XXVIII

 

 

 

 

 

 

 

«La nebbia si sta diradando.»

Asaeld scostò le falde della tenda e osservò l’orizzonte oltre il campo. La neve aveva smesso di cadere, da ben tre giorni. Era più di un anno che non succedeva. Qua e là, macchie di terra nera spuntavano dall’infinita coperta bianca, portando alla luce i corpi mezzi congelati di tutti i morti che nessuno si era preso la briga di seppellire dignitosamente. Il vento portava un vago odore di decomposizione, di carne esposta al caldo e piante dissepolte. Il cielo era sgombro di nubi, carico di un azzurro tanto intenso da far girare la testa. Poteva esserci una sola spiegazione. Asaeld abbassò il capo e sorrise debolmente, senza farsi notare dalle tre guardie che aspettavano un suo comando. L’esercito era confuso, disorientato. Ormai erano tutti abituati all’idea che il freddo non se ne sarebbe mai andato.

Invece era svanito. Per sempre.

Lungo Inverno era finito.

«Avvisate i capitani di reparto. Gli uomini devono iniziare a smontare il campo, e che tutti si tengano pronti a combattere!»

«Ma come, signore?! È in programma un attacco, e poi la ritirata?»

«Oh, proprio no… noi non attaccheremo. Saranno i ribelli ad attaccarci.»

Le tre guardie si guardarono piene di stupore e sgomento. «Ma… non attaccano da mesi, spetta a noi aggredire!»

Asaeld richiuse le falde della tenda e si avvicinò alla rastrelliera delle armi. Prese la sua spada, la sfilò dal fodero e controllò la qualità del taglio. Da quando era un generale, non la usava molto spesso.

Quel giorno si sarebbe rifatto del tempo perduto.

«Sapete cosa fa un orso non appena si sveglia dal letargo?» chiese alle guardie, che lo seguivano confuse e in silenzio.

«No, signore»

«Mangia. Divora tutto quello che trova…» concluse trattenendo a fatica una risatina compiaciuta «e oggi saremo noi il pasto dell’orso.»

«Pensate quindi che…»

«Sono assolutamente sicuro. Fate allestire i carri, mandate via tutto ciò che si può. Caricate anche i feriti e rimandateli a Cambria. IN FRETTA!»

«Sì, signore!»

Le guardie corsero fuori dalla tenda borbottando fra loro. Asaeld tornò a controllare la sua spada, la sguainò e menò due fendenti nel vuoto, solo per sentire se il filo d’ottone dell’impugnatura fosse ancora solido. In realtà, si era chiesto fino all’ultimo se fosse il caso di avvisare gli uomini dell’attacco imminente. Forse no. Tanto, gli uomini di Eldain li avrebbero fatti a pezzi comunque. La corda era stata tirata troppo, e si era spezzata.

Come aveva immaginato sin dall’inizio che sarebbe successo.

«Era ora… e dire che per poco non funzionava… proprio per poco…»

Asaeld sorrise di nuovo. Da più di un anno sopportava il freddo, il cibo scadente, i problemi insulsi dei soldati, i continui attacchi inconcludenti al Terrapieno. Una lunga e fastidiosa seccatura. Non gli interessava nemmeno sapere chi fosse stato a fermare il suo piano di Lungo Inverno. Potevano essere stati gli uomini di Eldain, o addirittura una rivolta interna. Meglio ancora, pensò. Un movimento popolare sarebbe stato l’ideale. Avrebbe avuto il tempo per riflettere sui complici inconsapevoli che avevano fatto il suo gioco, fermando Lungo Inverno.

Stava per avere inizio un incubo orrendo per il glorioso esercito dell’Imperatore.

«Grazie, Loralon… non dovevi darti tutta questa premura… così è troppo semplice» sussurrò inchinandosi al vuoto. Lungo Inverno non era servito a nulla. Se non a esasperare nemici e amici allo stesso tempo, e a far odiare da tutti la dinastia imperiale.

«Così è tutto troppo facile.»

 

***

 

Casa dolce casa.

Era notte fonda quando Mordraud varcò la tenda della sua squadra. Era stato via per più di due mesi, e per lui fu un sollievo strepitoso ritrovare il Terrapieno ancora in piedi. Non era passato un giorno senza che il suo pensiero non corresse ai ragazzi della squadra, a tutti gli uomini rannicchiati sotto le coperte in attesa dell’ennesimo attacco di Cambria, e aveva temuto tante volte di non fare in tempo. O ancor peggio, che tutti i suoi sforzi potessero non servire a niente. Aveva lasciato l’esercito in condizioni pietose, e l’aveva ritrovato in condizioni pietose. Ma almeno esisteva ancora, solo quello contava.

La tenda era inspiegabilmente vuota. La stufa era spenta e i giacigli in ordine. Le piccole cose dei suoi compagni c’erano tutte: i due pugnali logori di Pietà, il ferro di cavallo che Maglio usava per segnare il suo cuscino, anche il fiasco vuoto portafortuna del povero Rosso non era stato toccato. Sul coperchio di un barile in un angolo, erano ancora disposte le tessere di una partita di Torre di Spade abbandonata a metà. Non vedeva l’ora di farsi una partita con Maglio, pensò Mordraud.

L’aria era tiepida, una sensazione piacevole che gustava da giorni ma a cui ancora non si era abituato. La neve si stava sciogliendo rapidamente e aveva smesso di cadere da diversi giorni. Il paesaggio non era dei migliori. La maggior parte delle piante era morta congelata, l’erba faticava a spuntare e una quantità mostruosa di carcasse di animali e uomini intasava la terra, ovunque. Aveva attraversato diversi villaggi durante il viaggio di ritorno, e non aveva trovato altro che case vuote e gente morta nel proprio letto. L’inverno era finito, ma aveva lasciato strascichi pesanti.

Gwern era tornato a casa con Saiden. Si erano separati per accorciare i tempi, Mordraud voleva tornare dai suoi ragazzi per dar loro una mano. Anche se non aveva partecipato alla fine di Lungo Inverno, sentiva comunque di aver vinto. Era una faccenda personale. Anche se Cambria avesse tentato di nuovo quel trucco infame, lui aveva capito come fossero in grado di farlo. Aveva intenzione di spiegare tutto a Eldain, così da approntare squadre pronte a setacciare i confini più prossimi al fronte, per tenere d’occhio ogni possibile covo sospetto. “E poi, almeno uno l’ho ammazzato io…” pensò sogghignando. “Spero che Lungo Inverno sia morto con quella merda schifosa.”

Si chiese cosa avrebbe dovuto dire. Tutti sapevano che lui era partito alla ricerca di una soluzione per la maledizione che l’impero aveva scatenato su Eld, avrebbero di certo dato il merito a lui. Mordraud borbottò fra sé. Anche se si fosse ostinato a dire il contrario, probabilmente nessuno gli avrebbe creduto.

Non aveva ancora incontrato gli uomini del campo, a parte un paio di sentinelle del perimetro che però non l’avevano riconosciuto. Aveva dovuto insistere perché lo facessero passare. Aveva elencato tutti i nomi delle persone che conosceva nell’esercito, i loro nomignoli, le loro storie. Non si era mai reso veramente conto, prima di quel giorno, con quanta gente avesse stretto un rapporto da quando combatteva per Eldain. Era una bella sensazione. Come essere parte di una famiglia molto allargata.

Tutto era tranquillo. Un silenzio assoluto pervadeva l’accampamento, rotto soltanto dai bagliori di qualche focolare incustodito. Il suo giaciglio era lì, pronto ad accoglierlo. Avrebbe voluto sentire i suoni dei dadi sbatacchiare nelle casse vuote, il ciarlare dei soldati di turno, magari anche il frastuono caotico di una rissa. Ma per quella notte si sarebbe dovuto accontentare del silenzio.

Mordraud si sdraiò assaporando il morbido sacco riempito di paglia, si sfilò gli stivali e slacciò la fibbia della cintura, facendo scivolare a terra la spada. Non aveva ancora deciso cosa dire, si sarebbe tenuto il più possibile sul vago. Non amava l’idea di prendersi meriti non suoi, ma in fondo, era lui che aveva rischiato la pelle sua e di suo fratello per la causa. Era soltanto preoccupato di come avrebbero potuto chiamarlo gli altri ragazzi. E il brutto era che non poteva farci niente. Anche se ne aveva ucciso soltanto uno, nessuno avrebbe dato peso alla cosa.

Il Terrore di Cambria.

Oppure lo Strozzacantori.

«Brr… che schifo…» mormorò chiudendo gli occhi «ci manca solo che mi chiamino…»

«PRIMAVERA!»

La tenda vibrò come sotto le percosse di una bufera. Mordraud si avventò sulla spada seguendo un riflesso incondizionato, e si tirò su in piedi. Si era appisolato? Era un sogno, oppure aveva sentito veramente quel nomignolo, l’orrore degli orrori, la cosa che più temeva, più della morte stessa. Tutto, ma non…

«PRIMAVERA!»

Una marea di gente si riversò nella tenda, facce nuove e sconosciute, tutte impegnate in un unico grido corale.

«PRIMAVERA!»

«No, vi prego… no…» balbettò Mordraud con lo stomaco contratto.

«Bentornato, Primavera!» Maglio si fiondò su di lui e lo sollevò da terra come un sacco, e così facendo, i pantaloni di Mordraud sfilarono giù fino alle caviglie.

«Mettimi giù, bestia idiota che non sei altro!» blaterò lui rosso in faccia. «METTIMI GIÙ!»

«Niente da fare, capo! INIZIA LA FESTA!»

Mille braccia lo strapparono fuori dalla tenda, e Mordraud si ritrovò di fronte l’intero esercito di Eldain. Altro che silenzio. Il campo era una bolgia spaventosa. Sui fuochi giravano i porcelli a cuocere, decine di botti erano sparse ovunque e la gente si accalcava per bere direttamente dal foro stappato, inondandosi la faccia e i capelli di vino invecchiato. Qualcuno stava suonando una danza popolare con i corni delle cariche. I capitani di reparto erano più scalmanati dei propri uomini. Tutti, nessuno escluso, urlarono ferocemente il suo nome nella notte quando venne trascinato fuori dalla tenda. Il suo nome, seguito da quel nomignolo terrificante.

«Ecco Mordraud! È tornato Primavera

«Ma… chi ve l’ha detto… come facevate a saperlo…» chiese Mordraud stordito dalle grida e dal frastuono.

«Quando abbiamo visto riapparire il sole, abbiamo capito subito che ce l’avevi fatta!» rispose Maglio mollandogli una pacca sulla spalla che quasi lo fece volare in terra. Mordraud si tirò su i pantaloni imbarazzato.

«E chi vi ha detto che sono stato io?! Potrebbe non…»

«Potevi essere solo tu!» lo interruppe Maglio.

«Ma ecco io…»

«Su forza non fare il modesto, hai soltanto fermato Lungo Inverno

All’esclamazione di Maglio seguì un boato che si alzò dalle truppe svaccate in festa.

«Devo riferire… devo parlare con Adraman!» gridò Mordraud per sovrastare gli ululati.

«Non c’è! È tornato a casa!»

Mordraud si ritrovò un fiasco davanti alla faccia. Qualcuno glielo rovesciò in gola. Vino ottimo, molto più buono del solito aceto che si beveva al campo.

«E questo? Avete imparato a fare il vino in mia assenza?» chiese pulendosi la bocca con la manica della casacca.

«Un regalo dei porci di Cambria! Avevano le tende piene, quei maiali ingrassati!» rispose uno dei soldati. Per un momento, Mordraud pensò di trovarsi di fronte Rosso in carne e ossa. Ma era solo un giovane che gli assomigliava molto.

«Adraman è tornato per avvisare Eldain della fine dell’inverno?» gridò a Maglio, mentre la folla li stava separando per continuare i bagordi.

«No! La sua mogliettina è gravida!»

Mordraud non riuscì a cogliere bene le sue parole. Oppure le aveva capite, ma avrebbe preferito non farlo.

«Cosa?!»

«ASPETTA UN FIGLIO!» urlò Maglio prima di tracannare la sua dose di vino dal fiasco. «ASPETTA UN EREDE!»

Mordraud sentì le gambe cedergli di schianto. Se non ci fossero stati i suoi compagni a reggerlo, sarebbe crollato a terra senza un gemito.

«Ehi capo, abbiamo appena iniziato! La serata è ancora lunga!»

Il vino sembrava piovere dal cielo, a secchiate. Poteva solo bere e bere, senza sosta. Un turbinio di mani lo stringevano, palpeggiavano, schiaffeggiavano con affetto. La musica era sempre più forte, e in tanti stavano già ballando, strafatti di vino. Cinque o sei baldracche si stavano dando da fare vicino a una tenda. L’odore di carne di porco si mischiava al profumo dolciastro delle erbe bruciate sui bracieri. Erbe che annebbiavano la vista, e rendevano folli.

«Deanna aspetta un figlio…» mormorò in una pausa compassionevole fra un fiasco e un altro. Lo trascinarono in una danza sfrenata, ma lui cadeva a ogni passo. E ogni volta, qualcuno lo rialzava buttandolo di nuovo nella mischia.

«Mordraud! Primavera!»

Deanna era incinta. Impossibile, perché lui, e solo lui, sapeva quante volte Adraman aveva tentato di avere un erede. Per anni. Decine, e decine di volte.

A meno che.

«Mordraud! Primavera!»

Deanna aspettava un figlio.

“Un figlio mio” pensò morendo dentro.

«Mordraud! Mordraud!»

“E nessuno lo potrà mai sapere.”

Il vino salì con la violenza di un pugno in faccia. Ma fu un bene. I soldati lo tennero su, gli infilarono la testa in un secchio d’acqua, lo fecero bere di nuovo. Ballare di nuovo. Mordraud non capiva più niente. L’accampamento sembrava precipitato in una battaglia furiosa. Urla, gemiti, lampi di luce rossa che salivano dai fuochi. Nubi di scintille a ogni ciocco di legna fresca che veniva gettato nei bracieri. «Come hai fatto?!» gli chiedevano tutti. «Come hai fatto?!» era l’unica cosa che ancora era in grado di cogliere da quella tempesta di voci fuori di senno. Si ritrovò senza neanche sapere come fra le braccia di una puttana, con i pantaloni calati, e tutti che urlavano intorno a lui. Sembravano belve.

“Come ho fatto?” pensò.

“Semplice. Me la sono scopata.”

Mordraud scoppiò miseramente a piangere.

 

***

 

«Abbiamo perso le retrovie.»

Dunwich non aspettava altro che sentire quelle dolci, melodiose parole. Quando aveva saputo che l’esercito si stava ritirando dal Terrapieno, i suoi sospetti avevano trovato una risposta. Le piogge erano terminate da qualche tempo, scacciate via dal sole tanto atteso. Le piante nei grandi giardini di Cambria avevano ripreso a fiorire. Tutta la città sembrava tornata al suo splendore, non più oppressa dal cielo grigio e gonfio di tempesta. Non poteva essere un caso.

I cantori avevano fallito. I ribelli erano ancora vivi e vegeti, e soprattutto, fuori di senno dalla fame.

Fu convocato un concilio generale, e Dunwich non era mai stato tanto felice di poter partecipare. Voleva sentire le ultime novità, vedere la faccia di Loralon contrarsi dalla rabbia, sentire la vergogna scorrere a fiumi nella sala delle udienze. Quella manica di incompetenti se lo meritava, eccome. E le sue aspettative non furono tradite.

L’Imperatore sembrava sul punto di scoppiare. Bianco di cenere, con le guance iniettate di sangue in modo grottesco, aveva ascoltato i resoconti della fuga precipitosa, della cocente sconfitta sul campo di battaglia che un pugno di ribelli cenciosi e affamati aveva arrecato al più massiccio esercito del continente, e non aveva aperto bocca. I grandi maestri dell’Arcana si erano fatti piccoli nelle loro camicie strette e scure, e ascoltavano in silenzio. Asaeld aveva lasciato ai comandanti di battaglione la simpatica incombenza di riferire tutto, e se ne stava comodamente seduto sulla sua poltrona, senza mostrare particolare paura o dispiacere. In fondo, Dunwich sapeva che Asaeld era dalla sua parte. Entrambi avevano sempre creduto che Lungo Inverno fosse una colossale idiozia. Loralon lo aveva sicuramente costretto ad appoggiare l’Arcana, ma lui non poteva permettersi di esternarlo. Questione di posizioni, ovviamente.

«Come hanno fatto?»

I portavoce dell’esercito restarono in silenzio, in preda all’imbarazzo più totale. Avevano già spiegato nei minimi dettagli come si fosse giunti a un fallimento così imprevisto. I soldati non erano pronti a dover difendere, ormai avvezzi solo a punzecchiare il nemico per poi indietreggiare. Ogni tentativo di arroccarsi e difendere il campo era stato portato avanti in maniera sconclusionata. I cavalieri erano inutili in quel terreno marcio e paludoso. La fanteria degli alleati era determinata, incattivita da mesi di sofferenze indicibili. La loro motivazione era stata l’arma vincente di Eldain. Ma l’Imperatore non sembrava voler sentire scuse. Per lui, esisteva solo il risultato. Una cocente, imprevedibile e vergognosa sconfitta.

«Mi avevate assicurato che il coro sarebbe stato in grado di reggere Lungo Inverno per tutto il tempo che avessimo voluto. Perché si sono fermati?»

«Non lo sappiamo con certezza…» tentò di spiegare il delegato dell’Arcana, un giovane cantore mandato apposta al macello dai vecchi maestri, che volevano tutto fuorché bruciarsi la carriera con quel fallimento. «Le Lance inviate a controllare hanno riferito di una battaglia. Gli uomini di Eldain hanno trovato un modo per individuare il nostro covo, probabilmente per colpa di qualche fuggiasco passato troppo nei pressi della villa. Comandante Asaeld, confermate?»

«Confermo, mio signore» rispose prontamente lui. «È stata una tragica fatalità.»

«Ma mi avevate detto che i ribelli non possedevano cantori, non conoscessero l’uso delle armonie…»

«Ecco… vedete…» balbettò il giovane delegato dell’Arcana.

«CHI HA AVUTO L’IDEA?! VOGLIO SAPERE CHI È STATO!»

Fra i cantori assiepati dietro di lui si levò istantaneamente la stessa risposta.

«Dunwich, delle Lance! È stata un’idea sua!»

Asaeld trasalì, insieme a tutte le altre Lance presenti al consiglio. Dunwich invece sospirò di noia. Era tutto così ovvio. Si aspettava quella conclusione dal primo giorno di Lungo Inverno.

«Chiedo la parola, signore!» disse alzandosi in piedi. Ma in tanti furono più veloci di lui.

«NON POTETE DIRE QUESTO!» urlò una Lancia alle sue spalle. «CANI MISEREVOLI! CODARDI!» gridò un altro. Asaeld si voltò verso i suoi uomini tentando di quietare gli animi, ma nessuno badava alle sue parole. Era stata toccata una corda molto, troppo sensibile.

«Fate parlare me, ragazzi! Calmatevi!»

«Capitano, non dovete cedere!»

Uno dei cantori anziani uscì dal gruppo e si avvicinò all’Imperatore. Dunwich lo riconobbe subito. Era Raelin, il rettore dell’Arcana in persona. Si strofinava le mani con sguardo mesto, servile oltre ogni vetta di decenza. La sala era in subbuglio. L’esercito intero era con le Lance, come sempre. I cantori avevano il supporto dei consiglieri di Loralon, degli strateghi, dei funzionari. Asaeld si ergeva in mezzo alla bufera di insulti che piovevano da ogni parte agitando le braccia verso i suoi uomini. Lui e Dunwich sembravano gli unici ad aver mantenuto ancora un minimo di compostezza.

«SILENZIO! SILENZIO!» chiese a gran voce l’araldo, ma senza successo. Raelin stava confabulando con Loralon, da solo. I cantori si erano spostati di fronte al trono e stavano facendo muro contro i delegati dell’esercito. Le Lance si erano pericolosamente avvicinate ai maestri, alcune con la mano sull’elsa della spada. Dunwich tentò di raggiungere il trono per dire la sua, prima che Raelin rovinasse tutto, ma la strada era bloccata. Seneo, il suo primo insegnante, l’uomo che lo aveva portato a Cambria da bambino, stava uscendo dalla sala in tutta fretta. Dunwich non riuscì a capire se dovesse esserne felice o meno. Si stava vergognando dei suoi, oppure aveva paura che la colpa di tutto ricadesse su di lui, il tutore giovanile della Lancia incriminata? Lasciò perdere, pressato da problemi ben peggiori.

Fu proprio in quel momento che vide Asaeld sussurrare qualcosa a occhi socchiusi.

Nient’altro che un istante, ma per Dunwich fu più che sufficiente per capire. Asaeld aveva trovato e ghermito al volo una risonanza. Quale fosse però, lui non poteva saperlo. Intorno a loro la situazione si stava lentamente sgonfiando. Raelin si era allontanato, insieme ai suoi cantori. Le Lance si erano accalcate ai piedi del trono gridando e ribadendo l’innocenza del loro capitano, e Dunwich si stupì di quella manifestazione di affetto nei suoi confronti. Sapeva di essere ben considerato fra i suoi uomini, ma non fino a quel punto. Restò sconvolto di fronte ad alcune inaspettate esternazioni delle Lance più giovani, che erano anche le più infuocate: il predestinato, l’immortale, la vera Lancia, erano tutti appellativi che i soldati gli avevano affibbiato.

“Forse per quella volta che mi hanno quasi ammazzato col veleno…” si chiese stupefatto “ma qualcuno deve aver esagerato con i racconti su come è andata…”

«Tornate tutti ai vostri posti!» disse a gran voce Loralon, sbattendo freneticamente a terra il lungo scettro di legno e ferro. Asaeld riuscì a contenere gli uomini, e così Raelin con i suoi. La sala ritornò alla calma, ma l’aria era ancora molto tesa. Dunwich aspettava in piedi un verdetto, pronto ad accampare una scusa qualsiasi.

«Il Gran Maestro mi ha spiegato tutto. L’idea è stata sua, e sempre lui è il diretto responsabile di come Lungo Inverno sia stato sviluppato. L’altro colpevole si chiamava Nector, ma è morto per mano dello squadrone ribelle che ha spazzato via il coro.»

Dunwich stava per ribattere, assolutamente convinto di aver sentito tutt’altro uscire dalla bocca dell’Imperatore. Raelin che si prendeva la colpa. Impossibile, incredibile. Non aveva alcun senso.

«Dopo il consiglio parlerò con lui e Asaeld in privato, per valutare se e come sollevare il Gran Maestro dal suo incarico.»

Loralon sembrava più tranquillo, e parlava con voce sicura. Trovare un colpevole era tutto quello che desiderava. Se fosse stato per lui, probabilmente la riunione sarebbe dovuta finire lì, dopo aver assegnato una bella punizione esemplare a chi di dovere. Ma gli argomenti erano ancora tanti, e tutti spinosi.

«Passiamo oltre. Dobbiamo preparare i piani per i prossimi attacchi al fronte» esclamò con enfasi, sorridendo sornione. La classica espressione che l’Imperatore di Cambria mostrava quando credeva di aver compiuto un gesto di grande lungimiranza.

Asaeld prese la parola. A Dunwich non sfuggì il fiato leggermente appesantito, tipico di uno sforzo armonico mascherato alla meno peggio. Asaeld doveva aver fatto qualcosa di grosso. Gli balenò l’idea bislacca che potesse aver parlato nella mente con Raelin, ma la abbandonò subito. Anche se lo avesse fatto, e dubitava che una Lancia potesse padroneggiare una simile abilità, per quale motivo il Gran Maestro avrebbe dovuto mettere a repentaglio la propria strepitosa carriera? Cosa avrebbe potuto proporgli Asaeld per convincerlo? Ipotesi senza alcun senso.

«Voglio che il fronte venga al più presto messo sotto attacco. È necessario non dare tempo ai ribelli di riorganizzarsi!» ordinò Loralon.

«Abbiamo deciso di ripiegare dal Terrapieno per diverse ragioni, mio signore… non soltanto per sfuggire a ulteriori attacchi.»

L’espressione compiaciuta di Loralon perse improvvisamente smalto, e Dunwich colse chiaramente il motivo. Lui non aveva dato ordini se non attaccare, attaccare, attaccare.

«E… quali sarebbero queste ragioni?!»

«Prima di tutto…» Asaeld si avvicinò allo scranno alzando il tono della voce «i nostri uomini avevano bisogno di rifiatare.»

«Ne abbiamo tanti di soldati. Possiamo utilizzarli a turno… cosa che Eldain non può permettersi.»

«Beh… è proprio qui che sta il problema…»

Loralon si sporse dal trono accigliandosi. «Vorresti dire che stiamo finendo gli uomini a disposizione?!»

Molti in sala mormorarono con disappunto. Finendo era proprio una brutta parola da usare quando c’erano di mezzo degli onesti uomini di Cambria. Dunwich scosse la testa affranto. Loralon era assai scadente come oratore.

«No, ma i focolai da tenere sotto controllo sono aumentati a vista d’occhio.»

«Non capisco esattamente…»

Asaeld continuò senza mostrarsi turbato dalla poca perspicacia mostrata dall’Imperatore. «Nei protettorati di Essar a Sud e Nelaria a Nord, sono scoppiati tafferugli fra la popolazione e le gendarmerie. Sapete, Cambria ha preteso, e continua a pretendere molto cibo per sostenere gli eserciti impegnati al fronte…»

«Non capisco dove sia il problema. Abbiamo sempre preteso una percentuale dei raccolti!»

«Ecco… i raccolti… diciamo che sono stati un po’ più scarsi del previsto… e qualcuno ha ordinato agli esattori di ripulire i magazzini dei protettorati, scorte comprese.»

«Bah!» Loralon agitò la mano stizzito. «I contadini si lamentano sempre, e intascano tutto quello che possono… se gli esattori dovessero credere alle loro fandonie ogni volta…»

Asaeld parlò a voce talmente alta che tutta la sala poté sentire perfettamente ogni sua parola.

«Forse non sono stato abbastanza chiaro, signore… non abbiamo avuto raccolti, quest’anno.»

«CHE COSA?! IMPOSSIBILE!» gridò Loralon. La sala rumoreggiava sempre di più, in un crescendo di disappunto collettivo.

«Non ricordate? Abbiamo armato i contadini per arginare il problema delle bestie randagie, poi sono arrivati gli sfollati di Eld… inoltre, non ha mai smesso di piovere per mesi. I campi sono marciti, fra l’acqua e l’incuria.»

«PERCHÉ NON SONO STATO TENUTO AL CORRENTE?!»

Fra i consiglieri di corte sembrò cascare un macigno dal tetto. Neppure loro erano a conoscenza di una situazione così allarmante. Gli esattori erano militari, per cui riferivano direttamente al comandante dell’esercito. Asaeld, appunto.

«Ho provveduto a inviare regolari comunicazioni, come sempre. Si vede che qualche burocrate ha svolto male il proprio lavoro.»

«Mio signore, posso dire con certezza di non aver mai ricevuto notizie simili…» tentò di dire il cancelliere, un vecchio alto e asciutto chiamato Parro. Una persona molto rispettata, che svolgeva quell’incarico da più di trent’anni. Aveva il compito di gestire le missive in arrivo dai quattro angoli dell’impero. Dunwich aveva lavorato insieme a lui in diverse occasioni, e gli era sempre sembrato un brav’uomo, dedito alla causa e molto puntiglioso.

«Non avrei voluto parlarne proprio durante il consiglio, ma…» Asaeld sfilò da una tasca interna del suo mantello un rotolo di pergamene chiuse da un legaccio di cuoio. Ne srotolò una e la depose sulle gambe di Loralon, che l’afferrò e la lesse lentamente. Il cancelliere, che era in piedi al suo fianco, sbiancò paurosamente.

«Questa non è la tua firma, Parro?!»

«Signore, io non ho mai visto questi documenti! Dovete credermi!» balbettò il vecchio cancelliere. Asaeld si voltò verso la sala e mostrò un’altra pergamena alle prime file.

«Mi sono permesso di mandare alcuni uomini a spulciare i registri personali di Parro. Hanno trovato questi…» Asaeld sfogliò uno a uno i documenti. Decine di pergamene scritte di suo pugno, marchiate dal sigillo delle Lance e firmate da Parro. Come se non bastasse, ognuna recava il sigillo imperiale in ceralacca, che solo lui e l’Imperatore potevano avere e usare.

«Asaeld, sei proprio sicuro di aver trovato tutto questo nei registri del cancelliere? L’accusa che muovi è molto grave…»

«Mio signore, ne sono certo. Come sono sicuro che all’interno della corte, si annidino i traditori che hanno ordito tutti gli attentati verso le mie Lance.»

Il mormorio della sala divenne un boato sconclusionato e rabbioso. Parro era stato accusato di tradimento, da Asaeld in persona.

Dunwich non poteva credere a quello che stava succedendo. Il comandante delle Lance era al di sopra di ogni sospetto, ovviamente. Ma anche la fede più incrollabile poteva vacillare.

“Parro… un traditore? L’uomo più vicino all’Imperatore, così vecchio da aver lavorato anche con il padre di Loralon?”

Se non fosse stato Asaeld a dirlo, forse nessuno avrebbe mai creduto a un’accusa tanto assurda.

«Loralon, sono innocente! Non puoi credere davvero a una cosa simile!» sbraitò il vecchio cancelliere, con gli occhi che guizzavano terrorizzati su tutta la sala. «TI CONOSCO DA QUANDO SEI NATO!»

Asaeld abbassò lo sguardo mestamente, raccogliendo le mani dietro la schiena. «Mio signore, è un brutto colpo, lo so… ma le prove sono inconfutabili.»

Loralon guardò prima uno, poi l’altro, in preda a una deprimente confusione. I consiglieri parlavano con lui accavallandosi fra loro, gli strateghi si tenevano le grandi mappe strette al petto imbarazzati a morte.

Dunwich si alzò e afferrò il braccio di Asaeld sussurrandogli inviperito. «Perché non mi hai detto niente?! Quando hai dato l’ordine di perquisire i suoi alloggi?»

«Osi dubitare di me, ragazzo mio?» rispose Asaeld con estrema severità.

«No… non lo so…» rispose Dunwich sconcertato dagli occhi del suo comandante. Come poteva non fidarsi di lui, dopo tutto quello che avevano passato insieme? Dunwich si sentì uno stupido e mollò la presa.

«Allora tornatene a sedere, ne riparliamo dopo.»

Loralon si alzò agitando le braccia per richiamare l’attenzione della sala, che si azzittì di colpo. Aveva la faccia paonazza e il respiro affannato, come dopo una lunga corsa. Scegliere fra la verità di Asaeld e quella di Parro lo stava uccidendo.

«Fate ricontrollare i registri, e chiamate un esperto di calligrafia. Per ora, scortate il cancelliere in cella. Non perdetelo di vista neppure un istante, siamo intesi?»

I suoi consiglieri scattarono come molle e sparirono dalla sala. Il caos era tale da rendere impossibile ulteriori dibattiti. Ma Asaeld doveva ancora ricevere ordini precisi su come muoversi dopo la fine di Lungo Inverno.

«Organizzate le squadre per sedare le rivolte nei protettorati! Per gli Dei, Asaeld, puoi pensarci anche tu! Adesso sono troppo angosciato per continuare!»

«Come desiderate, mio signore. Ci penso io.»

Asaeld si ritirò fra i suoi uomini e ordinò a tutti di abbandonare la sala. Parro fu prelevato da due gendarmi e trascinato via senza che potesse minimamente opporsi.

«Lancia maledetta! Figlio di una cagna!» urlò lui, sbavando e scalciando. Uno dei soldati, senza che Loralon lo vedesse, gli sbatté il guanto di ferro in piena bocca, facendogli saltare via un paio di denti.

«Questo è per i nostri che hai tentato di ammazzare… il resto te lo diamo più tardi.»

Dunwich se ne andò al seguito di Asaeld, con la strana sensazione che qualcosa fosse andato storto. Non riusciva a togliersi dalla mente il pensiero che Asaeld si stesse sbagliando, e che si comportasse in quel modo per un eccesso di zelo. Aveva visto i suoi uomini morire per mano dei traditori, e tanti altri erano caduti al fronte seguendo ordini lacunosi e inconcludenti. Poteva aver preso un abbaglio rispetto a Parro. Erano giorni difficili, con i ribelli che avevano trovato Lungo Inverno e la sconfitta al Terrapieno.

Poteva essersi sbagliato, pensò Dunwich a cavallo fra domanda e risposta.

«Non stai esagerando, Asaeld? Hai messo alla gogna il cancelliere!»

«Che sia chiaro una volta per tutte, Dunwich…»

Asaeld lasciò andare avanti il gruppo e si fermò di fronte a lui, poggiandogli le mani sulle spalle. Il suo sguardo era meno duro, e più addolorato di quanto Dunwich si aspettasse. Quelli erano gli occhi di un uomo che stava soffrendo atrocemente per le sue scelte.

«Devi fidarti di me. So quello che faccio.»

«Va bene…» rispose Dunwich, schiacciato dalla maestosità di Asaeld.

«Non dubiterò più.»

 

***

 

Deanna aveva accusato i primi sintomi pochi giorni dopo aver letto la lettera di Adraman. Era ancora pieno inverno, e non aveva pensato che fosse il caso di preoccuparsi. Mangiava talmente poco e male che poteva essere qualsiasi cosa ad averle causato quei dolori e quelle nausee orrende. Non lo aveva detto a nessuno, meno che mai a Adrina. Quella vecchia bisbetica non avrebbe fatto altro che tormentarla. Invece lei voleva restarsene da sola, chiusa nella sua stanza. E nient’altro.

Ironia della sorte, quella maledetta notte aveva fatto l’amore con entrambi. L’ultima e unica notte che Mordraud aveva passato a casa. Da tempo aveva perso la decenza di vergognarsi, soffocata dal bisogno incancellabile di perpetrare i suoi errori, di rompere la noia che era nata con lei e non l’abbandonava mai. Un tedio supremo e logorante come l’acido. Se almeno non si fosse concessa a Adraman, lui avrebbe subito capito tutto. E lei sarebbe stata libera di vergognarsi, di smuovere la sua vita intrappolata nelle paranoie che si era creata con le sue stesse mani. Così, invece, Adraman poteva illudersi che fosse veramente figlio suo. Come se fosse realmente possibile, contro ogni buon senso. Lui aveva provato per anni a ingravidarla senza successo. Che fosse a causa sua e non di Adraman, Deanna non lo aveva mai pensato. Nel suo intimo, la colpa non poteva che essere di suo marito. E ora ne aveva la prova.

Peccato che nessuno potesse conoscere la verità.

Deanna si sentiva una merdosa vigliacca. Se solo avesse avuto il pretesto di uscire allo scoperto, allora si sarebbe liberata da un castello di colpe. Ma quando aveva visto Adraman tornare a casa in tutta fretta, ebbro di gioia al punto da morirne, anche la minima scintilla di amor proprio si era spenta. Non avrebbe detto niente, continuando la sua vita come se nulla fosse. Era molto brava in quello, o almeno credeva.

L’idea di partorire la terrorizzava atrocemente.

Cosa doveva fare, aveva pensato. Dentro di lei si agitava un’altra vita, il frutto di tutti i suoi difetti, dei suoi errori. Un condensato delle sue debolezze più sordide. Un mostro che si sarebbe incarnato nel corpo di un erede indegno. Arrivò a pensare a quelle storie che le vecchie del paese raccontavano fuori dalla porta di casa, di erbe maligne e lunghi ferri acuminati, ed evitò di approfondire l’argomento solo perché temeva di lasciarci la pelle. Un altro punto a favore della sua codardia. L’unica sua speranza era che Mordraud non si facesse vedere. Sapeva che lui avrebbe capito tutto, e lei non sarebbe stata in grado di reggere le follie che lui le avrebbe proposto. Scappare via insieme. Dire finalmente la verità. Dichiararsi innamorati di fronte a Adraman. Tutte cose degne di una favola, non certo della vita vera. Non c’era un lieto fine in quella storia. O almeno, Deanna non lo vedeva da nessuna parte.

La primavera era finalmente arrivata, ma non era come tutti l’avevano tanto sognata. Superata la breve euforia iniziale, divenne tristemente chiaro che non sarebbe stato possibile lasciarsi quell’anno orrendo alle spalle, come se non fosse mai esistito. Era morta troppa gente, e molta ancora sarebbe dovuta morire per le malattie, la fame e le ferite patite nei lunghi mesi di gelo. La terra era stata stuprata tanto a fondo che non dava più frutti, se non qualche ciuffo di erba aspra e stopposa. I pochi alberi sopravvissuti buttarono fuori le gemme ai primi venti tiepidi, ma fu come il loro ultimo saluto al cielo. Le radici erano compromesse, lo sforzo di rifiorire le ammazzò definitivamente. Di animali, neanche il ricordo. Ovunque, a perdita d’occhio, Eld era un pezzo di roccia fradicio, abbandonato in mezzo a un acquitrino infestato di carcasse putrescenti.

Contro ogni previsione, Adraman non partì come al solito dopo qualche giorno di riposo. Eldain gli aveva chiesto di restare al feudo per mantenere l’ordine con la sua guardia personale. Un’idea lungimirante. Il popolo aveva bisogno di tutto, compreso di un cane da guardia che tenesse d’occhio quelli che avevano perso la testa. Scoppiarono diversi focolai di rivolta, tutti solo ed esclusivamente per il cibo. I contadini furono letteralmente spinti a tornare nei campi a tentare di salvare il salvabile, mentre frotte di cavalieri dovevano difendere i carri che giungevano dalle regioni dell’Est alleate alla causa. Ogni giorno qualcuno si ammazzava per mettere le mani su una razione di pane o di riso. Deanna viveva reclusa in casa, circondata dai domestici in assetto da guerra, armati di bastoni e scope. Lungo Inverno era finito, ma si era lasciato alle spalle tutto il peggio possibile.

Adraman odiava quel compito. Si sentiva morire ogni volta che doveva ingabbiare qualcuno per un crimine che, in tempi migliori, non sarebbe mai esistito. Deanna conosceva abbastanza bene suo marito per sapere che la sua permanenza a casa, con quell’orrendo lavoro da svolgere ogni giorno, sarebbe stata una lenta e snervante sofferenza. Invece, le sue previsioni vennero fugate dalla straordinaria vitalità che Adraman aveva tirato fuori da quando aveva saputo di aspettare un erede. Non sembrava più lui. Non alzava mai la voce, sorrideva a ogni sua parola, la coccolava e la accudiva senza pretendere nulla. I primi mesi, Deanna continuò con il suo solito atteggiamento insofferente e caustico, ma Adraman sembrava in grado di reggere ogni infamia. E sorrideva, come non aveva mai fatto prima. Lentamente, anche lei iniziò a cedere.

Non aveva mai avuto in casa suo marito per così tanto tempo, neppure i primi tempi dopo il matrimonio, quando era ancora poco più che una bambina. Tante volte si era detta che avrebbe tentato prima o poi di rimettere in piedi la sua vita, ma ogni volta i suoi propositi venivano spazzati via dal suo ego. Con Adraman vicino tutti i giorni, Deanna si rese conto che forse poteva davvero farcela.

I propositi però non andavano di pari passo con il suo umore. Non tutti i giorni erano buoni, anzi, per la maggior parte del tempo, doveva lottare con il pensiero di avere in grembo il figlio di un altro. Una constatazione che le appesantiva il ventre, che rischiava ogni volta di farla affondare di nuovo nella depressione. Ma lottava, provava a resistere, come non aveva mai tentato di fare prima.

Tutto quello che le serviva, era che Mordraud se ne stesse lontano. Pensava a lui, lo desiderava, e tante mattine si svegliava con il sogno malsano di guardare al suo fianco e di trovare lui, al posto di Adraman. Ogni volta che sentiva i calci di suo figlio dentro di lei, pensava a Mordraud, e sperava con tutto il cuore che avesse i suoi occhi verdi, la sua bocca, i suoi capelli.

Sapeva però di non potersi più permettere di vederlo. E giurò a se stessa che non sarebbe tornata indietro.

Mai più.

Mordraud, Libro Primo
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