XXVI

 

 

 

 

 

 

 

«Berg è messo male.»

Adraman sentì la terra sparirgli sotto i piedi. Aveva viaggiato giorno e notte per colmare le settimane di distanza da Hannrinn il più in fretta possibile, solo per portare a Eldain la notizia del suo successo. Un capolavoro diplomatico insperato, soprattutto da parte sua. Non era mai stato molto abile a seguire i complicati meccanismi della diplomazia, ma l’emergenza lo aveva reso più scaltro di quanto si aspettasse da se stesso. Per quanto la situazione sembrasse disperata, aveva guadagnato qualche mese prezioso.

Ma non si sarebbe mai aspettato di ritrovare Eldain ridotto in quello stato.

Berg era steso sul letto, madido di sudore e tormentato da dolori insopportabili. Fuori dal tendone era un freddo impressionante, ma dentro non se la passavano di certo meglio. Sembrava in preda a un fuoco che stava consumando la sua carne dall’interno. La ferita alla spalla era nerastra e gonfia, e Adraman aveva abbastanza esperienza da capire che la sua condizione era appesa a un filo. Ma era preoccupato soprattutto per Eldain.

Sembrava un morto che si ostinava a stare in piedi.

Il volto aveva perso ogni accenno di colore, grigio come la cenere dei suoi capelli e degli occhi un tempo azzurri. Le guance sembravano scavate da un cucchiaio. Curvo sul letto di Berg, con le mani strette nelle sue, avrebbe potuto tranquillamente essere scambiato per un malato grave, come tutti gli altri. Respirava con affanno, e faticava a tener dritta la schiena. L’inverno lo stava uccidendo, come un albero dalle radici sempre più ghiacciate.

«Devi tornare a Eld» disse Adraman afferrando le spalle dell’amico «hai bisogno di un po’ di riposo.»

«Ah sì?!» rispose annuendo mestamente «e tu, invece?»

«Io sto bene, ora.»

Adraman mosse la gamba ancora fasciata e alzò il bastone con cui si aiutava a camminare. L’osso era quasi del tutto a posto, e sebbene non potesse permettersi ancora di correre o saltare, il peggio sembrava passato.

«Forse perché non ti sei guardato bene in faccia.»

Eldain prese un piccolo specchio che era appeso a una trave della tenda e glielo sbatté di fronte. «Neanche tu sei il massimo della bellezza.»

Adraman guardò sconcertato la pelle del suo volto raggrinzita e biancastra, solcata di rughe e di segni rossi dovuti al freddo. Non si osservava da un mucchio di tempo. D’altronde, aveva avuto ben altro a cui pensare.

«Dev’essere colpa della mancanza del sole. È una vita che non lo vedo spuntare fuori dalle nubi.»

«Non solo… anche tu sei stanco, come me… come tutti.»

Eldain aveva ragione solo in parte. Adraman non era in gran forma, ma lui era di gran lunga messo peggio. Il suo respiro era un raschio ruvido, gli occhi di cenere iniettati di un brutto giallo spento. Ma sapeva già quanto fosse inutile tentare di convincerlo.

«Com’è successo?» chiese Adraman indicando il povero Berg.

«Durante un attacco. Sono riusciti a superare il Terrapieno.»

«Ma… come…» balbettò incredulo. Era ormai abituato alla strategia di Cambria. Punzecchiarli, prenderli per sfinimento, era quella la solita tattica dell’impero. Il Terrapieno era rimasto inviolato per anni, all’apparenza inespugnabile.

«Una Lancia ha guidato un’incursione, e hanno usato il canto. Risonanze terribili. Hanno fatto molti danni, oh se ne hanno fatti…»

Eldain prese di nuovo le mani di Berg, che sussultò su un letto di sudore. «Se non fosse stato per lui, ne avrebbero potuti fare molti di più.»

«Le Lance non hanno mai osato tanto! Cambria ha troppa paura di perdere i suoi uomini migliori!»

«È stata una sorpresa per tutti, credimi. Siamo ancora impegnati a rattoppare tutto quello che hanno incendiato con i loro fottuti canti…»

«Quando è successo?! Hanno tentato di nuovo?»

«No, per fortuna. Il primo e ultimo attacco diretto al Terrapieno è stato due settimane fa.»

Adraman rifletté un momento su quella novità incredibile. Non ricordava un azzardo simile da parte di Cambria da anni, tanti da non riuscire neppure a contarli. L’impero aveva sempre portato avanti una strategia lenta e logorante, a tratti anche sconclusionata, ma sempre perlopiù attendista. Gli attacchi brutali al fronte si contavano sulle dita di una mano in dieci anni, e sempre in grande massa, senza fini strategie. Faceva eccezione la notte dei Fuochi, ma anche in quell’occasione, l’impero aveva usato i propri uomini come arieti di carne umana, compatti e fiduciosi solo della loro debordante superiorità numerica.

Non era il solo punto oscuro di quella situazione. Non avevano mai scoperto chi e perché avesse deciso di avvisarli dell’imminente attacco di quella notte. Adraman ne era venuto a conoscenza grazie a una soffiata di un fante, un soldato semplice che era fuggito dal grosso delle truppe e li aveva raggiunti nel campo a Sud. Senza di lui, il Terrapieno non avrebbe mai potuto reggere.

Era un segreto che conoscevano soltanto lui ed Eldain. E il motivo era semplice. Non avevano mai compreso il reale scopo dietro quell’insperato aiuto. Se fosse stato qualcuno dall’interno di Cambria, o magari una frangia dell’esercito che aveva intenzione di provocare un cambio al vertice. Non lo sapevano, per cui preferivano non divulgare la notizia.

L’impero si stava comportando in modo assolutamente imprevedibile. Quell’improvvisa fiammata sembrava qualcos’altro. «Un colpo di testa di uno dei capitani delle Lance. Qualcuno che si è stancato di perdere tempo» concluse Eldain.

«Il messaggio è chiaro» continuò «loro possono sfondare le nostre linee quando vogliono. Devono solo mettersi d’impegno e fare la cosa giusta. Hanno il canto dalla loro, sono più riposati di noi, e hanno tre o quattro volte i nostri uomini. Forse anche di più.»

«Perché allora non lo fanno?»

«Se lo sapessi, non sarei così in ansia.»

«Speriamo che sia stato soltanto un loro errore… e che continuino a considerarlo come tale» mormorò Adraman «se venissero a sapere quanto male sono stati in grado di farci con un pugno di uomini, per noi sarebbe la fine.»

«A proposito di fine…» Eldain lo guardò con occhi insolitamente rassegnati, sconfitti «cosa hanno detto i Rinn? Ci hanno venduto?»

«No!» Adraman sorrise, solo per cercare di tenergli alto il morale. «Ho guadagnato qualche mese… più o meno fino alla prossima primavera.»

«Quale primavera?! Esiste ancora la primavera?» sibilò sarcasticamente Eldain.

«Mordraud ce la farà, vedrai!»

Adraman avrebbe voluto essere convinto di quello che diceva, ma in realtà non lo era affatto. Tutti i loro piani, le loro speranze, poggiavano su una sottile lastra di argilla. Mordraud e suo fratello. Aveva acconsentito a quella buffonata solo per prendere tempo, per dare speranza a chi era tanto disperato da crederlo possibile. Due, contro il piano imperiale di Lungo Inverno.

«Ti ricordi come è fatto il sole?» chiese Eldain tornando a sedersi vicino a Berg, che lottava contro il dolore dimenandosi inutilmente. Adraman non riuscì a rispondere.

«Io non me lo ricordo più.»

 

***

 

Deanna stava aspettando che Adrina tornasse dalla perlustrazione. Osservò dalla finestra del suo salotto il cortile sul retro della villa, nella speranza di vederla apparire oltre il cancello semiaperto. I domestici avevano scavato un passaggio nella neve per raggiungere la strada, ma si erano arresi quando si erano trovati di fronte a un impressionante muro bianco fra il cortile e le pareti delle case. Nessuno aveva più spalato quel tratto da settimane. Adrina si era dovuta arrampicare sulla neve fino a raggiungere le falde dei tetti.

Deanna strinse la coperta sulle spalle e prese la tazza fra le mani. Si era già raffreddata. Aveva rinunciato al camino in camera per conservare la legna. Veniva usata solo nella stufa di ghisa in cucina. Non dormiva più da sola, aveva accettato di passare la notte insieme alla servitù, per terra, a fianco del tavolo dove Adrina preparava la cena. Il resto della casa era una ghiacciaia allucinante. Fuori, il vento slabbrava la pelle. Il colore del cielo era di una tristezza infinita. Le veniva voglia di piangere ogni volta che metteva il naso fuori dalla finestra.

Non si vedevano alberi da nessuna parte. I campi erano un mare bianco. Le mura sembravano ridicole strisce di pietra in cima ai cumuli, ammassati quando ancora la gente di Eld si era data da fare per tenere pulite le strade. Quella voglia di reagire era finita da un pezzo. Come anche la cordialità e la speranza.

Due servi non erano tornati a casa, il giorno prima.

Erano usciti per cercare un po’ di legna. Ma l’unico modo per trovarla era intrufolarsi nelle dimore dei morti, sperando che non fosse stata già tutta consumata. Gambe di tavoli, sedie, travi del camino, assi delle pareti. Molte famiglie morivano di freddo prima di avere il tempo di spolpare del tutto le loro poche cose. I suoi domestici avevano già fatto razzia un paio di volte. Senza correre rischi, imbattendosi soltanto in cadaveri mummificati dal gelo, stretti insieme in un pietoso abbraccio sui letti padronali. Ma la terza uscita doveva essere stata fatale.

Deanna distolse gli occhi dal cortile per non immaginarsi la scena.

Gli altri due ragazzi erano malati. Una febbre che lasciava poche speranze. Il resto della servitù erano due vecchi che un tempo avevano il compito di curare un fazzoletto di terra fuori dalle mura di sua proprietà. Adrina, sebbene fosse anziana quanto loro, era l’unica in casa ad essere ancora sufficientemente in forze per uscire. Avevano ancora qualche conserva in cantina, ma lei sperava di trovare della carne. Soprattutto per i due ragazzi febbricitanti. Deanna mangiava pochissimo, e non pretendeva nemmeno di farlo. Si era spenta, raffreddata come la pancia vuota di una stufa in disuso. Non sapeva più nulla di Adraman. Meno ancora di Mordraud. Era da sola. Aveva scoperto quanto odiasse profondamente esserlo, al punto di rimpiangere sinceramente suo marito. La sicurezza involontaria che lui era in grado di trasmetterle.

Mordraud invece apparteneva ai rari momenti in cui ancora sognava.

Dormire in cucina non era tanto male. All’inizio si era sentita depredata della sua autorità in casa. Ma sentire i respiri degli altri, i fruscii delle loro coperte, la aiutava a non farsi prendere dal panico. Non riusciva più a dormire da sola. Era troppo freddo, dentro di lei. L’inverno riusciva a scacciarlo con le coperte. Ma la solitudine era insopprimibile, un male morboso che la stava uccidendo. Era dimagrita, non si truccava più. Adraman, con i suoi stoici e stupidi tentativi di riconquistarla, l’aveva sempre fatta sentire desiderata. Il modo in cui Mordraud la guardava, le dava il senso di se stessa. Le permetteva di considerarsi ancora viva.

Aveva il terrore folle di addormentarsi una notte, con il rombo della bufera oltre il tetto, e di non svegliarsi più. Di morire e di accartocciarsi in terra, come i cadaveri che aveva visto apparire fra i badili di chi scavava per liberare le strade. Non voleva essere trovata in quel modo da Mordraud.

O da Adraman. Si sentiva confusa quando non aveva Adrina vicino, che le parlava incessantemente di quello che andava fatto per sopravvivere. Battere i piedi. Tenersi puliti per non doversi lavare. I capelli bagnati potevano essere letali. Dormire poco e spesso.

Lei, senza qualcuno che la guidasse, si sentiva naturalmente persa.

Uscì dal salotto e scese le scale lentamente. Altro consiglio, quello di non fare mai mosse azzardate. Il freddo indeboliva le ossa. Rompersi una caviglia equivaleva a tentare il suicidio. Ma a metà della discesa, sentì la porta aprirsi nell’androne e si fermò di colpo. Adrina era passata dal retro. Davanti, gli ultimi a uscire erano stati i due poveri ragazzi morti il giorno prima. Deanna si acquattò sui gradini e sbirciò di sotto, fra la ringhiera della scala.

Per un attimo, quando vide i due uomini, ebbe la tentazione di scagliarsi di sotto per abbracciarli. Erano tornati a casa, finalmente. Le gambe sommerse dalla neve che era ruzzolata dall’uscio aperto.

Ma fu solo un momento di inutile speranza. Quei due erano sconosciuti del paese. Uno più alto, l’altro magro e basso. Facce scavate e occhi appesi alle palpebre. Si scrollarono meccanicamente la neve dai capelli e presero a guardarsi intorno.

Deanna si sentì schiacciare dal terrore sul gradino gelido.

Non dissero una parola. Si guardavano soltanto intorno. Aggrottavano la fronte come se non vedessero bene dove fossero. Erano spaventosamente luridi. Quello alto si avventò ciondolando su una sedia, all’angolo della scalinata che saliva da Deanna. Alzò il cuscino e lo strinse fra le dita. Lo annusò. Come se si stesse chiedendo se si potesse mangiare. Tentò di sollevare la sedia con una mano. Era d’ottone, non si mosse di un’unghia. L’uomo basso andò dalla parte opposta, Deanna lo perse di vista. Lo sentì toccare la tovaglia bianca di un tavolino che teneva all’ingresso per le chiavi e i fiori. Un crepitio di piccole ossa. Erano proprio i fiori secchi dentro il vaso di vetro.

Li stava masticando.

Deanna si agitò sul gradino. L’uomo alto si voltò subito. La vide a pochi passi, in alto sulla scala. Si avventò verso di lei lasciando cadere il cuscino. Fra le sbarre del corrimano apparve anche la faccia grigia dell’altro. Deanna tentò di tirarsi indietro ma raspò con il tacco sul marmo. L’uomo sulla scala si gettò sui gradini. Le sue mani la mancarono di una luce. Altre dita si intrufolarono fra le barre e le arpionarono la vestaglia imbottita. Deanna cacciò un urlo stridulo. Cercò di rialzarsi ma non ci riusciva. Vide l’uomo alto strisciare verso di lei, arrancando con il mento sulla pietra. Lei alzò il piede e lo abbatté sulle mani di lui. Le nocche erano sul bordo dei gradini.

Si spezzarono seguendo il disegno della scarpa.

Fragili. Come carta rinsecchita. L’intera mano si sbriciolò. L’uomo non la tirò indietro. La fissò e basta. Come se non avesse sentito nulla. Le dita dell’altro svanirono. L’uomo basso raggiunse il suo compagno e gli tirò una gamba. Squadrò Deanna tenendosi chino indietro, contro la parete.

Le gambe ripresero vita. Deanna salì stando seduta, senza dare le spalle ai due relitti. Vide l’uomo alto tentare ancora di alzare un braccio, le dita che penzolavano miseramente sul polso. Aveva lividi neri che salivano sotto le maniche lacere della giubba. Le guance cascanti. Stava morendo di fame.

Il suo amico lo afferrò ai piedi e prese a tirare debolmente verso la porta. Deanna era già arrivata alla curva della scala, quando sentì la testa di quello alto sbatacchiare sui gradini. Le venne da vomitare. L’uomo che lo stava tirando lentamente sorrise maligno.

Deanna scappò urlando verso il fondo della casa e si rifugiò nel salotto. Chiuse la porta e ci addossò davanti la poltrona. Sentì arrivare i vecchi domestici dalle cantine.

Scacciarono i due mentecatti senza gridare, spingendoli fuori con amara determinazione.

 

***

 

«Avevi detto che non sembrava tanto distante.»

«Probabilmente mi sbagliavo…» rispose Saiden. Mordraud sibilò contrariato. Camminavano da settimane nella neve alta fino alla cinta. Avanzavano poco alla volta, in una straziante fatica continua. Gwern ciondolava a fianco del fratello, spesso aveva bisogno di una mano per superare un’onda bianca accumulata dal vento sulla piana. Il cielo era nerastro, il resto del mondo specchiava la pallida luce grigia in una bruma privata di ogni colore. Mordraud si portava di continuo la mano al petto. L’ustione dei dardi verdi gli pulsava sotto pelle, come una malattia che lo stava consumando dentro.

«Ce la fai a continuare, Gwern?»

«Io sì…» ansimò lui mentre si faceva largo fra la neve navigando con le braccia. Sotto era dura come pietra, sopra invece era soffice e spumosa. Avevano tutti gli abiti umidi, e il freddo era qualcosa di mostruoso. La pianura era sempre uguale, quando si imbattevano in una macchia di alberi quasi non riuscivano a notarla. La legna era marcita e sbriciolata dal gelo. Non incontravano un animale errante da molti giorni. Stavano consumando ancora gli ultimi bocconi di carne che Mordraud aveva ricavato da una lince. Dura, insipida, stopposa. Cotta solo per evitare il rischio che marcisse. «Non è stata una buona idea» esclamò contrariato a Gwern.

«Cosa?»

«La carne… con il freddo che fa, potevamo anche tenerla cruda.»

«Non sarebbe cambiato niente» concluse tetro Gwern. «Tanto non credo di sentire più i sapori di nulla da un pezzo.»

«Larois fa ancora il solito stufato?»

La domanda di Mordraud spiazzò Gwern. Avevano parlato tantissimo durante la lunga camminata, ma lui tendeva meticolosamente a evitare di chiedere qualche novità da casa. Gwern sorrise. Per quanto Mordraud avesse desiderato partire per il Terrapieno, in fondo gli mancava un po’ la vita del feudo.

E di qualcuno di speciale che ci abitava.

Gwern si morse la lingua per non chiedergli di Deanna. Voleva credere che non fosse successo nulla, tradire Adraman sarebbe stata una mossa disgraziatamente folle da parte sua. Ma sospettava che la sua fosse soltanto una vana speranza. Sentiva che suo fratello chiedeva di casa solo perché non poteva invece parlare di qualcosa di più importante per lui. Qualcosa di proibito.

«Non lo so, dovresti dirmelo tu» rispose Gwern. «Sono lontano da Eld come te. Non so come stia Larois…»

Mordraud si rabbuiò e imprecò spazzando la neve con le falcate dei suoi passi.

«Starà benissimo. Se la cava sempre, la vecchiaccia…»

«Non chiamarla così, è bruttissimo» rispose infastidito Gwern.

«Sono sicuro che a Eld c’è qualcuno che si prende cura anche di lei. L’ultima volta che sono passato, la gente del paese era unita più che mai» continuò Mordraud addolcendo il tono. In fondo, Larois non gli aveva mai fatto nulla di male. Anzi, tutto quello che aveva ottenuto dalla vita, era merito suo. Li aveva accolti in casa sua e aveva dato loro un lavoro. Grazie a lei aveva conosciuto Adraman.

E Deanna.

Quella era l’unica sua colpa, pensò tristemente.

«Hai già un piano?» gli chiese Gwern aggrappandosi alla sua mano per tirarsi avanti fra la neve. Non sentiva più i piedi. Rischiava continuamente di cadere. “Perché ho accettato di dargli una mano?!” pensò Gwern allibito dalla propria idiozia. Uno come lui in quel viaggio non aveva alcuna utilità. Era soltanto un peso. Eppure, prima ancora di sapere che Saiden avrebbe dato loro un aiuto prezioso, si era già offerto con slancio di aiutare suo fratello.

Avevano bisogno assolutamente di un piano.

«Più o meno…» borbottò perplesso Mordraud. Si era fatto spiegare dal fratello un esempio di come potesse funzionare tutta la faccenda del canto, delle armonie e delle risonanza, ma in realtà aveva capito poco e male. Sapeva solo che dovevano imbattersi in una sorta di coro nascosto da qualche parte. E che per fermare gli effetti dei loro canti, doveva trovare un modo per ucciderne i membri. Non sapeva se tutti o anche uno soltanto. A differenza del solito, Mordraud sperò che fosse sufficiente eliminarne un paio. I cantori lo terrorizzavano. Non li capiva. Erano mortalmente pericolosi perché lui non sapeva come affrontarli.

«Forse dovremmo confrontarci con Saiden. Se lui ha accettato di venire con noi, magari ha già in mente cosa fare.»

«Non ora» rispose Mordraud. Non sapeva ancora quanto poteva fidarsi di quell’uomo. Ma era prontissimo a cambiare idea se avesse visto con i suoi occhi Saiden attaccare un uomo dell’impero. Scommise con se stesso di potercela fare da solo. Il maestro di suo fratello non parlava quasi mai con loro, e passava tutto il tempo a fissarli con occhi indecifrabili.

Mordraud si tastò di nuovo il petto. Faceva un male insopportabile. Si chiese quante persone sarebbe stato in grado di eliminare, in quelle condizioni. Poche, pensò frustrato. Quella maledetta ferita lo rendeva lento e debole. Se avessero incontrato delle guardie armate, cosa che temeva sin da quando erano partiti, sarebbero state compito suo. Si chiese se fosse in grado di farcela.

«Aspetto solo che il tuo maestro si dia una mossa» bisbigliò Mordraud. «Ma non vuole dirci già adesso dove si stanno nascondendo i cantori. Sarebbe molto più semplice.»

«Ce la faremo, vedrai» esclamò Gwern tirandogli il braccio. Mordraud si voltò verso di lui. Era piccolo e grande allo stesso tempo. L’aspetto di un ragazzino, lo sguardo che nascondeva pensieri di una profondità che lo colpirono. Non parlava con lui da tanti mesi. Erano successe molte cose da quando vivevano insieme in casa di Larois. La vita di Mordraud era totalmente cambiata. Ma anche la sua. Aveva uno scopo, ora. Sviscerare la magnifica complessità delle armonie. Mordraud invidiò suo fratello, libero dalle catene della vendetta che invece imbrigliavano lui, in una folle strada di violenza e di cadaveri sbudellati sul crinale del Terrapieno.

Tutto, per inseguire la speranza di confrontarsi almeno una volta con Dunwich.

Gwern non ricordava quasi nulla del loro fratello maggiore. Mordraud tossì affannosamente. Era contento che quel peso fosse solo suo.

Era felice che Gwern stesse trovando una strada tutta sua.

«Saiden, continuiamo fino a notte o ci fermiamo?» chiese al maestro davanti a loro. Lui non rispose, né accennò a rallentare.

«Mi sentite? Saiden?»

Lui si fermò e si voltò per fissarlo interdetto. Sembrava che fosse appena riemerso da un lungo pensiero angoscioso.

«No, procediamo. Non conviene perdere altro tempo.»

Saiden squadrò Gwern, poi Mordraud. Sorrise nervosamente, più freddo e cinico del solito. C’era qualcosa che non andava, pensò mentre osservava i due fratelli parlarsi sottovoce. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo.

I contatti di Flusso fra i due fratelli non progredivano in qualcosa di più comprensibile.

“Non credo che otterrò molto di più, per ora…” pensò Saiden.

Riprese a camminare indispettito. Il fenomeno che aveva osservato durante i primi giorni di viaggio non era mutato in qualcos’altro. Saiden lo aveva sperato, senza successo. I fili di luce continuavano a uscire da Gwern per entrare in contatto con Mordraud. Non aveva notato conseguenze particolari. Gwern tentava di impossessarsi di parte della vitalità di suo fratello, ma a quanto pareva, senza riuscirci. Saiden era giunto alla conclusione che lui non ne fosse nemmeno cosciente, e che fosse il Flusso stesso ad agire di sua iniziativa. Incomprensibile, pensò. Individuò all’orizzonte l’immensa colonna di luce che scaturiva dal punto in cui i cantori di Cambria stavano imbastendo Lungo Inverno. Per lui, era impossibile non vederla. Per i Khartian come loro invece, il canto impressionante dell’impero sarebbe stato assolutamente impossibile da individuare. Era fattibile entrare in risonanza con esso, ma i ribelli non disponevano di alcun maestro d’armonia in grado di farcela.

“Sto facendo a loro un grosso favore. Se solo sapessero che si tratta solo di un effetto collaterale…” pensò sorridendo fra sé.

Lui voleva capire cos’avesse di tanto speciale il Flusso di Gwern, e il motivo per cui Mordraud invece sembrava esserne apparentemente privo. Che era qualcosa di inconcepibile, si disse scuotendo debolmente la testa. Ogni essere o cosa al mondo era composta, costruita dal Flusso. Era la struttura portante della realtà. Non poteva non esistere.

“Deve pur esserci una spiegazione. Mordraud ha un corpo e vive, deve avere dentro di sé un telaio di Flusso. Qualcosa, almeno… cos’hanno di tanto strano questi due Khartian?”

Saiden voleva saperne di più. Sarebbe stato semplice da parte sua considerare quel fenomeno assurdo con una causa romantica, sentimentale. Erano fratelli, quello era il loro legame. “Puttanate” pensò stizzito. “Non c’entra niente l’affetto. Il Flusso è sempre Flusso, non prova emozioni… vuole soltanto mangiare, per mantenere in vita il suo involucro… mai visto o sentito nulla di simile.”

Molti Aelian mantenevano ancora una discreta conoscenza dei meccanismi del Flusso. Lui forse era uno dei migliori in vita, insieme a Cambiryon, l’Aelian più influente di tutte le comunità sparse nel continente. Avrebbe dovuto chiedere a lui, ma non era semplice rintracciarlo. Passava molto tempo fra i Khartian, e lui non aveva modo di aspettarlo chissà dove per anni finché non si fosse fatto vivo fra la sua gente. Un peccato, si disse. Lui avrebbe potuto aiutarlo a risolvere quel mistero.

“Inoltre, anche volendo, con un tempo così infame sarebbe pericoloso anche per me viaggiare troppo lontano… in fondo, è un bene che quest’inverno finisca. Per quanto sia ammirevole… una raffinata dimostrazione di potenza.”

Ormai erano vicini. Avevano perso molti giorni per colpa della neve, in linea d’aria non erano andati tanto lontani. Mordraud e Gwern non potevano rendersene conto, ma Saiden sapeva che la colonna di luce che identificava il covo dei cantori era quasi alla portata. Lui riusciva anche a vedere il punto in cui Lungo Inverno interrompeva la risonanza con il mondo, un paio di notti e sarebbero giunti in territorio imperiale. Doveva escogitare qualcosa che desse una svolta al suo studio del Flusso di Gwern. Voleva scoprire cosa legasse quei due, era ormai una faccenda prioritaria. Era un’occasione unica per scendere ancora più in profondità nella comprensione del Flusso, della sua origine, del sottile legame che lo univa alla vita e alle decisioni di ogni essere vivente.

Aveva bisogno del giusto stimolo.

“Fermare i cantori non è un problema… per me” pensò, mentre distrattamente continuava ad ascoltare le confessioni che i due fratelli si scambiavano a bassa voce. “Però non posso dire lo stesso per Mordraud.”

Doveva dare una spintarella a Gwern. Per scoprire di cosa potesse essere capace il suo Flusso. Avrebbe palesato la sua vera forza, se suo fratello si fosse trovato in pericolo?

“O magari… in punto di morte…” si chiese sfilando dietro i due ragazzi, per continuare a fissarli indisturbato alle loro spalle.

 

***

 

«Non ne posso più di questa pioggia.»

Dunwich era seduto fuori dalla porta di casa sua, sui gradini. Aveva perso le chiavi dell’ingresso e il domestico aveva già chiuso con il chiavistello la porta sul retro. Stava aspettando che succedesse qualcosa. Non sapeva cosa. Che sorgesse il sole malato, dietro nubi che vomitavano acqua da quando era tornato dal fronte. Che ci fosse un altro accoltellamento all’angolo dall’altra parte della strada. Il terzo, o il quarto. L’ultimo non era sicuro che si fosse trattato di una rapina. Forse uno stupro. Non aveva perso molto tempo a informarsi.

Cambria era in uno stato pietoso. Come se la pioggia avesse fatto ammuffire le persone.

«Prima o poi, qualcuno mi aprirà.»

Non aveva fretta di entrare in casa. Tanto, dentro non aveva niente di meglio da fare. Stava solo aspettando che lo riconvocassero. La ferita stava cicatrizzando bene, si sentiva piuttosto in forma. Non vedeva l’ora di muoversi. Il guaritore aveva detto che il taglio era davvero netto, senza traccia di infezione. Non aveva mai visto una ferita del genere prima, quando curava i soldati di ritorno dalle battaglie.

«Che fortuna…»

Parlava da solo. Era ridicolo che lo facesse, ma a volte non riusciva a smetterla. Si annoiava incredibilmente a vivere in città. Il tempo infame aveva completamente annichilito i mercati rionali, i teatri all’aperto, i musici e le passeggiate al parco. L’erba era zuppa come lana cardata. I tetti tracimavano di rivoli d’acqua grigia. Se quelli erano solo effetti secondari di Lungo Inverno, Dunwich si chiese come fosse viverci dentro. Un incubo orrendo che lui aveva contribuito a creare, anche se partendo da un’idea completamente diversa.

«Non che sarebbe stata tanto meglio per Eldain… se avessero fatto come dicevo io, a quest’ora avremmo già vinto.»

Invece, quei maledetti dell’Arcana si erano imboscati ai confini di Cambria e avevano imbastito il canto. Era stato più semplice del previsto, Dunwich se ne stupì. Aveva confidato che perdessero più tempo per svilupparlo, invece erano stati molto efficienti. Pochi mesi di clausura, mentre gli uomini dell’impero tracciavano i confini sulle mappe che loro avrebbero usato per definire lo spazio da portare in risonanza. Lui sapeva dove fossero, era una proprietà dell’Arcana a Est della capitale, sulla direttiva per il Terrapieno. L’aveva anche visitata un paio di volte quando era un ragazzo, con Seneo. Una tenuta agricola molto raffinata, con vigneti antichi e una produzione di olio di qualità superiore. In tempi migliori era usata dai maestri per rilassarsi in vacanza. Era stata abbandonata qualche anno prima. Il fronte era troppo vicino, nessuno osava recarsi fin laggiù senza scorte molto costose. Avevano chiuso lì i migliori cantori della capitale, che avevano lavorato insieme agli esperti di armonie e si erano esercitati.

Un risultato meravigliosamente distruttivo.

Un coro era un’entità con una voce del tutto particolare. Era composta da molte risonanze, tese ognuna verso la propria perfezione. Dall’insieme che si creava, nasceva un’armonia totalmente nuova, capace di entrare a sua volta in risonanza con una forza incommensurabilmente maggiore. Se ogni risonanza con il mondo era tesa verso il freddo, verso la forma spumosa di una nube covata e plasmata dalla concentrazione del cantore, allora il risultato finale era che il cielo stesso si copriva, i venti mutavano, il caldo si dissolveva in un gelo innaturale.

Un coro che sarebbe di certo passato alla storia, pensò Dunwich borbottando al buio del cortile. Lui non era stato invitato a parteciparvi, in parte ne era sollevato. Anche se non capiva come mai non l’avessero fatto. Dopotutto, era stato lui a suggerirne l’ipotesi. Probabilmente Asaeld si era messo di traverso, si disse. Per non perdere il suo uomo migliore. Un gesto che non sapeva se apprezzare o meno.

«Tutto bene?»

Dunwich alzò di scatto la testa. Era buio e silenzioso in strada. Si stiracchiò le braccia e raggiunse il cancello. C’era un uomo fuori, oltre le inferriate. Indossava una corazza delle Lance. Un ragazzo muscoloso e bonario. Non lo riconobbe al volo. Si chiese però che ci facesse una Lancia fuori da casa sua, a quell’ora, da sola.

«Dunwich, non mi saluti nemmeno?!»

La voce gli ricordava qualcuno. Denor, pensò stupito. Quel ragazzo che stava studiando all’epoca in cui lui viveva con Seneo. Girava con Lisea e un ragazzo di cui gli sfuggiva il nome.

Lasciò perdere il dubbio iniziale e aprì il cancello.

«Denor, è molto che non ti vedo.»

«Certo, siamo in due mondi diversi ormai» rispose lui sorridendogli e stringendogli la mano. «Hai fatto carriera… so tutto di te. Sei una celebrità!»

«Sto avendo le mie soddisfazioni, niente da dire.»

«Non sembrerebbe, da come parli.»

Dunwich indicò il fianco dove era stato ferito. «Sono lontano dal Terrapieno, mi hanno ferito in battaglia. Non mi piace particolarmente stare qui.»

«C’è chi farebbe all’istante il cambio, credo tu lo sappia… anch’io lo farei volentieri» rispose Denor mollando la poderosa stretta di mano.

«Sei di stanza al Terrapieno?» esclamò stupito Dunwich. «Non ti ho mai visto.»

«Sono agli approvvigionamenti, tu negli incursori» rispose prontamente Denor.

«Raccontami come te la passi, vivi ancora con Lisea?»

Denor si rabbuiò e guardò altrove.

«No. C’è stato… un incidente.»

«Di che tipo?» chiese distrattamente Dunwich. Stava cercando di ricordare il suo viso. Pazzesco come avesse tagliato i ponti con la sua adolescenza a Cambria, si disse dispiaciuto. Quel momento di debolezza lo irritò. Mentre era al Terrapieno aveva problemi ben più concreti da affrontare.

«Qualcosa di grave…» sibilò Denor «non mi piace molto parlarne. Tu invece? Pensavo che ti avrebbero fatto partecipare al canto di Lungo Inverno.»

«No, sono stato escluso» rispose imbarazzato Dunwich. Si chiese cosa fosse successo a Lisea, ma evitò di tornare sull’argomento. «I cantori dell’Arcana stanno facendo tutto da soli.»

«Escludere un esecutore come te, beh… un gesto insano.»

«In realtà non mi dispiace particolarmente, non sono un grande estimatore di quello che stanno facendo…»

Non erano argomenti da portare avanti ad alta voce, pensò Dunwich. Ma stava parlando con un’altra Lancia, per giunta sottoposta. Denor era un vecchio amico, e non gli era mai parso un uomo malizioso. «Lungo Inverno sta facendo danni gravi anche da noi. Non era stato previsto, direi.»

«Forse hanno scelto un posto sbagliato per allestire il coro, magari le risonanze non si manifestano sufficientemente vicino ai territori di Eldain…» propose Denor. Dunwich negò dubbiosamente. «Non direi, la residenza estiva dell’Arcana è a due passi dai confini del Terrapieno… dev’essere qualcos’altro.»

«Nella villa abbandonata? Non credevo che venisse ancora utilizzata» esclamò Denor fissando Dunwich.

«Il posto è buono, anch’io avrei scelto quello» rispose lui schioccando le labbra mentre pensava a cosa stesse andando storto. Forse l’area da portare in risonanza era talmente elevata da non sortire il massimo effetto sperato. «Ho sempre detto ad Asaeld che il modo migliore per aggredire il Terrapieno sarebbe stato un attacco decisamente più mirato. Con Lance e cantori insieme.»

«Mh, sì…» mormorò Denor. «Probabilmente hai ragione, Asaeld cosa ne pensa?»

«Appoggia Lungo Inverno, anche se non è altrettanto accondiscendente con i piani strategici che ci giungono dal circolo dell’Imperatore. Ma che si può dire, questi sono gli ordini.»

«Non c’è dubbio» concluse Denor stringendogli ancora la mano. «È stato un piacere incontrarti di nuovo, Dunwich. Ora torno in caserma. Parlare con te mi ha sollevato il cuore…»

«Anche a me ha fatto piacere…» rispose Dunwich spiazzato dallo slancio della giovane Lancia. Si salutarono e Denor se ne andò a passo molto svelto.

Dunwich stava pensando a quel fortuito incontro nella notte, quando sentì scattare il chiavistello della porta. Qualcuno in casa si era svegliato per iniziare a lavorare. Abbandonò il cortile e bussò, lanciando di tanto in tanto un’occhiata alla strada deserta alle sue spalle.

Mordraud, Libro Primo
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