Prologo

 

 

 

Beril stava giocando nel cortile assolato. La ghiaia bianca frusciava sotto i suoi sandali di cuoio. Nascosti fra le fronde dei castagni, due scoiattoli si stavano rincorrendo lungo i rami. Un cagnetto color sabbia seguiva la sua corsa dall'ombra di una casetta di legno. Ogni tanto si alzava e zoppicava lentamente verso una ciotola d’acqua. Leccava avidamente senza togliere gli occhi di dosso al bambino. Le galline starnazzavano quando lui piombava fra loro agitando vorticosamente le braccia.

«C'è tuo padre in casa?»

Beril si fermò vicino a un grosso cespuglio di rosmarino e sbirciò dentro. Rella era venuta a trovarlo.

«Sì, è dietro con mio zio. Vieni fuori di lì, ti stai riempiendo di ragni.»

«Allora?! Non mi fanno paura!»

Beril si infilò sotto il rosmarino e le toccò il mento. La ragazzina si tirò indietro disgustata e lo spinse via. Lui ridacchiò e le mostrò la lingua.

«Lo sai che mi fa schifo. Non toccarmi la faccia.»

«Sì, ma è divertente vedere che ti offendi.»

Rella incrociò le braccia offesa. Piccola e magra, i capelli biondi scarmigliati e sporchi. Lentiggini sul naso. Un lungo taglio che partiva dalla fronte e solcava l'occhio sinistro. Non riusciva a tenerlo aperto del tutto. L'altro brillava di verde e azzurro acqua.

«Perché vuoi sapere se c'è mio padre?»

«Lui non mi vuole qui intorno.»

«Ma non è vero…»

«Sì che è vero!» bisbigliò Rella. «Anche a tua mamma non sto simpatica.»

«Questo lo dici tu, non conosci bene mia mamma.»

«I tuoi genitori sono strani.»

Beril si rabbuiò distogliendo lo sguardo. Rella lo fissò con aria di sfida. Poi, come se non avesse detto e fatto niente, gli pizzicò un braccio con tutta la forza che aveva. Si divertiva a farlo perché le sembrava di stringere un sacchetto di sabbia. La pelle di Beril aveva una consistenza particolare, che le faceva venire voglia di morderla.

«Dai, sto scherzando. Però devi ammettere che tuo padre è un po’ inquietante. Non ti fa mai paura?»

«Paura?! A me?»

«È che gira sempre con la spada…»

Beril scrollò le spalle e sbuffò sprezzante. «Mio padre è un grande guerriero. Merita di avere la sua spada vicino.»

«Te l'ha detto tua mamma vero?»

«Sì.»

«Si vede che stanno bene insieme. È una cosa bella» mormorò lei.

Beril impazziva per Rella. A lui piaceva da matti. Non solo perché era l'unica bambina che avesse mai conosciuto. La considerava come una sorella. Avevano la stessa età. I capelli di Beril erano di un colore bizzarro, sfuggente. Un nero molto lucido con pesanti riflessi ramati. La pelle chiara e perfetta, senza un segno. Lei invece era bionda e perennemente abbronzata. A parte le differenze nell’aspetto, condividevano tante passioni. A Rella piaceva stare fra le lucertole e le formiche. Beril adorava contemplare gli uccelli. Aveva scelto un nome per ognuno di essi. Glieli aveva dati lui insieme a sua madre. Il gioco di tanti pomeriggi oziosi.

Gli sarebbe piaciuto che Rella potesse passare più tempo con lui e la sua famiglia. Le avrebbe fatto bene. Lei viveva da sola con suo padre. Lei non parlava mai di lui. Diceva che non era stato lui a farle il taglio in faccia, ma Beril non le credeva. Rella si arrabbiava da morire quando lui tirava fuori quell'argomento.

«Dai, raccontami di quando hai visto il mare del Nord.»

Beril si schiarì la voce. Rella si sedette sulle gambe e si ritagliò un posto comodo sotto la cupola di rosmarino profumato.

«Allora, ero con mia mamma e mio papà. Abbiamo visitato Telatias e poi ci siamo spinti fino a Syl.»

«A Syl?! Davvero?»

«Te l'ho detto… mio padre è un grande guerriero, non ha paura di niente» rispose Beril gonfiando il petto.

«Ma ci siete entrati?»

«Non tutti, solo lui. Io e la mamma abbiamo aspettato fuori. Poi siamo andati a Nord verso un paesino sperduto fra gigantesche montagne di ruggine.»

«Montagne di ruggine?!»

«Beh, erano rosse e quando le ho toccate mi sono sporcato le mani… come quando prendi una ferraglia…»

«Va bene, e poi?»

«Io sono stato in spiaggia con mio padre mentre lei andava a parlare con qualche pescatore.»

«Ma che cosa voleva sapere?!» gli chiese Rella.

«Oh non lo so, io non ho sentito niente. Ho passato tutto il giorno in spiaggia. Era freddo… c'erano delle grosse conchiglie lunghe così…» Beril mimò una mostruosità cilindrica e fece finta di parlare con le mani. «Pensavo che mi avrebbero urlato qualcosa. Lasciaci giù, lasciaci giù

«Ma avete girato tanto?»

«Ti ho già raccontato mille volte…» provò a dire Beril, ma Rella gli chiuse le labbra con il dito.

«Non abbiamo niente da fare, giusto?»

Beril sospirò e riprese a parlare gesticolando fitto.

«Siamo stati dappertutto. Anche a Calhann. Lì ho vissuto quasi un anno. Ma non ho visto molto, stavo sempre in casa. Mi hanno fatto studiare un sacco di libri. Non so cosa dovessero fare loro, non li vedevo quasi mai insieme. Uscivano di continuo.»

«E tu con chi stavi?»

«Da solo!» rispose Beril. «Non ho bisogno di nessuno, so cavarmela.»

«Sì, certo.»

«È così! Non avevo paura nemmeno quando ho visto il lago nero di Syl!»

«E loro li hai visti?!»

Beril tossicchiò e fece segno di sì con la mano.

«Qualcuno… un paio…»

«E com'erano?!» chiese eccitata Rella.

«Ecco, niente di speciale, diciamo…» borbottò lui.

Rella scoppiò a ridere e gli pizzicò di nuovo il braccio, poi la guancia. Era l'unica che avesse il coraggio di fissarlo negli occhi, pensò Beril confuso dal contatto delle sue dita sulla pelle.

«Beril! Dove sei?!»

«Mia mamma…» sussurrò lui. Fece segno a Rella di stare zitta e uscì strisciando.

«Stavo giocando…»

«… con Rella» concluse subito lei. «Vieni fuori anche tu! Là sotto è pieno di ragni.»

«Io non ho paura dei ragni!» esclamò sdegnata Rella mentre sgusciava fuori a carponi dal cespuglio.

«Lo so, a te spaventano solo i gufi» disse lei sorridendo. Beril guardò sconvolto la ragazzina, che strisciò i piedi in terra e negò clamorosamente. Come faceva a saperlo, si chiese indispettita. I gufi erano tremendi, non riusciva a dormire se ne sentiva uno vicino.

Lo stava soltanto pensando. Come faceva lei a saperlo, si chiese di nuovo.

«Se non ti va un bicchiere di latte e un po' di pane dolce… puoi anche tornare in paese.»

Rella annuì docilmente. Pane dolce. Quello che preparava lei era troppo buono. Non valeva la pena rinunciarci per un capriccio.

«Ora venite dentro. Io accompagno Rella in cucina. Tu vai da papà. Tuo zio vuole vederti.»

«Ah sì?!» esclamò euforico Beril. Adorava suo zio. Era sempre una festa quando passava a salutare la famiglia. Gli portava sempre qualche nuovo gioco. Li trovava in giro per i mondi. Era proprio lui che li chiamava così. I mondi. Altri continenti lontanissimi e assolutamente fantastici, almeno nella sua immaginazione. Ne parlava spesso con suo padre, quando passava a salutarli.

«Ma tua mamma sa sempre tutto?» chiese Rella a Beril, che annuì con un sorrisetto.

«Sì, non le sfugge niente.»

La casa era stata finita da poco. Suo padre aveva scelto un posto particolare, sopra i resti carbonizzati di un’altra vecchia dimora. Si era fatto aiutare da qualche manovale del paese. Molta gente era disposta a lavorare per due soldi e un po’ di cibo. Tutti profughi, pensò Beril. Era un periodo difficile per gli imperiali, gliel’aveva spiegato suo padre. Perdevano campi ogni giorno. Venivano scacciati dalle fattorie delle loro famiglie e venivano perseguitati, catturati. Uccisi. Peggiorava di anno in anno. E lui non era ancora nato quando erano iniziati i primi problemi. Suo padre diceva sempre che erano già passati vent’anni. Da cosa, Beril non lo sapeva.

A lui piaceva come avevano costruito le stanze. Si sentiva a suo agio con le essenze dei legni che avevano usato per il pavimento e il tetto. Una tinta ciliegio e una più chiara, color bronzo lucido. Suo padre gli aveva raccontato che erano stati lui e sua madre a tirare su la casa proprio lì, dentro il bosco che ammantava i crinali di quelle colline sperdute. L'avevano costruita nelle pause fra un viaggio e l’altro. Beril viveva in una vera casa da pochi anni. Il resto della sua infanzia l’aveva passata in giro con loro, vagando da una città all’altra. A Ovest fino a Syl, a Sud verso Serana e anche oltre. Avevano navigato nel mare interno e avevano anche raggiunto le lande della Serpe. Ma non si erano fermati a lungo in quella zona. Suo padre odiava quel posto.

«Tieni da parte un po' di pane dolce anche per me» chiese a sua madre. Lei annuì e fece accomodare Rella, che continuava a fissarla titubante. Era perché lei non aveva una mamma, si disse Beril. Non era abituata. Le lasciò sole e si diresse alla porta che conduceva alla rimessa sul retro. Bussò e attese paziente un invito a entrare. La porta si aprì nel silenzio e Beril si trovò di fronte suo zio.

«Ciao Gwern!»

«Ehi nanetto, sei cresciuto…»

«Non chiamarmi così, anche tu non sei tanto alto!»

«Sempre più di te, no?» rispose lui con un ghigno freddo.

Lo seguì dentro la stanza. In un lato c'erano gli attrezzi. Le seghe, i martelli e i lunghi chiodi di ferro. Dall'altra parte svettavano tre bauli impilati. Beril non poteva aprirli. Non sapeva cosa contenessero. Aveva sempre pensato che fossero tesori di guerra. Le corone dei Re che suo padre aveva sconfitto. Lui era seduto al tavolo quadrato al centro. La grande porta che dava sull’aia era chiusa, e da due finestrine di vetro opaco filtrava una luce gialla e satura.

«Sei stato bravo con la mamma?»

«Bravissimo! Vero papà?»

Lui annuì con grande convinzione. «Visto?!» incalzò Beril. «Allora, cosa mi hai portato?»

«Quanta fretta! E va bene…» suo zio frugò in una sacca che portava alla cintura. Tirò fuori una curiosa forma azzurra e scintillante. Era liscia e pesante. Beril prese in mano quell'oggetto misterioso e se lo rigirò fra le dita.

«È una trottola. Ed è azzurra perché è fatta di un materiale preziosissimo.»

«Davvero?!»

«Certo, davvero!»

Beril ammirò suo zio lanciare la piccola trottola sul tavolo. Volava sul legno con un piacevole fruscio di pietra levigata. Era sempre felice quando lui riusciva a tornare a casa. Non si fermava più di qualche giorno alla volta. Passava, riposava e ripartiva. Beril non stava mai con lui e suo padre quando trascorrevano la notte nella rimessa. Parlavano fino all’alba con sua madre e lui doveva starsene da solo in cucina, vicino al camino. Non si annoiava, perché riusciva comunque a seguire i loro discorsi. Non sapeva bene come, però. Era un’eco che giocava con i corridoi e le stanze della casa. Non riusciva a capire tutto, solo delle lunghe descrizioni ricche di caotici dettagli. Scene molto precise di battaglie incredibili e massacri eccitanti. Un mucchio di sangue.

Beril si rigirò la trottola fra le mani. «Da dove viene?!»

«L'ho presa a Ankhar» rispose lo zio Gwern sorridendo compiaciuto. «In una città che si chiama Kharan. È sulla costa del loro oceano dell'Ovest. Lì vicino ci sono delle scogliere alte quanto dieci alberi, e sono tutte nere.»

«Nere?!» esclamò Beril. Le vide nei minimi dettagli. Poteva sentire quel particolare sapore di nero nelle budella, sulla lingua. Era come se le parole di suo zio fossero condite di colori. Non sapeva esattamente se fossero dolci o salate. Non ne era sicuro.

Gli capitava spesso di confondere i sensi.

«Proprio così. Ti piace?»

«Sì, è bellissima! Grazie zio!»

«Ora vai dalla mamma, so che ti ha fatto il pane dolce. Lasciami parlare un po' con tuo padre, dopo ceniamo tutti insieme.»

Beril corse via giochicchiando con la trottola fra le dita, e si chiuse la porta della rimessa alle spalle.

Gwern e suo fratello Dunwich si fissarono in un teso momento di silenzio.

«È cresciuto molto. Quanti anni ha?» esordì Gwern, quasi sovrappensiero.

«Dodici» rispose Dunwich.

«È già passato così tanto?»

Lui annuì lentamente. Osservò preoccupato il volto contratto di Gwern. I ruoli sembravano essersi invertiti. Gwern era alto come lui anche se era più esile. Le rughe sulla fronte, i capelli vagamente radi e color stoppa striati di un bianco sporco. Sembrava un ragazzino cresciuto e invecchiato troppo in fretta. Sul collo e ai lati degli occhi grigi si riconoscevano ancora le cicatrici bianche e nodose dove il Flusso si era sparso nella carne per salvarlo. Era quasi morto, quel giorno sul dirupo. Non si era mai più ripreso. Camminava zoppicando lievemente. La voce era diventata rauca e faticosa. Ma più di tutto il resto, il suo sguardo era davvero cambiato nel profondo. Freddo, critico. A tratti crudele.

Dunwich invece era invecchiato poco. Vent’anni passati senza quasi lasciare il segno. Qualche ruga e i capelli un po’ più grigi, ma era ancora alto e atletico come allora. Il suo volto si era addolcito. Non si guardava più intorno come se dovesse essere sempre pronto a sguainare la spada. E parlava meno, con tono più basso. Sembrava lui il fratello minore di Gwern, non il contrario.

«Sembra proprio che il mio tempo scorra più velocemente del tuo, Dunwich.»

«Anche su Beril» rispose lui. «Quando avevo la sua età, sembravo molto più piccolo di lui. E dire che dovrebbe aver poco o niente sangue Khartian nelle vene.»

Gwern annuì lentamente sorridendo storto. Era davvero cambiato tanto, pensò suo fratello. Non somigliava nemmeno lontanamente al ragazzo con cui aveva condiviso la tragedia di Cambria. Più strafottente, mostruosamente più cinico. Parlava a sussurri e mezzi sorrisi tirati. Gli occhi grigi che scrutavano la realtà come se vedessero altro, più e meno dettagli allo stesso tempo. Lo sguardo del Flusso sovrapposto al suo, pensò.

Era un uomo invecchiato male. Forse perché viveva sulla strada da vent’anni, si disse rattristato. Non si era mai fermato da allora. Viaggiare, solo viaggiare. Non lo invidiava affatto. Era sempre vagamente in ansia quando si presentava alla porta di casa loro. Come se non volesse ascoltare ciò che aveva visto in giro per i mondi, come a lui piaceva chiamarli.

«Da quant’è che non fai un viaggio?» chiese Gwern.

«Da qualche anno. Volevamo fermarci un po’ qui. Avere una casa, sai…»

«Casa, sì…» mormorò lui. «Hai sempre avuto una memoria di ferro, vero fratello? L’avete ricostruita identica ad allora.»

«Non ti piace?»

«No, è bella… è proprio come la ricordavo» rispose Gwern con voce piatta e distante.

«Vieni, ti faccio vedere una cosa.»

Suo fratello aprì la porta della rimessa e si fece seguire da Gwern dentro il bosco. Lui si fermò di colpo. Aveva già capito dove stessero andando.

«Non vuoi?»

Gwern annuì e si affiancò a lui, sguardo basso, le mani che si aprivano e chiudevano verso il terreno. Le bave del Flusso che colavano fra le dita tese.

«No, fammi vedere.»

Raggiunsero un grosso tronco secco. Intorno, una spianata di piccoli fiori di campo rossi. Suo fratello si fermò di fronte a una statua di legno poggiata su un piedistallo di pietra. Raffigurava una donna china su un bambino. Lui stava piangendo senza lacrime. Lei gli stava accarezzando le guance con sguardo amorevole.

«Alla fine, gli hai concesso una tomba. Ma non a nostro padre. Hai fatto bene» mormorò Gwern.

«Almeno adesso può stare con sua madre. Anche se lui non è davvero qui. Non lo meritava?»

«Sì, è stato un bel pensiero.»

Restarono in silenzio a contemplare la statua. Eglade che consolava un ragazzo moro. Si somigliavano molto. Non avevano trovato il suo corpo, ma a suo fratello piaceva immaginarlo lì insieme a lei. Quando era ritornato dopo tanti anni, e si era trovato di fronte allo spiazzo carbonizzato dove un tempo sorgeva la casa della loro infanzia, aveva ricomposto i resti di suo padre e l’aveva seppellito ancora più lontano, senza niente sopra per riconoscere la tomba fra la sterpaglia. Aveva finalmente lasciato sua madre da sola con suo figlio.

Gwern non voleva ricordare quegli anni. Nessuno di loro voleva farlo.

Era tutto iniziato allora, quando erano ancora bambini.

«Sono passati vent’anni dalla morte di Mordraud» disse Gwern con un sospiro vuoto di emozioni.

«Già» rispose Dunwich a mezza voce.

Mordraud, Libro Primo
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