavoro a Cambria, partecipo a cene, riunioni…»

Dunwich parlava come un autorevole studioso, ma dimostrava molti meno dei suoi ventitré anni. Un ragazzino che si atteggiava a uomo, pensò rabbiosamente Mordraud.

«Vieni qua, fatti abbracciare…»

Dunwich si chinò su di lei stringendola con delicatezza, mentre le accarezzava i capelli di rame sbiadito.

«Stai diventando proprio un bell’uomo, amore…»

«Grazie mamma. Hai poi pensato alla mia proposta? Ti prego, accettala!»

Mordraud si appiattì sulla porta e tese l’orecchio per ascoltare meglio. Una proposta. Cosa voleva Dunwich da loro, si chiese. Da quando se ne era andato, lui e la mamma non avevano avuto altro che problemi.

«Non possiamo venire in città, tesoro. Se scoprissero che sono una Aelian, potrei diventare un peso per te. Quasi nessuno sa che noi esistiamo, e quei pochi, ci guardano con sospetto. Sai che mi chiamano strega, al villaggio? Quaggiù stiamo bene, se tuo padre tornasse un po’ più spesso a casa…»

«È soltanto superstizione…» minimizzò Dunwich con un cenno.

«Non soltanto. Per loro, io non sono invecchiata di un giorno negli ultimi vent’anni.»

«Avete abbastanza soldi? Dal paese vi portano le provviste che vi servono?» disse lui per cambiare discorso. Sapeva che sua madre aveva ragione, ma d’altronde, lui non poteva assentarsi da Cambria troppo a lungo e troppo spesso. Se li avesse avuti tutti vicino a casa, magari avrebbe potuto aiutarli molto meglio di come già tentava di fare. In città aveva soldi, amicizie, una carriera.

Le cose stavano andando alla grande, si disse Dunwich.

«Ci penso io alla spesa, fratello.»

Mordraud entrò in cucina a pugni chiusi e passo pesante. Il volto corrucciato e la voce dura stonavano con il suo aspetto ancora infantile. Eglade allungò subito un braccio e lo afferrò con delicatezza. I due fratelli si fissarono in modi molto diversi. Dunwich con perplessità, Mordraud con odio malcelato.

Era diverso dal bambino che aveva tenuto in braccio ormai tanti anni prima, pensò amaramente Dunwich. Quel giocattolo rosa che frignava e batteva le manine, gli afferrava i capelli mentre passeggiava con lui in braccio. Che si addormentava ovunque.

«Cosa sei venuto a fare?»

«Volevo sapere come stava nostra madre, Mordraud. E magari fare un saluto al piccolo Gwern, l’ultima volta che l’ho visto era in fasce…»

«Stiamo benissimo» tagliò corto lui. «Penso io a tutto.»

«Non sono venuto per crearvi problemi, ero solo preoccupato» provò a dire Dunwich, ma Mordraud gli abbaiò furiosamente addosso.

«Oh sì, eri proprio preoccupato! Bella quella casacca grigia, complimenti… sembra proprio di ottima lana. E che bel carro, fratello. Quanto paghi per mantenere lo stalliere? Il suo peso in oro? Spero non quello della tua spocchia… potresti mandare in rovina l’impero.»

Tutti i problemi che Varno stava creando alla loro famiglia. Il dolore che provava Eglade, la sua debolezza. Anche le crisi di Gwern, che lo prendevano in piena notte e ogni volta minacciavano di ucciderlo. Mordraud aveva deciso di sua iniziativa di prendersi tutto sulle spalle. Forse per mostrare a Dunwich quanto poco lui in realtà facesse per loro. Ma non l’aveva fatto solo per ripicca. Era stato costretto dai tempi. Per sopravvivere a quel naufragio, cercando di salvare tutto quello che poteva.

«Questo non c’entra niente! Se non sopporti l’idea che io viva a Cambria, dillo, forza!» esclamò Dunwich, snervato dal tono sardonico del fratello.

«Torna a far carriera, Dunwich. Dopotutto… tale padre, tale figlio.»

Dunwich sopportò l’insulto come un pugno nello stomaco. Sbiancò e distolse lo sguardo. La bocca che tremava di rabbia. Mordraud si preparò a incassare. Voleva fare a botte con lui. voleva che suo fratello lo caricasse e lo picchiasse selvaggiamente, così da aver un ulteriore motivo per odiarlo.

«Non dire così…» lo implorò Eglade. Soffriva a osservare impotente quella scena. Un ragazzino ben vestito, e un bambino arruffato dallo sguardo feroce che parlavano come due adulti gonfi d’acredine.

«Non dico nulla di sbagliato, mamma! Lui manda a casa i suoi soldi, come papà. Lui non si fa mai vedere a casa, come papà! Poi torna, saluta, e riparte!»

«Ma è tuo fratello, e dovresti essere felice che lui stia avendo il successo che…» mormorò faticosamente Eglade. La tosse spezzò le sue parole e la costrinse ad accasciarsi per un momento sul bracciolo della sedia.

Mordraud serrò le labbra fino a farle sparire.

«Lui non è mio fratello.»

«DUNWICH!»

Gwern entrò di corsa nella stanza travolgendo una gamba del tavolo. Si tuffò per abbracciarlo. Le patate che aveva in mano volarono qua e là sul pavimento di legno, e Mordraud si chinò stizzito per raccoglierle prima che rotolassero fuori portata.

«Ehi, fai piano che se no mi spezzi! Sei diventato fortissimo!» esclamò Dunwich. Il suo volto si schiarì. Sembrava molto felice di quella chiassosa interruzione.

«Sembri proprio un grande nobile, fratellone! Hai anche una spada? E un bastone da passeggio d’oro? È vero che a Cambria tutti girano con un bastone d’oro?»

Dunwich si chinò per osservarlo meglio. Sembrava ancora un bimbo, ma parlava già come un ragazzo. Il sangue Aelian. Mordraud li stava fissando senza respirare. Gli occhi che tremavano affogati nell’ombra dello sguardo.

«Ti comporti bene con la mamma e con tuo fratello, vero? Sei un ometto di casa anche tu, ormai. Hai già imparato a leggere?»

«Come no! È facile. Anche in Aelian è facile, ed è più divertente. Ma adesso non devo fare gli esercizi, li ho già finiti, vero mamma? Ora possiamo andare a giocare. Vieni anche tu?! Facciamo la caccia allo scoiattolo. È divertentissimo! Mordraud è bravissimo a scovarli! E poi…»

Gwern era un fiume in piena. Eglade si alzò debolmente dalla sedia e lo prese in braccio, scuotendolo con dolcezza.

«È un genietto, come tutti i miei figli. Ha praticamente imparato a leggere da solo.»

«Bene, è una gran cosa!» esclamò Dunwich annuendo soddisfatto. «A Cambria cercano sempre ragazzi dotati e desiderosi di imparare.»

Mordraud affilò gli occhi e digrignò i denti, ma non disse nulla. Non voleva spaventare Gwern, ma avrebbe avuto un paio di cosette poco simpatiche da dire al riguardo. Era già un miracolo che suo fratello non avesse ancora avuto una crisi. Quasi ogni giorno Gwern doveva sopportare un paio di attacchi brutali, un misto fra tosse, tremori incontrollabili, conati devastanti, tanto forti da farlo stramazzare in terra con la bava alla bocca.

«E dici che potrei venire anch’io in città a studiare? Cambria è enorme, vero? E ci sono i palazzi come mi raccontava Mordraud?»

«Sì, è molto grande…» rispose Dunwich, gli occhi rivolti a Mordraud «e tu sei molto piccolo. Magari in futuro, quando tu e la mamma starete bene. E ora ti dico un segreto…»

«Quale? Quale?!»

«Nella mia carrozza c’è un sacchetto, e dentro il sacchetto ci sono…»

Dunwich finì la frase parlandogli all’orecchio. Gwern schizzò fuori dalla cucina senza toccare il pavimento.

«Ora vattene, Dunwich.»

«Fratello, cerca di capire, parlerò con papà, posso convincerlo a restare a casa di più…» rispose Dunwich.

«Non sai di cosa stai parlando» ripeté Mordraud con un filo di voce.

«Perché? Pensavo che il problema fosse che lui non sta mai a casa… avete bisogno di più soldi?!»

«Vattene» sibilò di nuovo Mordraud, facendogli segno di uscire.

Dunwich abbracciò forte la madre e la baciò, raccolse il suo mantello e la sacca da viaggio in pelle e si avviò verso l’uscita.

«Torna a trovarmi quando vuoi» sussurrò con un filo di voce Eglade. Dunwich annuì senza parlare.

«PANINI DOLCI! PANINI DOLCI!» le urla di Gwern raggiunsero la cucina riverberando come squilli di tromba alle pareti.

«GRAZIE FRATELLONE!»

 

***

 

Dopo la nascita di Gwern, la loro vita in famiglia era marcita inesorabilmente. Varno, ormai più che cinquantenne, aveva perso gran parte dei capelli, soffriva di continui acciacchi e aveva il corpo ricoperto di cicatrici mal curate. I suoi riflessi non erano più quelli di un tempo, ma lui si ostinava a continuare imperterrito il mestiere di mercenario, incurante di quanto Eglade soffrisse per la sua mancanza. Ormai gli era diventato impossibile tollerare quel lento degrado che lo stava consumando, giorno dopo giorno. Guardava la donna che aveva amato, e la vedeva identica al primo giorno. Guardava la sua immagine allo specchio. Vedeva soltanto un vecchio con un piede nella fossa.

La paura divenne invidia. L’invidia divenne odio.

E, sopra ogni cosa, Varno iniziò a odiare Mordraud.

Non gli somigliava quasi per niente. Era chiuso, parlava poco e non mostrava affetto per nessuno a parte che per sua madre e il suo fratellino. Non era brillante come Dunwich, né delicato come Gwern. Era diventato il bersaglio degli insulti di tutti gli altri ragazzini del paese, senza aver fatto praticamente niente. Nessuno lo sopportava.

E aveva quei maledetti occhi verdi. Gli stessi di Aris, il suo incubo peggiore.

Varno prese a fare cupi pensieri sulla moglie. Perché tutti i suoi figli non gli somigliavano? Perché Mordraud aveva gli occhi di un altro Aelian? Non avrebbe mai pensato di raggiungere tali livelli di paranoia, quando era giovane e non teneva conto dei problemi che avrebbe potuto avere in futuro. Ma li aveva raggiunti e superati. Non sapeva nemmeno di quanto.

Invece che seguirla di nascosto, tenere d’occhio i suoi movimenti come una qualunque persona gelosa, Varno prese a fuggire sempre di più, e sempre più lontano. Sapeva che le sue supposizioni non potevano avere un senso, ma gli serviva comunque un pretesto per continuare a provare invidia, per mantenere in caldo il suo odio. Invece che affrontare la paura del tempo che passava inesorabile, tentava disperatamente di scappare da esso.

Senza successo.

Eglade non si era più ripresa dall’ultimo parto. All’inizio era sembrata soltanto una lunga debolezza, una mancanza di forze che la costringeva a letto per gran parte del giorno. Ma con il passare dei mesi, invece che migliorare, la sua condizione peggiorò inesorabilmente. I lunghi capelli di rame liquido sbiadirono, gli occhi si spensero. La sua mente prese a sbandare sempre più spesso, alternando deliri allucinanti a momenti di lucida e agghiacciante razionalità. Potevano passare giorni in cui non riusciva a dire una parola, oppure blaterava senza freni nella sua lingua madre raccontando al nulla di boschi congelati, orrendi cieli neri, esseri che vagavano nelle ombre. Poi, di colpo, si rendeva conto di quello che le stava accadendo e piangeva, piangeva senza sosta.

Varno non c’era mai in quei momenti.

Per lei, suo marito era diventato un essere sconosciuto. Varno era soltanto nei suoi ricordi, un ragazzo pieno di vita ed energia che l’aveva affascinata con le storie di un mondo che le era sempre stato precluso. Non capiva cosa fosse successo, non riusciva a farsene una ragione. All’inizio aveva sperato che, con la giusta pazienza, tutto si sarebbe sistemato. Che Varno un giorno avrebbe capito di non poter fuggire all’equilibrio del tempo, che donava a lei e ai suoi figli e toglieva inesorabilmente a lui. I momenti buoni si erano fatti sempre più radi. Nessun miglioramento, mai nemmeno l’illusione.

Semplicemente aveva smesso di reagire, di opporsi.

Eglade stava scivolando lentamente nella follia, accudita disperatamente da Mordraud, che non capiva cosa stesse succedendo. Varno non muoveva mai un dito per aiutare lui, né lei.

Però le mani le muoveva, eccome, per fare altro. Picchiarlo, ad esempio. O per alzare un fiasco di vino.

La situazione era diventata molto difficile l’anno dopo l’ultima visita di Dunwich. Ogni volta che Varno metteva di nuovo piede in casa, Mordraud diventava il suo bersaglio. Quando non riusciva a mettere le mani su di lui allora toccava a Gwern, e per ultima, Eglade. Suo fratello si era chiuso in un mutismo impenetrabile, e il suo sorriso era svanito completamente. Le crisi che lo colpivano inesorabilmente diventavano sempre più forti. Come un’eco dell’oscura malattia della madre. Mordraud viveva nel terrore che uno schiaffo, uno soltanto, potesse ucciderlo.

Per cui si faceva sempre trovare da Varno, ogni volta che era necessario.

Lo imbeccava insultandolo e prendendolo in giro, finché lui non abbandonava i suoi propositi verso la madre e il fratello caricando di botte soltanto lui. Di solito Mordraud si faceva prendere apposta, ma solo dopo averlo stancato con corse estenuanti e continue provocazioni. Voleva essere sicuro che dopo aver finito con lui, sarebbe andato dritto in paese a bere. Da ubriaco era molto meno pericoloso. Spesso dimenticava tutto ciò che era successo. Raramente Gwern poteva vedere tutta la scena, perché Mordraud sapeva annusare nell’aria i guai in arrivo, e prima che scoppiasse l’ennesimo dramma lo spediva nel bosco a raccogliere qualsiasi cosa gli passasse per la mente, more, lamponi, funghi o semplicemente bacchetti di legna per il fuoco.

«Lascia fare a me, mamma!» aveva detto Mordraud a Eglade una sera dopo una giornata particolarmente difficile, perché Varno si era ricordato di un vecchio randello che aveva nascosto anni prima nella legnaia. «So dove tiene le monete d’argento, aspettiamo una notte senza luna, prendiamo tutto e scappiamo! Io, te e Gwern… dobbiamo farlo!»

«È bello camminare nelle notti senza luna» aveva risposto Eglade con voce sognante, sdraiata e immobile nel suo letto. Mordraud la stava aiutando a mangiare un po’ di zuppa annacquata che lui le aveva preparato, mentre Gwern giocava in silenzio con il lembo della coperta. Mordraud era preoccupato per lei, ma soprattutto per il fratello. Sembrava l’ombra rimpicciolita della madre, stessa pelle diafana e tirata, stessa espressione vacua.

«Sì, è molto bello, ti piacerebbe venire con noi una volta? A fare una… passeggiata?»

«È bello. Ma è anche pericoloso. Lo sai cosa diceva mio padre, tesoro? Nelle notti senza luna le ombre alle spalle sono più lunghe, diceva sempre. Non so cosa volesse dire. Mio padre mi faceva paura. Sono stanca… ho bisogno di riposare un pochino. Varno tornerà domani con il cesto pieno di frutti e formaggi. Quelli che piacciono tanto a Dunwich.»

Solo a sentire nominare suo fratello, a Mordraud si gelava il sangue nelle vene. Ricevevano ancora i soldi che lui spediva, ma il loro rapporto si fermava lì. Piuttosto che chiedere aiuto a suo fratello, avrebbe preferito affogare in una marea di schiaffi.

Sarebbe dovuto fuggire con Gwern. Un’idea costante. Ma non se la sentiva di abbandonare la madre al suo destino. Portarla via con la forza sarebbe stato impossibile. Eglade non si alzava più dal letto. Non si reggeva in piedi. Scappare da solo non lo prendeva neppure in considerazione. Suo fratello non avrebbe retto un giorno, e poi sarebbe stato il turno di sua madre.

Restava soltanto il lavoro di Varno che, per quanto calasse di giorno in giorno seguendo la mesta china del tempo che passava, restava comunque l’unica pausa di relativa serenità a cui Mordraud poteva ancora aggrapparsi.

Ma alla fine, anche quell’ultimo fragile appiglio svanì miseramente.

Durante un’inaspettata campagna di attacchi in un fronte periferico, e solitamente poco pericoloso, Varno perse il braccio destro durante una carica di cavalleria. Dopo settimane di dolori e febbri lancinanti, fu mandato a casa con soltanto un pugno di monete in mano e una montagna di rabbia da smaltire. Mordraud aveva quindici anni.

Non credeva possibile che la sua vita potesse essere peggiore. Si sbagliava clamorosamente.

Il disgusto per la sua famiglia aveva ormai raggiunto vette impossibili. Varno si era convinto di vivere insieme a schifose aberrazioni della natura. Abomini che aspettavano solo la sua morte per potersi prendere i suoi soldi. Divenne sempre più cattivo nell’animo. Si lamentava giorno e notte, seduto su una sedia in giardino, e sbraitava di quanto fosse stato coraggioso quando gli avevano amputato il braccio. Si inventava storie in cui assaltava da solo un intero plotone di cavalieri. Si comportava come un eterno convalescente, lasciando a Mordraud ogni minima incombenza.

Sempre che non scendesse in paese a bere.

Il vino lo trasformava in una belva carica di odio e di rimorsi da sfogare. La sua vita era finita, il suo lavoro concluso per sempre, la vecchiaia lo stava divorando dall’interno. Partendo dalla testa.

Diverse volte cacciò i medici per Eglade che Dunwich aveva mandato dalla capitale, spendendo cifre folli e rischiando grosso. Impediva qualsiasi contatto dall’esterno con la loro casa. Anche i suoi figli non potevano entrare in camera della madre, che viveva confinata e sola sempre nella stessa stanza buia e umida. Infine, smise di dare il cibo alla Aelian completamente fuori di senno, impedendo anche a Mordraud di farlo. Controllava di continuo le dispense e l’orto. Una volta pestò selvaggiamente Gwern dopo averlo scovato mentre di nascosto tentava di portare qualche frutto selvatico a Eglade.

Il bambino ne era uscito malconcio e stracciato. Era rimasto bloccato a letto per giorni, a cavallo fra la vita e la morte, chiuso a chiave in camera e sorvegliato giorno e notte da suo fratello. Avevano sentito Varno continuare a urlare, spaccare, inveire contro di loro, picchiare ferocemente sulla porta. Mordraud non aveva mai avuto tanta paura in vita sua. E la colpa, nella sua mente schiacciata dal terrore, divenne carne, sangue e un nome.

Dunwich.

Il fratello che non era mai venuto in loro soccorso, che li aveva abbandonati per inseguire una vita di successo nella città che aveva ucciso suo padre. Cambria. La maledetta Cambria. Perché Varno, in realtà, non era mai tornato a casa da quella battaglia. L’uomo senza un braccio era lo Sconosciuto.

Soltanto lo Sconosciuto.

La paura divenne invidia. L’invidia divenne odio.

Un odio talmente profondo da spingere Mordraud oltre il confine sfumato della disperazione.

 

***

 

«DOVE SEI ANDATO, BESTIA? SCHIFOSO MOSTRICIATTOLO!»

Mordraud era stato più bravo del solito. Quando suo padre tornava dopo una giornata intera passata in paese, si scatenavano dettagli che solo lui riusciva a percepire. Le fronde degli alberi sembravano zittirsi, gli uccelli cambiavano voce e i pochi animali che ancora avevano in cortile raspavano il terreno sempre nello stesso modo. Quel modo. Il segnale tanto temuto.

Rapidamente, Mordraud sbirciò dalla finestra della sua camera e vide Gwern addormentato sul letto. Non si era ancora ripreso. Si svegliava di tanto in tanto chiedendo qualcosa da bere, e precipitava di nuovo in un oblio malsano. Per precauzione Mordraud chiudeva la porta della camera con un lucchetto che aveva rubato in paese, dentro la baracca di un taglialegna.

Sua madre era la seconda tappa del rituale. Eglade era svenuta a letto, sempre più magra e devastata. Anche la sua camera era chiusa, ma di quella lui non aveva la chiave. Un grattacapo che aveva imparato a risolvere in fretta. La finestra era piuttosto facile da aprire con un ferretto piegato, passato sotto un’asse che lui aveva schiodato con un martello.

Aveva poco tempo. Le prime grida si alzarono dalla fine del sentiero.

I passi sulla ghiaia divennero ben distinti, il tipico ritmo sincopato di un uomo ubriaco fradicio. Mordraud si fiondò nella legnaia, scivolando dietro una pila di vecchi ceppi tarlati che aveva accuratamente disposto in modo da creare un alveo irraggiungibile.

«Senza il tuo braccio, non vali la metà di me» sussurrò a denti stretti, ripetendo quelle parole come una nenia. «Senza il tuo braccio non puoi raggiungermi.»

Si immaginò il moncherino. Lo trovava disgustoso. Lo Sconosciuto si divertiva a mostrarglielo, a strofinarglielo sulle guance per spingerlo a vomitare. Mordraud fermò quel pensiero. Lo soffocò mormorando di nuovo la sua preghiera speciale.

«Senza il tuo braccio…»

«HAI CHIUSO DI NUOVO LA PORTA, EH? PICCOLO CANE SCHIFOSO, DOVE SEI?!»

Mordraud sentì il caos montargli intorno. Il legno che scricchiolava, la serratura che fremeva sotto i pugni dello Sconosciuto.

«QUESTA È CASA MIA, NON PUOI CHIUDERE LE MIE PORTE!»

“Adesso tenta sul retro, vicino al pozzo. Poi nel pollaio vuoto. Nella vecchia cuccia del cane. E si addormenterà sulla poltrona in sala” pensò meccanicamente, abituato a tutta una serie di grotteschi passaggi di un rito che aveva imparato alla perfezione.

Mordraud ricordava cos’era successo in ognuno di quei luoghi. Erano stati ottimi rifugi, ma non erano durati molto. La legnaia era il migliore di tutti. A portata di mano, pronti e invitanti, aspettavano la vecchia spada sbeccata di suo padre, e un bastone duro e levigato, che si era intagliato da solo nelle lunghe e noiose ore di fuga nei boschi.

«Se mi trova, questa volta posso difendermi. Senza il suo braccio… non vale la metà di me…»

Si era allenato fino a maciullarsi le braccia, tutte le volte che poteva, ogni giorno per mesi. I suoi muscoli non erano ancora pronti a manovrare una lama, ma gli anni non erano passati invano. Mordraud aveva picchiato su tutti i tronchi della foresta, spaccato rami, sollevato pietre, scavato fosse. La sua forza non si poteva vedere facilmente, rinchiusa nel corpo esile di un dodicenne. Ma il nervo era diventato di ghisa.

Terribilmente pesante. Tremendamente fragile.

«SEI QUA DENTRO, VERO?!»

Lo Sconosciuto aveva cambiato schema. Niente poltrona, niente cuccia. La porta della legnaia saltò via come carta, e Mordraud sentì il cuore sprofondare. Un fremito insopportabile gli impediva di stringere la mano sinistra sull’elsa. «Senza il tuo braccio, non puoi raggiungermi» ripeté a se stesso a occhi socchiusi. «Senza il tuo braccio, non vali la metà di me.»

Intanto, la sua mano ballava incontrollata. Non sentiva le dita. I tendini del polso erano attraversati da una scossa che gli piegava i denti in bocca. L’intero braccio sinistro era completamente fuori controllo.

«Ti nascondi come un ratto, vero?! Sotto la legna come i ratti, sotto terra come i vermi! VIENI FUORI!»

Un ciocco di legno cadde vicino a lui. Il nemico aveva raggiunto le mura, e stava usando tutta la sua forza per conquistare il castello. Un altro ceppo, una valanga di frasche secche. Una pigna lo prese in testa. Mordraud era rannicchiato sotto una montagna di legna pericolante.

«Fottiti, cane maledetto!»

Il nemico calò i suoi attacchi. Inaspettatamente, batté in ritirata. I passi dello Sconosciuto strisciarono sulla ghiaia fuori dalla legnaia, e Mordraud poté tornare a respirare.

“Ho vinto… non mi hai preso, bastardo…”

La sua mano era ancora stretta sull’elsa della spada. Le dita non volevano saperne di staccarsi. Il fremito era dilagato su tutto il corpo. Mordraud sentì il panico frullargli le viscere. La paura che aveva soffocato per sfuggire al nemico era tornata a esigere il giusto sacrificio.

Improvvisamente, non sapeva più dove fosse. Non riconosceva le pareti, il terreno sporco, le distanze fra lui e il cumulo di ceppi. Lo spazio era diventato del tutto mentale. Le forme ai margini della visione erano piegate come dentro il fondo di un fiasco di vetro.

«Mamma?»

Nessuno rispose al suo sussurro disperato. Non era neppure certo di avercela, una madre. Quella non poteva essere casa sua. Non la riconosceva. Era da solo in un paese straniero, circondato da essenze sfuggenti e forme inafferrabili. Odori incomprensibili gli torturavano il naso. La luce era virata a un rosso carminio macchiato di giallo.

«Mamma?!»

Mordraud riuscì a strisciare fuori dal cumulo di legna, e seguendo la debole ombra del tramonto oltrepassò il varco mezzo chiuso della porta e sgusciò nel cortile. Nessun rumore, segno che il nemico ormai era ritornato nel suo accampamento. Ma lui dov’era, si chiese spaesato. La testa gli girava troppo forte. Per quanto provasse, non riusciva a tenere lo sguardo fisso in avanti senza sentire un conato squassargli lo stomaco. Come quando era costretto a subire il moncherino deforme dello Sconosciuto. Prima che il panico prendesse il sopravvento, Mordraud corse a perdifiato dentro la foresta, inciampando su ogni radice, sbattendo contro ogni ramo.

La notte scese in fretta, accesa da una pallida falce di luna. Finché non sentì le gambe cedergli, Mordraud corse. Incurante della fatica. Se si fosse fermato, sapeva che lo smarrimento sarebbe ritornato con ancora più forza, ma finché si muoveva non aveva tempo per pensare. Le ore scivolarono via, e quando finalmente la stanchezza lo scaraventò in terra, il tremore era ormai svanito. Mordraud si addormentò rannicchiato su un cumulo di foglie secche.

L’alba lo sommerse impietosa.

Senza rendersene conto, Mordraud era arrivato quasi al villaggio, a pochi passi dall’ultima fila di alberi del bosco. Ma non fu la luce a svegliarlo.

Furono un calcio secco nella schiena, e un paio di risate sommesse.

«Guarda qui, il figlio della strega!»

«E noi che volevamo andare a caccia di lepri… siamo stati più fortunati!»

Altri due calci. Un pugno nello stomaco. Niente, rispetto allo Sconosciuto. Erano i ragazzi del villaggio. Gli stessi che lui aveva già caricato a testa bassa, compreso quello a cui aveva fatto saltare i denti. La gamba più attiva contro i suoi reni era la sua.

«Te la faccio pagare per questi!» biascicò il ragazzo più grosso, indicandosi con un dito la bocca sfondata. «Forza, tenetelo fermo!»

Una selva di braccia lo inchiodò alla terra umida. Fra le mani del ragazzo senza denti era apparso un lungo coltello da macellaio.

«Cosa ti tolgo? Un occhio?»

La punta della lama danzò a un palmo dalla sua faccia. «Un orecchio?»

Mordraud sentì ritornare il tremore, tanto forte che per poco non si mozzò la lingua in bocca da solo. La scarica sfibrò i tendini e li accartocciò. Le dita divennero sassi gelidi e insensibili.

I volti dei ragazzini erano tutti uguali. Gli alberi sopra la sua testa si fusero in un’unica macchia verde. Colori, pensò delirando. Colori dappertutto.

Il rosso e il giallo del cielo. La terra nera. Il verde irraggiungibile della salvezza.

«Ho deciso!» urlò trionfante il ragazzo con il coltello.

«I DENTI!»

Mordraud fletté la schiena e strappò via una gamba dalla morsa. Lo sdentato volò a terra colpito al petto insieme al coltellaccio arrugginito. La sua reazione colse tutti di sorpresa. Con un paio di gomitate riuscì a liberarsi e a rimettersi in piedi.

«Maledetto ratto

Le loro voci erano tutte uguali. Anche i loro occhi. Lo Sconosciuto si era moltiplicato, ed era tornato per finire l’assalto della notte prima. Loro non potevano saperlo, ma lui era molto bravo a incassare. Tristemente bravo. Aveva a che fare tutti i giorni con un vecchio mercenario dalle mani dure come il ferro.

Le loro, in confronto, erano carezze.

Mordraud afferrò un ramo spezzato e colpì senza esitare la prima testa che trovò a tiro. Il tremore allentò la sua furia. I ragazzi fecero un passo indietro, poi gli corsero addosso tutti insieme.

Il fremito al braccio svanì del tutto quando vide il primo di loro cadere in terra con la faccia spaccata.

Mordraud saltò indietro per schivare le lame dei temperini e delle roncole che erano balenate fuori dalle loro cinture. Si sentiva calmo e a suo agio, come mai gli era capitato. Il bastone volava colpendo a casaccio. Quando il braccio sinistro si fermò, cinque ragazzi più vecchi, e molto più grossi di lui, giacevano a terra doloranti. Alcuni non si muovevano. Gli occhi gonfi e il sangue che colava da lunghi tagli sulle guance.

Mordraud si guardò la mano sinistra. Aveva appena scoperto un modo per fermare quel maledetto tremore.

Per soffocare la paura.

Per trovare la pace.

 

***

 

Quella sera, Mordraud non seguì i passi del rito. Diede soltanto un’occhiata alla finestra di Gwern per controllare che tutto fosse a posto, ed entrò in casa. Il lucchetto che aveva rubato si era rotto. Lo Sconosciuto doveva aver trovato un martello. Per fortuna, la sbronza l’aveva steso prima che riuscisse a entrare, pensò sollevato.

Sarebbe tornato a breve. Lo sapeva. Mordraud mise sul fuoco un pentolino di zuppa. Uscì, entrò nella rimessa e prese un piede di porco. Ritornò in casa e si piazzò di fronte alla porta di sua madre. Forzò la serratura strappando il lucchetto dal montante, ed entrò chiudendosela alle spalle.

Non potevano impedirgli di portare avanti le sue abitudini. Sua madre doveva mangiare la zuppa. Come nella vita di prima, quando ancora lo Sconosciuto non li aveva trovati.

Si sedette vicino a Eglade, le sollevò la testa e iniziò a imboccarla lentamente. Era magra da far paura. I suoi capelli erano diventati grigi. La pelle un tempo liscia e perfetta sembrava carta fradicia. Si sbriciolava fra le dita.

«Stanotte devo fare una cosa, mamma…» sussurrò Mordraud. Eglade lo stava fissando, ma i suoi occhi non vedevano nulla. Lei non lo riconosceva. Si era dimenticato anche di lui.

«Una cosa che dovevo fare molto tempo fa.»

«Ealon Sial’nar… »

«Cosa c’è mamma?» le chiese avvicinandosi per cogliere il suo mormorio.

«Notte… senza… fine… notte… senza… fine…»

Mordraud sentì Varno entrare in casa a passi sconnessi. Sbatteva contro le pareti martellandole con l’unica mano che aveva. Era ubriaco come al solito. Quando vide la porta divelta, e lui che dava lentamente da mangiare a sua madre, prese a urlare in modo stridulo. Si gettò nella stanza. Lo afferrò al collo.

«Te l’avevo detto, ratto! Non mi devi disubbidire!»

Mordraud era abituato ai pugni, ma quella sera Varno aveva con sé il randello che usava per camminare. Lo prese in faccia, sul fianco e in schiena, senza fiatare. La scodella di zuppa si rovesciò sulle coperte ammuffite. Un orecchio era andato. Sentiva un rivolo di sangue colargli lungo il collo. Il randello gli si spezzò in mezzo alla fronte con uno schiocco rivoltante. Il fremito al braccio sinistro lo stava riducendo in una poltiglia tremula.

«Sial’nar! Sial’nar!» tossì Eglade a occhi sbarrati.

«Maledetto il giorno che ti ho fatto nascere! Tu e quello schifoso scarto di tuo fratello, e la puttana di vostra madre!» urlò paonazzo Varno, sbavando come un cane. «Lei mi ha tradito! Demoni della foresta schifosi! Figli di Aelian, voi siete! PENSAVA CHE NON LA SCOPRISSI…»

La mano di Mordraud si mosse da sola.

«… PUTTANA MALEDETTA!»

Dalla manica scivolò fuori il coltello arrugginito dei ragazzi del paese. Lo piantò in mezzo al petto di Varno. Sprofondò fino al manico di legno tarlato. Suo padre tentò di urlare ma la voce gli morì in un sibilo liquido. Mordraud strappò la lama e la piantò ancora. Il fremito al braccio cessò di colpo. Lui continuò a infilzargli la carne in silenzio, fissandolo dritto negli occhi. Eglade cacciò un urlo disumano. Lui non si fermò. Piantò il coltellaccio nel collo dello Sconosciuto, nel moncherino schifoso, nel braccio, decine di volte nella pancia. Fino a sbudellarlo. Anche quando era già a terra e non respirava più. Lo sviscerò fino a raggiungere la spina dorsale.

Si fermò soltanto quando vide Gwern che lo fissava terreo, le mani avvinghiate al petto. La faccia contratta in una maschera di gelo. Mordraud era imbevuto di sangue dalla testa ai piedi. Il letto era ricoperto di schizzi rossi. Eglade piagnucolava rannicchiata su se stessa, e continuava a mugolare qualcosa in Aelian che lui non riusciva a comprendere appieno. Ealon Sial’nar.

Notte senza fine.

«Aiutami» disse soltanto, rivolto a suo fratello.

Gwern si mosse meccanicamente. Senza dire una parola.

Insieme la portarono fuori da quel macello e la sistemarono nella loro camera. Gwern e la madre restarono nel letto, abbracciati, mentre Mordraud trascinava fuori dalla casa e dall’aia il corpo maciullato dello Sconosciuto, fin dentro il cuore del bosco. Lo gettò in una buca fra alcune radici profonde.

Ci sputò sopra.

Lo ricoprì di terra umida e foglie morte.

Non si voltò. Non disse nulla.

Quello non era suo padre.

Varno non era mai tornato a casa dalla battaglia in cui Cambria l’aveva ucciso.

 

***

 

Eglade non si risvegliò più dopo quella notte. Gwern e Mordraud le restarono vicino, nella disperata attesa che aprisse almeno un’ultima volta gli occhi. Non accadde mai. Morì due mesi dopo. Senza sussulti, senza dolore. Smise semplicemente di respirare. Il suo volto si contrasse in un ultimo sorriso demente.

Gwern non aveva detto una parola fino a quel giorno. La sua mente era rimasta inchiodata a quella notte, quando aveva visto Mordraud ergersi sul corpo di suo padre con il coltello ancora stretto in mano. Non riusciva a smettere di sognarlo. Ma quel sorriso riuscì a farlo finalmente piangere. Come se un peso fosse scivolato via. O fosse precipitato un po’ più a fondo dentro di lui.

Un granello di piombo che si incastrò da qualche parte dentro Gwern, nelle ombre.

Suo fratello poteva solo sperare che quel ricordo, prima o poi, sarebbe pietosamente svanito.

Decisero di seppellirla sotto l’albero più grande del bosco, nell’ingenua speranza che fosse il modo in cui gli Aelian rispettavano i propri morti. Non recitarono preghiere. Non ne conoscevano.

Rimasti soli, radunarono le poche cose che potevano ancora essere utili e si prepararono a partire. Mordraud diede fuoco alla casa, partendo dalla camera dove era morto lo Sconosciuto. Il pavimento era lordo del suo sangue nero. Gettò dentro le fiamme anche la vecchia spada spuntata di suo padre.

«Dove andiamo adesso, fratello?» mormorò Gwern, mentre sentiva sopraggiungere una delle sue crisi. Erano peggiorate in modo preoccupante da quando suo padre lo aveva quasi ucciso a schiaffi e calci.

Era il 1630. Eldain, il nobile che reggeva l’alleanza dei feudi contro l’impero di Cambria, aveva superato la mezza età ma era ancora potente e determinato a vincere la guerra. Gli scontri infuriavano, ormai da decenni, a poche settimane di distanza dal loro villaggio.

«Andiamo a Eld. Devo trovare un lavoro. Per tutti e due» rispose Mordraud, mentre fissava rapito le fiamme che si alzavano dalla loro vecchia casa. Il tetto scricchiolò e crollò alzando una leggera nuvola di scintille infuocate. «Magari qualcuno conosce una cura per la tua malattia. Ma prima devo trovare il modo di metter su qualche soldo.»

Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di andarsene da lì. Ma doveva scegliere dove. Piuttosto che puntare a Cambria, Mordraud si sarebbe ammazzato. Non voleva vedere Dunwich. Per lui aveva altri piani, ma era ancora presto.

Eld era l’unico posto dove poteva sperare di trovare un lavoro in fretta. E, quando sarebbe giunto il momento opportuno, sapeva già cosa cercare.

Un datore di lavoro che aveva sempre carenza di manodopera. Pagava bene, se si lavorava bene. E il cui unico obiettivo era distruggere la città dove si nascondeva suo fratello, la capitale che aveva ucciso suo padre.

La guerra.

Mordraud, Libro Primo
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