XXVII
Asaeld aspettava in piedi di fronte allo scranno dell’Imperatore. Loralon stava confabulando con un messaggero. Diede un’occhiata fuori dalla grande vetrata che dava sui tetti della città vecchia. Era tutta la mattina che non pioveva. Un evento raro. Unico, in tutti quei mesi di tormenta.
«Vorrei buone notizie dal fronte, comandante.»
«Ne porto, signore» rispose Asaeld con un breve inchino. Il messaggero corse via. Loralon si alzò e si avvicinò a lui. Erano alti uguale, ma l’Imperatore sembrava meno della metà di lui. Magrissimo, il collo lungo e sottile, il mento affilato quanto il naso. Asaeld sorrise con fare accondiscendente. Negli occhi, un gelo che nemmeno Lungo Inverno poteva uguagliare.
«Dimmi allora, fammi felice.»
«Abbiamo condotto un attacco all’interno del Terrapieno, riportando un successo clamoroso.»
«Ottimo!» esclamò Loralon. Si accostò al lungo tavolo dove era distesa la cartina dei confini imperiali, e puntellò il dito sul Terrapieno.
«Quanto siamo penetrati? Abbiamo conquistato qualche roccaforte?»
«No, siamo di nuovo arretrati.»
«Stai scherzando, vero?» Loralon picchiò il dito furiosamente sul piccolo simbolo della muraglia ribelle. «Abbiamo vinto, ma siamo tornati indietro?!»
«Esatto. Fa tutto parte della nostra strategia di vittoria, signore» rispose Asaeld senza scomporsi. «Abbiamo devastato le loro strutture, ormai sono spacciati. Dobbiamo solo aspettare ancora qualche mese.»
«Non possiamo aspettare più!» gridò indignato Loralon. La fronte era curiosamente impallidita, in contrasto con le guance scavate e venate di rosso.
«Il popolo è in rivolta. I magazzini sono vuoti e i campi sono ormai inutilizzabili. Dobbiamo farla finita con Lungo Inverno e attaccare direttamente, è un ordine.»
«Vedete, mio signore…» Asaeld si avvicinò all’Imperatore e, con fare umile ma risoluto, gli indicò sulla mappa la linea che segnava l’estensione del Terrapieno. «Stiamo già lavorando per un attacco. Ma ci vuole tempo a spostare le truppe nei posti giusti. Qui, Qui… e qui…» Asaeld gli mostrò punti sulla linea che non richiamavano a nulla di segnalato. L’Imperatore faticava a seguire le indicazioni di Asaeld, tanto erano frettolose.
«Sono i punti in cui sto accentrando le nostre forze. Dopodiché, passando di lì…»
In una svirgolata, Asaeld tracciò un arco che tagliava a metà il Terrapieno. Fu un gesto estremamente convincente. Un atto di forza e di sicurezza incrollabile.
«Passando in questo modo, conquisteremo non solo il Terrapieno, ma direttamente Eld. Lungo Inverno ci serve ancora, purtroppo… ma c’è solo da portare un altro po’ di pazienza, signore.»
«Mi assicuri che siamo alla fine di tutto questo?! Che siamo pronti per vincere?!»
«Certamente. Nessun dubbio.»
Loralon si raddrizzò perplesso, tolse il dito dalla mappa e si incamminò verso la finestra. Non solo non pioveva, il cielo si stava anche schiarendo. La luce attrasse l’Imperatore fino al vetro. Asaeld fece per andargli dietro, quando la porta della sala si aprì di schianto. Entrarono due Lance estremamente trafelate. Asaeld li fermò, mentre Loralon si voltava infastidito da quell’intromissione.
«Che succede?! Non potevate attendere un momento più opportuno?!» sibilò infuriato Asaeld.
«Comandante, all’orizzonte...» ansimò uno dei due. «Abbiamo visto l’alba stamattina…»
«E allora?! Siete impazziti? Io vi faccio frustare a sangue, idioti…» mormorò Asaeld.
Ma si fermò subito dopo. Non disse altro. Guardò l’Imperatore, che ciondolava perplesso in attesa di una spiegazione. Le due Lance continuavano a fissarlo terrorizzate.
L’alba. Avevano visto il sole alzarsi a Est.
«Signore, devo subito partire. È un’emergenza.»
«Di cosa si tratta?! Voglio saperlo!» esclamò costernato Loralon. Asaeld si voltò verso di lui trattenendo un ghigno rabbioso.
«I ribelli di Eldain potrebbero aver individuato i nostri cantori.»
***
«Piove…»
Mordraud aprì la mano e sentì le pesanti gocce impattargli sulle spalle appesantite dalla brina. Guardò il cielo stupito. Il tempo era cambiato improvvisamente. Poco prima stavano arrancando in una tormenta, e di colpo invece la temperatura si era alzata, e la neve si scioglieva prima di toccare terra. La pianura era macchiata a chiazze di bianco, ma si intravedevano isole di erba nera e marcia. Alle loro spalle, l’Est era avvolto dalle sfuriate di Lungo Inverno. Davanti a loro invece il tempo era cambiato.
Erano entrati nei territori di Cambria.
«Quanto manca?!»
Saiden guardò l’orizzonte e ciondolò il capo.
«Mezza giornata a piedi.»
«Soltanto?!»
«Sì, il coro non si è disposto molto distante dalla zona tracciata dal canto.»
«Ma lo sai perché riesci a sentirlo?!» gli chiese Mordraud. Il clima più mite, per quanto orrido fosse, gli aveva rallegrato l’umore. Gwern era al suo fianco, assorto nel tentativo di ascoltare qualcosa che non c’era nell’aria gonfia di pioggia.
«È un insieme di cose» rispose Saiden. «Hai trovato la concentrazione giusta, Gwern? Ormai siamo vicini. Dovrebbe esserti più semplice.»
«No, maledizione! Non sento ancora niente! Non riesco a entrare nel giusto stato d’animo, non so cosa cercare…»
Saiden, invece che rimproverarlo, sorrise brevemente. Come se fosse già certo che lui non potesse farcela. Ma subito dopo gli diede una pacca sulle spalle per fargli coraggio. «Anche se non ce la farai, vedrai che ti sarà stato tremendamente utile provarci. Ne sono certo.»
«Se lo dite voi, maestro…»
«D’ora in poi tieniti pronto, Mordraud» gli disse Saiden. Lui portò la mano all’elsa e si guardò intorno deglutendo preoccupato. Era giunto il momento di vedere se era ancora in grado di combattere. «Spiegaci cosa dobbiamo fare.»
«Quando saremo lì, lo valuteremo. Non sappiamo dove si nascondono. Io riesco a vedere solo il punto.»
Saiden non se ne accorse, ma Gwern inclinò sorpreso la testa. Vedere, pensò lui. Non aveva detto sentire. Lui pensava che fosse necessario entrare in risonanza con il canto dell’inverno, invece forse c’era altro che il maestro non gli aveva mai detto.
Ripresero a camminare spediti, con Mordraud che si teneva in testa spada alla mano, e spalle chine. Ma quando la neve svanì del tutto, lasciando spazio alla strada lastricata e ai campi abbandonati, Mordraud si fermò pensieroso.
«Forse è meglio aspettare che sia sera, così raggiungeremo i cantori a notte fonda» propose facendo due conti veloci con le dita. «Siamo troppo visibili qui, in piena luce.»
«Un’ottima idea, Mordraud» annuì Saiden. «Nascondiamoci finché siamo ancora lontani. Copriremo l’ultimo tratto con le tenebre.»
Si fermarono nei pressi di una conca ai lati della strada. Non accesero il fuoco. Non volevano farsi notare a distanza, e anche se avessero voluto farlo, non c’era legna secca da nessuna parte. Era tutto fradicio e cadente. «Sembra che l’inverno stia dando dei bei problemi anche a loro…» sogghignò Mordraud. «Più di quelli che sperassi.»
Passarono qualche ora a sonnecchiare tormentati dalla pioggia. Saiden finse solo di appisolarsi, troppo concentrato a tenere d’occhio i comportamenti del Flusso di Gwern. Anche mentre lui dormiva, la luce non si fermava mai. Cercava sempre di legarsi con il fratello. Mordraud non si accorgeva di nulla. Era inquietante vedere la sua sagoma perfettamente vuota di Flusso, come un ritaglio nel telaio di luce che, agli occhi di Saiden, delineava il paesaggio e l’orizzonte. Fra poco, pensò, sarebbero arrivati all’obbiettivo di quel viaggio. Aveva già pensato a cosa fare. Voleva sfruttare l’occasione per spingere Gwern a mostrargli di più.
“Quante guardie ci saranno? Devo comunque tornare indietro insieme a Gwern, incolume… meglio essere pronti a ritirarsi insieme a lui.”
In fondo, non era assolutamente necessario che Lungo Inverno finisse. Era più importante scatenare la reazione di Gwern. Non doveva essere particolarmente difficile.
Era sufficiente cacciare quei due in un pericolo mortale.
“Devo stare attento a tenermi una via di fuga.”
Ripartirono al momento stabilito. L’ultimo tratto di viaggio fu comodo e semplice, rispetto all’incubo di neve che avevano oltrepassato. La notte era buia e impenetrabile. Avanzarono sulla strada finché Saiden non ordinò loro di imboccare un sentierino defilato fra macchie di rovi e un canneto tagliato da un ruscello straripante. La colonna di Flusso che rappresentava il punto da cui agiva il coro, era finemente intrecciata. Ai suoi occhi, abbagliava quanto una colata fusa di stelle. Loro non vedevano niente. Gwern stava ancora tentando di trovare la cantilena giusta per entrare in risonanza con la fonte di Lungo Inverno. Era meglio che tentasse a vuoto, si disse Saiden. Finché non sapeva cosa davvero si trovasse davanti, preferiva che quel piccolo mistero ambulante non diventasse troppo potente. Anche Mordraud gli interessava molto, ma doveva darsi delle priorità, e Gwern rappresentava una forma di Flusso un po’ meno impossibile. A qualcosa doveva pur rinunciare, pensò, per progredire nell’osservazione.
Dopo una breve camminata lungo il sentiero, raggiunsero uno spiazzo su cui, in fondo, si ergeva la muraglia di una proprietà terriera.
«Nascondiamoci e vediamo se è presidiata da qualcuno.»
«Sono nascosti qui?!» chiese Mordraud stringendo nervosamente l’elsa della spada infoderata.
«Sì, dentro quella villa.»
Mordraud scambiò uno sguardo con Gwern. Lui alzò le spalle. Non aveva ancora sentito né visto niente. Si chiese se potesse fidarsi solo delle parole di Saiden. E se fosse stata una trappola, si domandò preoccupato. Forse non sarebbe riuscito a proteggere Gwern. Meglio lasciarlo fuori, si disse.
«Non ci pensare neanche. Entro anch’io.»
«Non è uno scherzo, Gwern» ribadì Mordraud sibilando. «Tu resti fuori.»
Erano sdraiati in terra. Mordraud cercò di dare un’occhiata alle basse mura della villa. Nessuna guardia in vista. Notò però delle feritoie. Erano certamente presidiate. Vide Gwern alzarsi leggermente e rotolare a fianco di Saiden, ma lui lo placcò all’istante.
«Sta giù, maledizione!»
«Maestro, riuscite a sentire la risonanza lì dentro?» chiese ansiosamente Gwern a Saiden. Era buio, aveva preso a cadere una pioggia molto fine. Diversa dalla solita colata d’acqua martellante. La villa era immersa in un silenzio fradicio.
«Sì…» mormorò lui perplesso.
«Provo ad avvicinarmi…» esclamò Mordraud. Fece per alzarsi, ma Saiden lo fermò. «Aspetta. Aspetta un attimo…» sussurrò.
Mordraud si gettò di nuovo in terra imprecando. Dovevano fare qualcosa. Non potevano restarsene lì fermi fino all’alba. Oltre quelle feritoie, Mordraud avvertiva la presenza di minacciose guardie imperiali. Lui era solo. Avevano puntato tutto su Saiden, che sapesse cosa fare per interrompere il canto di Lungo Inverno.
Aveva sperato fino all’ultimo di non dover rischiare la pelle da solo.
Fece un cenno a Gwern di restare tranquillo. Avrebbe escogitato qualcosa per tenerlo fuori dai guai.
Doveva provare a entrare da solo, per distrarre le guardie. Forse in quel modo Saiden sarebbe potuto intervenire.
«Vado.»
«No Mordraud, aspetta qui!» esclamò angosciato Gwern. «Sentiamo cosa vuole fare il maestro…»
I due fratelli si voltarono verso Saiden. Non si erano accorti che si era alzato. Stava velocemente camminando verso il muro. Le mani riposte placidamente in tasca.
«Sta per fare qualcosa!» sbottò Mordraud. Spinse la testa di Gwern nel fango e si acquattò al suo fianco. «Resta giù!»
Suo fratello mugolò qualcosa con la bocca piantata nella terra. Mordraud socchiuse gli occhi in attesa del canto. Aveva visto il potere delle armonie in battaglia, ne era assolutamente terrorizzato. Si aspettava da un momento all’altro il boato, e il lampo di fiamme dalle mani di Saiden.
Il maestro raggiunse la porta chiusa sulle mura, in silenzio. La spinse senza fatica. Non stava cantando assolutamente niente.
Si stava consegnando.
«NO!»
***
Nector sfilò una chiave dalla tasca del giaccone di pelliccia, la lucidò sulla manica e aprì la grossa serratura di bronzo. Con la mano guantata di pelle nera, spinse la porta ed entrò nell’immenso salone. Fu travolto dalla pienezza del coro. Un pastone di voci che si muovevano in un ritmo perenne, vagamente ossessivo e tragico. Non era una bella melodia. Era ossessiva, troppo schiacciata verso i bassi, senza una linea solista che ogni tanto interrompesse la sua monotonia. Nector si accostò alla parete e si sedette su una delle tante panche che definivano il perimetro del salone. Appoggiò la schiena sull’enorme lastra di lana compressa. Era stata attaccata alle pareti di pietra attraverso complicati cunei di legno. Il tetto della sala era stato foderato allo stesso modo. Il pavimento era stato rifatto con assi di ulivo spesse un palmo.
Dall’esterno, nessuno poteva sentire il coro cantare. E per gli esecutori, era molto più semplice restare intonati e a tempo in un ambiente ovattato al punto giusto. Il pavimento in legno esaltava la profondità dei bassi, la lana attutiva il riverbero. Perfetto, pensò Nector. Era un fottuto coro perfetto.
Sebbene l’idea fosse stata espressa da Dunwich, l’Arcana già lavorava da tempo a migliorare l’efficacia delle armonie in guerra. Nector e altri maestri erano stati incaricati dall’Imperatore di trovare nuove soluzioni tattiche, e loro avevano concentrato i loro sforzi sulla necessità di colpire i ribelli da distanze maggiori. Se fossero riusciti nel loro intento, Cambria avrebbe potuto attaccare Eld cantando da casa propria. Un piano ambizioso, che aveva portato qualche risultato interessante. Ma quando Dunwich aveva espresso il suo pensiero all’assemblea generale, era stato Asaeld a far comprendere ai cantori il valore di quell’opportunità. Ed era stato sempre lui a consigliar loro di puntare sull’inverno. Era poco risaputo, ma il comandante delle Lance era un raffinatissimo conoscitore dell’armonia. Era anche uno dei pochi a saper come usare le risonanze per comunicare silenziosamente. Sapeva come portare i propri pensieri in sintonia con le menti intorno a lui. Un potere generato da armonie che solo lui conosceva, e di cui custodiva gelosamente le composizioni. Aveva contattato il Gran Maestro Raelin e gli aveva spiegato tutto. Lui aveva poi riferito ai suoi fedelissimi, fra cui Nector. Uno degli anziani più esperti dell’Arcana.
Se Asaeld in persona non avesse collaborato con loro, non sarebbero mai riusciti a sviluppare Lungo Inverno in tempi tanto stretti. Nector sorrise battendo debolmente il piede a tempo con il coro. Quella era un’occasione d’oro per legare indissolubilmente le fortune dell’impero con la scuola dell’Arcana.
I maestri cantori avevano sviluppato un insieme di melodie che potevano plasmare il tempo, e concentrarne gli effetti soltanto in una determinata zona. Un canto che ridefiniva completamente la scienza delle armonie. La storia era cambiata in modo radicale, dopo che Nector e i suoi avevano dato il via a Lungo Inverno. Era un nuovo punto secolare.
Nector si alzò eccitato e raggiunse di nuovo la porta. Diede un’occhiata al coro e salutò i colleghi con un cenno. Qualcuno rispose. A breve c’era il cambio turno. In tutto, gli esecutori erano trenta. Dieci per linea di toni. Ogni ora, altri quindici cantori si univano al gruppo, e contemporaneamente quindici smettevano di cantare per potersi riposare. Un meccanismo che andava avanti da mesi, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Per riuscire a mantenere perfettamente inalterato il canto primordiale, era necessario che molte squadre fossero sempre pronte e riposate.
In tutto, la grande villa di campagna ospitava un centinaio di esperti cantori.
Nector si diresse verso le cucine. Voleva vedere che fosse tutto a posto. Sebbene l’inverno iniziasse a un giorno di distanza da lì, il freddo era comunque notevole e le piogge battevano insistenti. Per mantenere tutto in sincronia era necessario uno sforzo organizzativo non da poco. Nector passò vicino a una delle finestre che davano sul cortile. Si fermò per controllare. Fuori, il prato era marcito e invaso di erbacce. I muri erano stati ripristinati, ma erano anche stati invecchiati con polvere e calcinacci gettati a mascherare gli interventi. La villa era stata lasciata mezza diroccata. I camini accesi erano pochi, e i fumi venivano dispersi nel grande solaio che copriva l’intero tetto, per poi uscire da cannette più sottili. Era un ottimo sistema per non farsi notare, ma era anche terribilmente pericoloso. Tre guardie avevano il compito di controllare che non si sviluppassero incendi, altre dieci erano di piantone fuori, per coprire tutte le feritoie che davano sulle campagne intorno.
Nector se ne andò soddisfatto. Aveva ricevuto l’incarico di gestire l’operazione, e stava riuscendo alla grande nel suo lavoro. La vita era scomoda e difficile, la villa era troppo piccola per contenere così tanti ospiti, ma tutto stava filando liscio. Trenta soldati sempre pronti stazionavano nella rimessa esterna per i carri, riadattata a caserma temporanea. Non molti, di certo non sufficienti se i ribelli avessero attaccato. Ma Asaeld e Nector avevano puntato tutto sulla segretezza del loro piano. Eldain non poteva sapere come funzionasse Lungo Inverno, né da dove potesse scaturire. Se restavano defilati e ben nascosti in casa, i ribelli non avevano alcuna possibilità di trovarli.
“Ribelli…” ridacchiò fra sé Nector. “Ormai li chiamiamo semplicemente così, ribelli… di cosa? Sono decenni che si combatte, ormai è diventata una fissazione dell’impero. Potrebbero anche scendere a patti e via.”
La famiglia Loren aveva tentato di formare un impero che coprisse l’intero Est, ma chiaramente non era riuscita nell’intento. L’espansione si era fermata quando Eld aveva opposto più resistenza del previsto. Anche chiamarlo impero era leggermente fuori luogo, pensò divertito Nector. Chissà le risate che si erano fatti a Telatias, sui monti centrali, o a Calhann a Sud sull’incollatura. “L’impero contro i ribelli. Sembra un romanzo da due ramette.”
La situazione era talmente sfuggita di mano da creare una magnifica mostruosità come Lungo Inverno. Ora, i vicini avevano sicuramente smesso di ridere, si disse con cinico gusto.
“Un paio di mesi ancora e la congeliamo intera, quella misera baracca di Eld.”
E dopo, si chiese Nector. Cosa avrebbero potuto fare, dopo?
“Congeliamo il fiume Hann e strozziamo quelle merde di Calhann… faremo gustare un po’ del nostro freddo anche al Sud.”
Era più probabile che si scendesse a patti, pensò Nector. I territori confinanti con Cambria avrebbero colto l’antifona e, piuttosto che subire ciò che stavano soffrendo i ribelli di Eldain, avrebbero trattato istantaneamente la resa.
Se non ci fosse stato quel fastidioso effetto collaterale della pioggia, Lungo Inverno sarebbe stato maledettamente perfetto.
“Dobbiamo trovare una soluzione in fretta.”
Loralon faceva molte pressioni in quella direzione, ma l’Arcana non sapeva ancora esattamente come fare. Avevano provato con altri canti, ma non avevano ottenuto nulla di incoraggiante. I venti e le piogge che si generavano dal gelo di Lungo Inverno sembravano ingovernabili con le armonie. O forse non avevano ancora avuto il tempo necessario per trovare un modo, si disse convinto. L’Imperatore doveva avere pazienza. Avrebbero superato anche quell’intoppo. Si trattava solo di tenere duro, si disse. “Cosa vuoi che sia un po’ d’acqua… si lamentano per nulla. Popolino rompipalle.”
Nector passò in rassegna le cucine, il magazzino e la servitù pronta a una nuova sessione di pulizie. Tutto doveva essere perfetto, per non interferire con il sottile equilibrio di concentrazione che il coro stava faticosamente sostenendo. Mentre si trovava di fronte all’ingresso, sentì qualcuno bussare alla porta. Non c’erano servi nei paraggi da chiamare. Si avvicinò per aprire di persona. Si fermò solo per sentire l’eco soffocato del canto. Era tutto nella norma. Aprì la serratura con un’altra chiave, e diede una sbirciata aprendo di un dito la porta.
Cinque Lance Imperiali. Non aspettavano visite, pensò.
«Buonasera signori. Siete qui per recapitare un messaggio?» chiese Nector. Non le riconobbe. Di solito, Asaeld mandava sempre le stesse Lance quando doveva comunicargli qualcosa. Cinque facce nuove.
«Asaeld sta incontrando qualche difficoltà inaspettata al fronte. Ha dovuto chiedere un appoggio a noi che siamo di stanza a Cambria» rispose il più giovane e grosso di loro. «Mi chiamo Denor, maestro. Ho con me un’importante missiva di Asaeld, firmata dall’Imperatore in persona. Abbiamo ricevuto l’ordine di consegnarvela con estrema urgenza.»
«Firmata da Loralon?!» chiese stupito Nector. «Di cosa si tratta?»
Il cantore si rese conto di essere ancora nascosto dietro la porta. La aprì del tutto e fece entrare i cinque soldati. Le armature cigolavano per l’umidità. I loro mantelli puzzavano di pioggia vecchia.
«Scusate la mia cautela… dobbiamo mantenere la nostra riservatezza.»
«Non c’è dubbio» rispose Denor mentre si guardava intorno. Le altre quattro Lance avevano fatto un passo indietro allontanandosi fra loro. «Vi eravate nascosti proprio bene. Per trovarvi, ho dovuto chiedere a un vecchio amico inconsapevole…»
«Cosa?» chiese perplesso Nector.
«Non importa…» rispose Denor sorridendo. Con uno scatto fulmineo gli strinse le mani al collo. Nector crollò atterrito in terra. L’enorme Lancia lo schiacciò con il suo peso e gli piantò i pollici dentro la gola.
«Ora la facciamo finita.»
Il collo di Nector si spezzò fra le sue dita. Denor si rialzò schiacciandogli lo sterno sotto il tacco d’acciaio.
«La mia Lisea è morta per colpa della vostra pioggia» mormorò al cadavere. Le altre Lance scattarono verso il fondo del corridoio, seguendo il basso mormorio soffuso del coro chiuso nel salone. «Morte alle Lance» mormorarono all’unisono. «Lunga vita all’Imperatore…»
Denor invece tornò alla porta, canticchiò sommessamente a mani giunte e plasmò una fiamma dai palmi. Si piazzò di fronte alla porta aperta e prese a ondeggiare le braccia verso le campagne. La punta della fiamma armonica lambiva in altezza l’orlo delle mura. Sperò che da fuori avessero visto il segnale e tornò dentro. Tutti gli altri stavano solo aspettando che loro prendessero il controllo della villa.
Lisea si era ammalata ai polmoni per colpa di quella pioggia letale. Era morta a causa delle conseguenze di Lungo Inverno. E lui, che aveva sempre sognato di essere una Lancia, era impazzito di rabbia. Non approvava, come tanti altri, quel modo terrificante di combattere. Uccidere il popolo con il gelo, fiaccare la propria gente fottendosene degli effetti collaterali. Il dolore lo aveva spinto a cercare conforto fra chi credeva fermamente che le Lance al comando di Asaeld non stessero più servendo l’impero, che fossero tutte traditrici di Cambria. Asaeld era dietro a Lungo Inverno, l’aveva costruito con le sue mani insieme ai cantori dell’Arcana. Stava corrompendo le ambizioni dell’impero piegandole e adattandole al suo volere.
Denor si era unito a chi credeva che Loralon fosse in pericolo, accusato dal popolo come ingiusto mandante di Lungo Inverno, minacciato dalle stesse Lance che gli avevano prestato giuramento eterno. Aveva appoggiato la causa degli stessi che avevano attentato alla vita degli uomini di Asaeld direttamente nei campi del fronte, o in battaglia. Non erano traditori, bensì lealisti all’Imperatore. Volevano spurgare il marcio che covava nell’esercito, dalle fondamenta ai vertici. Erano loro i colpevoli delle sparizioni di giovani Lance dalla città, e degli attacchi compiuti contro Dunwich, il pupillo di Asaeld. Non erano più in pochi. All’inizio erano solo cospiratori, ma dopo tutti quei mesi di agonia umida la loro influenza era cresciuta. Fino ad abbracciare gente come Denor, che prima aveva seguito le parole di Asaeld senza mai fiatare.
Lungo Inverno era una sua idea per ottenere più potere, pensò Denor affannato dalla tensione. Doveva darsi una mossa. Sentiva che i suoi compagni stavano tentando di forzare l’ingresso al salone delle armonie. Le voci dei cantori si erano smorzate. Qualcuno stava chiedendo aiuto. Fuori, i soldati della guardia di Asaeld stavano convergendo verso la villa.
Il canto di Lungo Inverno si era concluso in una melma di urla stonate.
***
«NO!»
Mordraud vide Saiden raggiungere il portone delle mura. Lo aveva spinto senza fatica, in silenzio. Decise di agire, e scattò verso di lui. Alzò involontariamente le braccia per pararsi il volto, come se si aspettasse una frecciata da una delle tante feritoie che crivellavano la parete. Non accadde nulla. Mordraud, disorientato, entrò a seguito di Saiden, che stava camminando tranquillamente verso l’ingresso. Il sentiero di ghiaia era appesantito da una nebbiolina densa. Fra la bruma, Mordraud notò qualcosa. Portò la mano alla spada e la sguainò. Saiden si voltò verso di lui ridacchiando.
«Non serve a niente. Ci ha già pensato qualcun altro.»
Mordraud si chinò verso la massa scura fra le ombre. Era la testa di un uomo, attaccata al resto del corpo solo per un filo di carne sanguinolenta. Era morto da un giorno al massimo. Forse meno. Mordraud tenne la spada in mano. Chi l’aveva ammazzato poteva essere ancora nei paraggi.
«Ne vedi altri?» chiese a Saiden.
«Dappertutto» disse il maestro guardandosi intorno. Lui invece non vedeva quasi niente per colpa della nebbia. Gli occhi di Saiden avevano qualcosa di inquietante. Neri, ma allo stesso tempo curiosamente trasparenti. Dentro galleggiavano, o almeno così parve a Mordraud, sottili bavette di luce che si attorcigliavano in piccoli gomitoli fluidi. Cosa stava vedendo di preciso, si chiese disturbato. “La morte?” pensò.
Non era sicuro di volerlo sapere.
Mordraud tornò indietro per fare un cenno a Gwern di alzarsi e seguirli. Lui lo aveva già fatto, ma non era passato attraverso la porta sulle mura. Stava aspettando che suo fratello gli desse il via. Non ce l’aveva fatta a restarsene sdraiato ad aspettare, ma allo stesso tempo non aveva la minima idea di quello che avrebbe potuto fare, se ci fosse stato da combattere. Non sapeva fare niente. Non era nemmeno riuscito a imparare come Saiden avesse fatto a sentire la risonanza di Lungo Inverno.
«Non c’è più nessuno?!» gli chiese perplesso.
«Sembra di no» rispose Mordraud, più confuso di lui.
«Cosa può essere successo?!»
«Eldain deve aver scoperto dove si nascondevano i cantori…»
«No, non credo» esclamò Saiden da dentro la casa. Era sull’uscio, a cavallo di un cadavere in armatura disteso su un altro più magro. Mordraud corse da lui lasciando Gwern sul vialetto.
«Una Lancia…» esclamò Mordraud tirando, dentro di sé, un sospiro di sollievo. Se fosse toccato a lui attaccare la villa, si sarebbe dovuto inventare un modo piuttosto elaborato per non crepare. Chiunque fosse stato ad anticipargli, probabilmente aveva salvato loro la vita.
«La porta era aperta» mormorò Saiden sorridendo stupito. «Qui non ci sono segni di barricate, nessuno ha provato a sfondare dall’ingresso. I cantori devono aver aperto di loro iniziativa.»
«E com’è possibile?! Non credo che siano tanto stupidi…»
Saiden scostò con un piede il cadavere. Un uomo parecchio grosso, belloccio. Morto trafitto da una fiammata in piena schiena. Gli aveva perforato i polmoni cauterizzando una voragine circolare perfetta.
«Chiunque ha attaccato questo posto, si è fatto prima riconoscere come alleato. Come una Lancia… o come tante…»
«Eldain non darebbe mai un ordine simile. I nostri ragazzi non saprebbero come comportarsi» ribadì Mordraud. Saiden annuì perso nei suoi ragionamenti.
«Prima hanno fatto breccia senza combattere, poi hanno preso il controllo dell’ingresso e hanno fatto entrare i rinforzi. Per questo motivo, il prato è una carneficina. Ma qualche cantore deve aver opposto più resistenza del previsto…» Saiden indicò la tremenda ferita. «Pazzesco, Cambria si è fottuta da sola…»
«Pensi che sia stato qualcuno… dall’interno?!»
«No, è improbabile» rispose stupito Saiden. «Credo che sia stato qualcuno del popolo. In fondo, la situazione qui non sembra più rosea che da voi al fronte.»
«Loro non hanno la neve!» esclamò indignato Mordraud.
«Ma hanno la pioggia. E fa altrettanto male ai campi, fidati…» rispose Saiden ridacchiando da solo. «L’Imperatore ha esagerato.»
«Dobbiamo controllare che non ci siano ancora cantori all’opera» esclamò Gwern. Mordraud annuì e lo anticipò lungo un corridoio che terminava in una pesante porta blindata. Saiden li seguì restando indietro, fissando attentamente le loro schiene. Ancora nulla di nuovo, pensò. “Peccato… speravo di ottenere di più.”
Mordraud controllò la serratura. Era stata rotta. Qualcuno doveva aver richiuso la porta dopo averla forzata. Fece arretrare gli altri e caricò un calcio. Tempestò la porta lanciandosi contro con tutto il suo peso. Alla fine saltarono via i cardini, e lui ruzzolò dentro una grande sala buia. Ogni rumore era ovattato, soffocato dalla lana compatta che era stata inchiodata alle pareti. Non vedeva niente. Sentì soltanto un debole fruscio di piedi. Suo fratello, pensò. Gwern lo raggiunse e lo aiutò a rialzarsi. Saiden restò defilato indietro, sull’uscio aperto. I suoi occhi brillavano di bianco. Lui era in grado di scorgere perfettamente ogni dettaglio della stanza, anche se le tende erano tirate e le candele si erano consumate in larghe pozze rosse.
C’era qualcun altro con loro, chino in un angolo. Un uomo di mezza età, fisico molliccio e stempiato profondamente. Per terra, vicino a lui, tutti gli altri coristi di Cambria sventrati e sbudellati. Era talmente buio che i due fratelli non si erano ancora resi conto di essere circondati da corpi massacrati.
Saiden non fece e non disse nulla.
«Meglio aprire una finestra» disse Mordraud.
«Vado io…»
Gwern si irrigidì a fianco del fratello. Sentirono nitidamente entrambi le prime note di una melodia faticosa, sanguinolenta. Mordraud lo abbracciò e si tirò indietro. Saiden sorrise estasiato. Il cantore di Cambria si era tirato su in ginocchio e stava completando la breve armonia di morte.
Una bolla di fuoco bianco esplose dalle sue mani e si schiantò su di loro.
«Magnifico!» mormorò Saiden coprendosi il volto con le mani. Il calore era assurdo. E lui non era stato nemmeno coinvolto nella risonanza. Tenne però gli occhi fissi sui fratelli. Mordraud, senza dire una parola, aveva abbracciato Gwern e l’aveva ribaltato verso la porta. Il fuoco divampò tutt’intorno a loro e incendiò la lana alle pareti. Il boato incrinò i vetri delle finestre, che deflagrarono schizzando di vetro il prato invaso di cadaveri fradici.
Quello che vide Saiden andava oltre ogni sua esperienza secolare.
Il Flusso gli mostrò quello che accadde veramente. Dal petto di Gwern schizzarono istantaneamente fuori miriadi di fili di luce, che si chiusero a scudo dietro entrambi i fratelli. Loro non li videro, non si accorsero di nulla. Il fuoco si scontrò contro il Flusso e venne annichilito dalla sua potenza. Fu letteralmente divorato, consumato in una nube di leggere scintille bianche.
Mordraud e Gwern volarono contro la parete carbonizzata, sospinti dal pauroso urto fra la bolla di fuoco e lo scudo di Flusso.
«Forte… meravigliosamente forte…» sospirò Saiden.
Il cantore si era rialzato in piedi. Sanguinava dalla pancia e in faccia. Era stato ferito, probabilmente era svenuto e gli assalitori non si erano accorti che fosse ancora vivo. Il baccano che Mordraud aveva fatto per entrare doveva averlo svegliato dal suo torpore. Saiden approfittò del momento. Fissò malevolo il cantore, e dai suoi occhi sgusciarono due trecce di luce che si avvolsero intorno al collo dell’uomo ferito. Lui stava già tentando di cantare di nuovo, ma il Flusso lo strozzò senza scampo. Le sue mani strinsero il vuoto, quando tentarono inutilmente di afferrare le trecce bianche e opalescenti.
In pochi istanti, Saiden riversò dentro il cantore una fiumana di luce, passando dai pori della pelle, dalle orecchie, dalla bocca aperta in un sogghigno di stupore. Poi, prima che i due fratelli avessero modo di vedere quello che stava facendo, abbandonò la presa del Flusso intorno al collo del malcapitato, e le trecce svanirono.
Il cantore restò immobile in piedi. Gli occhi totalmente svuotati di volontà. La pelle tirata e pallida. Era ancora vivo solo perché non aveva avuto il tempo di raggiungergli il cuore. Ma era soltanto un inganno di sangue e respiro inconsapevole.
«Cos’è successo?!» gridò Gwern stordito dall’urto. Mordraud non rispose. Si voltò di scatto, e grazie alla luce che filtrava dalle finestre sbriciolate, vide il cantore in piedi, minaccioso e con la bocca aperta pronta per cantare. Urlando inferocito gli saltò addosso. Lo trascinò in terra e gli piantò i pollici negli occhi. Lui non oppose alcuna resistenza, nemmeno la minima tensione dei muscoli. Mordraud ebbe modo di brutalizzargli il volto in tutta tranquillità, piantandogli le unghie nei bulbi oculari, sfondandogli il cranio per terra con forza bestiale. Non si fermò neppure quando in mano non gli restava altro che cartilagine e pelle cascante. Saiden dovette strapparlo di forza dal cadavere maciullato.
Ma non riuscì a tenerlo fermo a lungo.
Mentre Gwern si tastava scosso le braccia e il collo, incredulo di essere ancora vivo, Mordraud sembrava uscito di testa. Sfilò la spada e prese a impalare tutti i cantori morti. Li trapassò uno a uno, in bocca. Sorrideva feroce mentre la sua lama segava via i denti e le mascelle serrate dei cantori scomposti in terra. Li ribaltava con un calcio quando erano supini. A volte strappava via la spada con una forza tale da far ruzzolare lontano parte della testa staccata di netto dal filo d’acciaio.
«Io… vi odio… BASTARDI!»
«Basta Mordraud! Fermati!» urlò Gwern. Saiden si fece di nuovo indietro. Non tentò di bloccarlo. Era più interessante osservare quello che stava succedendo. Il gomitolo di Flusso nel petto di Gwern era incredibilmente rimpicciolito. Era diventato microscopico, una lacrima di luce che si agitava mollemente dietro il suo sterno. Entrambi erano illesi, non erano stati sfiorati nemmeno alla lontana dal calore estremo e dalle fiamme concentrate della bolla d’armonia.
Doveva essere stato un sforzo notevole contrastare quella risonanza, pensò Saiden portandosi una mano al mento.
«Mordraud!» gridò ancora Gwern. Afferrò la mano del fratello, ma lui finì di sfigurare l’ultimo cadavere prima di dargli ascolto. «Siamo stati maledettamente fortunati, fratello» ansimò lui, madido di sudore freddo e con gli occhi sgranati dal panico. «Ci ha mancato, altrimenti a quest’ora saremmo morti!»
«Ci ha mancato?!» esclamò Gwern stupito e confuso. Lui aveva avuto l’impressione netta di essere stato travolto in pieno. Era la prima volta che gli capitava di scontrarsi con un armonia di guerra. Mordraud gli aveva raccontato quanto fossero letali, ma ne erano usciti entrambi senza un graffio.
«Ci ha mancato di sicuro, non c’è altra spiegazione» ribadì lui. Mollò un ultimo calcio al primo cadavere che ebbe a tiro, e solo allora rinfoderò soddisfatto la spada. «Passiamo in rassegna la casa. Tutta. Dobbiamo essere sicuri che non ne sia rimasto vivo uno. Nessun cantore deve più intonare qualcosa qui dentro.»
Mordraud corse verso la porta. Si imbatté in Saiden e si fermò perplesso. Era come se si fosse dimenticato della sua presenza. Pazzesco, pensò. Erano ancora tutti vivi, dopo un’esplosione violenta come quella.
«Non hai fatto in tempo a intervenire?»
«No, l’ho notato solo all’ultimo momento. State tutti bene?» chiese Saiden. La sua voce non tradì la minima preoccupazione.
«Sì… almeno credo…» rispose Gwern tastandosi di nuovo le braccia. Si sfiorò anche il petto, un gesto che non sfuggì a Saiden. Lui sorrise e si chinò per fissarlo dritto negli occhi.
«Complimenti…» mormorò sogghignando divertito. Mordraud si guardò intorno spaesato. Anche Gwern non riusciva a capire cosa volesse intendere il suo maestro. Perché fosse così soddisfatto di lui.
«Complimenti per cosa?! Non abbiamo fermato noi Lungo Inverno! Non sappiamo nemmeno chi sia stato!» esclamò Mordraud.
«Oh, non importa… complimenti lo stesso…» concluse Saiden avviandosi verso l’uscita della sala. Lì avevano finito. Potevano tornare a casa, pensò.
Quello che voleva vedere, ora l’aveva visto.
***
Larois era china a terra per raccogliere un secchio di neve da sciogliere sulla stufa. Le mani spaccate dal freddo le facevano un gran male, ma era l’ultimo dei suoi problemi. Tutto il suo corpo era a pezzi, sfibrato dalla fame e dagli stenti. Le ginocchia quasi non la reggevano più, ed era una fortuna che la taverna fosse chiusa da mesi. Non sarebbe stata in grado di lavorare. Aveva finito la legna da un pezzo, e ormai la stufa restava accesa solo grazie alle assi che aveva staccato dalle pareti della taverna. Ne aveva ancora due o tre al massimo. Un paio di giorni, poi sapeva già come sarebbe andata a finire. Una bella notte non si sarebbe più svegliata. Iniziava a sperare che quel momento non si facesse attendere. Non ce la faceva più a tirare avanti in quel modo.
Mentre raccoglieva la neve con le mani, Larois si guardò intorno. Eld era un cimitero a cielo aperto, un vecchio sepolcro abbandonato nelle campagne che il mondo intero aveva dimenticato. Dai comignoli non si alzava il fumo, dalle finestre non giungevano le voci delle famiglie raccolte intorno alle tavole imbandite. I morti non si contavano più, e non venivano nemmeno seppelliti. Era una fatica inutile. Arrivava il turno per tutti, e mancavano le persone con ancora le forze necessarie a scavare.
“Chissà come stanno i ragazzi…” pensò amareggiata. Ormai non li vedeva da tanto tempo. Sapeva che Mordraud stava facendo carriera nell’esercito, e che un paio di volte aveva sfiorato la morte. Di Gwern invece non sapeva più nulla. Quel pensiero non fece altro che peggiorare il suo umore. Non avrebbe voluto morire da sola. Era la cosa peggiore che le sarebbe potuta capitare. Fu proprio mentre cercava di ricordare il volto sorridente del suo caro Gwern, che le capitò di incrociare con lo sguardo i gradini di pietra spaccata che portavano all’ingresso di casa sua.
Fra le crepe, un sottile stelo verde ondeggiava nella brezza.
«Non è possibile…» mormorò senza fiato.
Era un filo d’erba. Uno stupendo, strepitoso, divino ciuffo di erbaccia.
Larois restò per lungo tempo in ginocchio a contemplare quel miracolo. Non vedeva un colore diverso dal bianco e dal grigio da così tanto tempo che i suoi occhi non erano più abituati a sopportarne l’intensità. Sembrava irreale, un’allucinazione dovuta alla fame. Si alzò e sfiorò la piccola piantina. Era tutto vero.
La neve stava cedendo. La natura lottava per tornare alla luce dopo mesi di vergognosa clausura.
«La primavera!» gridò fuori di sé.
«Arriva la primavera!»
Larois corse come mai aveva fatto in vita sua. Attraversò le vie silenziose di Eld scalpicciando nelle pozze di ghiaccio che stavano perdendo consistenza, ridendo a squarciagola e urlando come una malata di mente.
«Arriva la primavera!»
Facce scarne spuntarono dalle finestre rattoppate di stracci. Come bestie dopo un lungo letargo, uomini e donne sopravvissute uscirono di casa a passo timoroso, incredulo. Fra le nubi fece capolino, timidamente, un pallido sole. «Arriva la primavera! Arriva la primavera!» ripetevano in coro, prima solo per imitazione, poi con sempre maggior foga.
«Arriva la primavera!»
Quelle parole passarono di bocca in bocca, e ben presto tutta Eld risuonò di grida e canti festosi. Larois continuò a correre ebbra di gioia. Non poteva crederci. L’inverno stava sfumando a velocità innaturale. Raggiunse a rotta di collo la grande villa di Adraman. Mancava solo una voce al canto del feudo ferito. La trovò nel cortile, immobile di fronte a un albero spoglio. Dai rami piovevano gocce di neve disciolta. Cadevano sui suoi capelli, sulle sue spalle piegate sotto un cumulo di pellicce rinsecchite.
Deanna stava guardando rapita una piccola gemma verde e oro, aggrappata a un ramo nel disperato tentativo di vivere. Si teneva le mani raccolte sulla pancia, e stava piangendo.
«Arriva la primavera, Deanna! È finita! L’inverno è finito!»
Larois le corse incontro incespicando fra la neve fradicia. Deanna si voltò verso di lei, ma i suoi occhi erano da un’altra parte. Assenti.
Spenti da una patina di follia.
Le sue mani si strinsero ancora di più sulla pancia. Deanna si piegò digrignando i denti, squassata da conati brutali. Vomitò china sulla neve, tossendo debolmente.
Larois la raggiunse e la aiutò a risollevarsi. Deanna era senza forze, pallida e tremante. Solo la sua bocca sorrideva. Tutto il resto del suo viso era una maschera di dolore.
«Per gli Dei, piccola mia…» le sussurrò accarezzandole i capelli arruffati e sporchi «perché non me l’hai detto prima?! Oh, Deanna…»
Larois la strinse forte a sé, reggendola pietosamente in piedi.
«Sei incinta…»