XXIX
“Il lavoro è sempre lo stesso” pensò la donna seduta fuori dalla vecchia baracca abbandonata, che si affacciava sulla strada invasa dalle pozzanghere e dal fango.
“Qui, come a casa.”
I soldati erano tutti uguali, una volta conosciuti a fondo. E lei ne aveva conosciuti tanti, tantissimi, da quando lavorava. Non era più un bocciolo in fiore, ma non se la passava comunque male. A differenza delle ragazzine, lei era molto più brava a fingere. Gli uomini insicuri cercavano donne come lei. Spesso erano ragazzi spinti fra le sue gambe dai compagni più navigati. Bastava un sorriso, una carezza nel punto giusto e qualche mugolio, e il lavoro era finito.
Aveva passato così tanti anni negli accampamenti al fronte da non ricordare neppure il suo primo cliente. L’aveva portato a casa sua madre, solo per lei. Dopotutto, i servizi di una ragazza vergine potevano valere una fortuna. La guerra le aveva rovinate, portandosi via tutti i maschi della famiglia. Qualcosa dovevano pur fare per mangiare.
Alla lunga, era riuscita ad abituarsi piuttosto bene a quella vita. Difficile trovare un uomo sul Terrapieno che non l’avesse pagata per un servizio. Alla fine aveva conosciuto tutti, dal soldato semplice al capitano, ed era improvvisamente diventata una persona rispettabile. Anche lei faceva la sua parte in quella guerra. Meritava il loro rispetto. Mentre loro combattevano sul campo di battaglia, lei continuava la lotta nel retro delle tende, tenendo in piedi la volontà di chi era sul punto di cedere. Anche lei era una ribelle di Eldain, alla fine dei conti.
Lungo la strada infangata passavano di tanto in tanto i carri dei contadini, punzecchiati alle spalle da qualche svogliato cavaliere imperiale. Il mondo era andato sottosopra per colpa di Lungo Inverno, e una volta tornata la primavera, non era cambiato niente. I contadini facevano i cacciatori, i cacciatori erano diventati gendarmi, i gendarmi avevano trovato posto fra i soldati. Un giro contorto, il cui risultato era una banalità che persino lei era in grado di capire, anche se non sapeva né leggere né scrivere. Non era rimasto nessuno a coltivare la terra.
E senza il grano, l’aratro e i raccolti, l’impero non era altro che un colosso incrinato dalla fame.
Le piogge incessanti erano terminate da un pezzo, ma i campi avevano succhiato troppa acqua per riuscire a liberarsene in tempi brevi. Il cibo scarseggiava un po’ ovunque, precettato dagli esattori dell’esercito. Quella non era una grossa novità per lei. Si era dovuta abituare a mangiare molto, molto poco, quando ancora viveva al Terrapieno. In confronto, la vita vicino a Cambria era una passeggiata.
«Ehi.»
Un contadino avanzava trascinandosi dietro un carretto carico di attrezzi per lavorare la terra. La donna era brava a studiare le persone al volo. Quello non era un vero contadino. Probabilmente era un disertore messo ai ceppi.
«Quanto vuoi?»
Il gruppo era piuttosto numeroso, scortato da un’intera squadra di cavalieri. Meglio quelli che lui, pensò mentre scuoteva un dito verso l’uomo.
«Troppo per te, scommetto… magari invece, qualcuno di voi bravi ragazzi ha voglia di sgranchirsi un po’ le gambe…» disse, e ancheggiando si avvicinò al gruppo di soldati. Addosso portava solo una veste ricavata da un sacco di granaglie lavato al fiume, spaccato lungo le gambe fino alla cintola. Faceva ancora la sua figura, pensò cogliendo nei loro occhi un barlume di interesse.
«Solo per voi, oggi i prezzi sono bassi bassi…»
«Quanto bassi?» chiese uno dei più giovani. Non era affatto una bellezza, ma si sarebbe accontentata.
«Dieci ramette, oppure venti per qualcosa di più… completo…»
Il soldato sorrise sorpreso, mollò una pacca al compagno a fianco e si staccò dal gruppo. «Vi raggiungo dopo» disse agli altri che si stavano allontanando. La donna lo prese per mano e lo accompagnò dentro la casa diroccata, strusciandogli addosso il fondo schiena mentre camminavano. La sala dove lavorava non era di certo una reggia. Con un po’ di paglia aveva messo insieme un giaciglio, nel vecchio camino mezzo crollato aveva preparato la legna per accendere un fuoco, e nient’altro. Con alcune vecchie coperte aveva oscurato le crepe da cui filtrava la luce del giorno, e così anche l’unica finestra della stanza. Quando lavorava preferiva restare al buio. In quel modo, i clienti non potevano vederla bene quando si toglieva i vestiti. Mangiava quello che loro le lasciavano prima di andarsene, e beveva qualcosa da un barile che aveva trovato sul retro, che si riempiva ogni volta che pioveva. Ai topi ci pensava Artiglio, un grosso gatto spelacchiato che ogni tanto si faceva vedere intorno a casa per pranzare. Qualche volta aveva pure pensato di mangiarselo, memore del loro buon sapore. Nei primi mesi di Lungo Inverno, trovare un gatto era come vincere un premio favoloso. Infatti erano finiti subito.
«Allora… dieci, oppure venti?»
«Per questa cifra?!» rispose il giovane soldato. «Di certo venti! E se fai la brava, magari può starci anche una mancia!»
La donna armeggiò con le fibbie della sua armatura, poi si sfilò via il sacco con un solo gesto collaudato e fluido. Il ragazzo allungò una mano per scioglierle i capelli color stoppa, ma lei lo fermò con delicatezza. Non voleva che vedesse quanto fossero sporchi. Il servizio doveva essere il migliore possibile. Mentre si strusciava nuda su di lui, si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò in bocca. Il soldato subito non reagì, colto alla sprovvista.
«Ma cosa fai?! Di solito…»
«Hai pagato per il servizio completo… o no?» disse la donna leccandosi le labbra.
Fu, come sempre, una cosa rapida. Non fu nemmeno malaccio. Lo aiutò anche a riallacciarsi l’armatura dopo che ebbe finito di lavorare. Lui le diede una mancia cospicua, pari quasi alla paga, e le lasciò qualche striscia di carne salata.
«Chiedi troppo poco, lasciatelo dire. Vali più di venti misere ramette.»
Un vero gentiluomo, pensò lei.
La donna lo seguì con gli occhi mentre slegava il suo cavallo e ripartiva lungo la strada verso Sud. Il soldato si voltò per salutarla, e lei contraccambiò sorridendo. Migliore era il servizio, maggiori sarebbero stati i clienti.
«Ti sbagli, ragazzo» mormorò quando ormai il cavallo non era altro che un puntino all’orizzonte «sono anche troppo costosa…»
Perché oltre a qualche momento di piacere, lei gli aveva fatto dono di un regalo nascosto. Era quello il suo vero lavoro. I soldi, in sé, non le interessavano affatto. Tanto, lei non sarebbe vissuta abbastanza per spenderli.
Aveva appena contagiato un altro soldato imperiale.
Un ragazzo che ancora non sapeva di essersi condannato a morte da solo, pagando addirittura di tasca sua.
Venti misere ramette.
***
Nessuno aveva dato un ordine preciso. Eldain si era opposto, e con lui tanti altri. Ma la decisione era stata presa dal basso, dalle stesse persone che avevano avuto la sfortuna di ammalarsi.
Gli uomini di Eld avevano lavorato duramente per liberare i campi, le città e il fronte, dall’immane letto di carcasse putride che la neve aveva riportato impietosamente alla luce. Ma fu chiaro subito che erano troppi, così tanti da superare di gran lunga qualsiasi macabra immaginazione. Animali, soldati, intere famiglie vennero alla luce ammorbando l’aria, il vento e le case con il loro fetore. Centinaia di roghi bruciavano notte e giorno ovunque nella regione, alimentati da migliaia di carretti stracarichi di corpi marciti per il disgelo. Uno spettacolo reso più avvilente dalle ceneri che cadevano sui tetti e sulle teste dei vivi, a qualsiasi ora del giorno. Frammenti di innocenti morti che impedivano ai sopravvissuti di superare l’anno terribile che si erano lasciati alle spalle, il nero 1638.
Con l’arrivo del caldo, la situazione precipitò. Prima nei piccoli villaggi dispersi nei campi, poi in alcuni contingenti schierati lungo il fronte, per poi arrivare a Eld, si diffuse una pestilenza che nessuna erba sembrava in grado di curare. Esalava dai cadaveri come il respiro della morte stessa.
La pelle della schiena diventava grinzosa e secca. Bastava un’unghia per squarciarla e rivelare la carne che progressivamente diventava sempre più nera. Quando i primi sintomi apparivano, era già troppo tardi. I denti cadevano, gli occhi si gonfiavano fino a pendere dalle palpebre. La morte era atrocemente lenta e dolorosa. Alcuni riuscivano a resistere solo pochi giorni, altri molte settimane. Ma il loro destino, e quello di chi avevano intorno, era sempre lo stesso. Una malattia che nessuno aveva mai visto. Smossa dalle viscere della terra dalla follia dei cantori imperiali.
Eldain dovette prendere una decisione drammatica.
I villaggi che erano stati ripuliti dall’inverno, sarebbero diventate le nuove case dei malati. Cimiteri a cielo aperto, senza più alcun contatto con le città ancora vive. I suoi soldati iniziarono a rastrellare chiunque avesse anche il minimo sintomo di contagio. In molti si ammalarono, e divennero a loro volta i tristi responsabili di quel compito ignobile. I malati decisero in autonomia di gestire la situazione fra di loro. L’unica speranza di Eldain risiedeva nello spirito caparbio della sua gente.
Il primo che propose la nuova idea fu proprio un soldato. Era un veterano, uno che aveva passato metà della sua vita nel campo del Terrapieno. Una mattina non si presentò alla consueta adunata, lasciando nella sua tenda soltanto un pezzo di corteccia inciso in tutta fretta con il coltello.
Cercherò di raggiungere Cambria. Non voglio morire invano.
Per non condannare a morte i suoi compagni, era partito non appena si era reso conto di essere malato. Cambria doveva subire ciò che stavano provando tutti loro. La voce si sparse. Come in una lenta processione, i soldati che scoprivano di essere spacciati tentavano di raggiungere le terre dell’impero, per portarsi nella tomba quanta più gente possibile. I comandanti avvisarono Adraman, che si recò subito da Eldain. Il vecchio nobile sembrava ancora più anziano di quanto meritasse. Era dimagrito, e stava perdendo i capelli a velocità disarmante. Adraman non sapeva se sentirsi peggio per quella visione, o per le notizie che portava con sé.
«Cosa dobbiamo fare? La pestilenza sta dilagando, non riusciamo più a contenerla!» aveva detto all’amico quella sera, mentre cenavano insieme nei suoi alloggi.
«Non possiamo continuare a confinare i malati nei villaggi?»
«Non per molto. Abbiamo fatto tutto il possibile…»
«Tu cosa faresti?»
«Purtroppo sei tu a dover decidere, Eldain…» aveva sospirato Adraman.
«Non sempre. Ripeto, tu cosa faresti?»
Le parole di Eldain gli erano suonate stonate, ma non aveva avuto modo di rifletterci sopra. «Lascerei decidere a loro. In fin dei conti, è una loro libera scelta, quella di morire sentendosi utili.»
«Ma è un modo molto vile per colpire il nostro nemico, non credi?»
«Lo so, ma d’altronde… loro hanno fatto la stessa cosa con noi» aveva risposto Adraman.
Eldain aveva continuato con voce ancora più stanca. «Ci andrà di mezzo tanta gente innocente.»
«Anche Lungo Inverno ha macellato il nostro popolo.»
«Capisco.»
Eldain non aveva più detto altro. Adraman doveva decidere da solo cosa fare. E lo fece, non senza sentirsi morire dentro.
La diaspora dei contagiati non venne più osteggiata. Una lenta e scomposta marea di disperati prese a fluire verso i confini di Cambria, spargendosi fra i civili, nascondendosi nei boschi e nei campi.
Alla fine, giunse la notizia che tutti, con gioia o con dolore, aspettavano.
Nelle città imperiali erano scoppiati i primi focolai.
***
Dunwich non credeva ai suoi occhi.
Il battaglione avanzava verso il campo principale a ridosso del Terrapieno, per rimpinguare le forze dell’esercito imperiale ridotte al lumicino. Le province stavano precipitando nel caos, attraversate da rivolte scatenate dalla fame e dalle armi che Cambria stessa aveva consegnato ai contadini, per difendersi dai briganti e dalle bestie randagie. Asaeld aveva dislocato più uomini nelle città in subbuglio, ma sembrava non bastassero mai. Il fronte era diventato uno dei luoghi meno pericolosi del continente, rispetto alle strade maestre e ai boschi intorno alla capitale. Loralon aveva però pestato i piedi pretendendo che gli attacchi a Eldain venissero ripristinati, così Dunwich aveva ricevuto l’ordine direttamente dall’Imperatore di radunare quanti più soldati possibili e di tornare a presidiare il Terrapieno. Era la prima volta che si trovava d’accordo con lui, ma la cosa non lo faceva sentire meglio. La testa dell’impero era vuota e suonava sorda a ogni rintocco.
Non avevano incontrato grossi problemi, a parte sparuti gruppi di profughi che invece di scappare, assaltavano le sue retrovie armati solo di unghie e denti. Gente resa folle dalla fame. Se quella era la condizione dell’alleanza, forse Lungo Inverno aveva sortito l’effetto voluto, pensava cercando qualcosa di solido a cui aggrapparsi.
Ma, a pochi giorni dall’arrivo al fronte, la situazione divenne assai strana.
Quella mattina, mentre i suoi uomini avanzavano compatti lungo la strada che portava a Est, si trovarono di fronte un drappello di ribelli più organizzato del solito. Un miscuglio eterogeneo di soldati emaciati, donne, vecchi nodosi. Un centinaio di disperati armati con spade spuntate e arrugginite, bastoni, roncole e falcetti.
La cosa che lo lasciò basito fu vederli prendere l’iniziativa, e attaccare per primi.
Dunwich caricò in testa ai cavalieri cercando di disperdere il gruppo, ma i ribelli improvvisati non sembravano aver paura. Anzi. Non aveva mai visto niente di più dissennato. Invece che pensare a difendersi, quei guerrieri male in arnese si fiondavano su di loro incuranti delle lance e delle spade che li trafiggevano. Molti puntavano soltanto a mordere qua e là le zampe dei cavalli, o le gambe dei soldati.
«Signore, cosa facciamo?!» urlò uno dei capitani di pattuglia guardandosi intorno con occhi increduli. Ammazzare quella gente era talmente semplice da risultare vomitevole. Erano loro stessi che spingevano per farsi uccidere, anche solo per un morso ben riuscito.
«Arretrare! Spostiamo avanti la fanteria!» rispose Dunwich, guidando i suoi cavalieri al fianco del grosso dell’esercito. Quando avrebbero visto il muro di acciaio avanzare, era sicuro che la banda di ribelli si sarebbe dileguata con la coda fra le gambe.
Le cose riuscirono persino a peggiorare.
I fanti avanzarono ad alabarde spianate, travolgendo la massa di disperati come aghi nel burro. Ma nessuno indietreggiava. Dunwich vide con sgomento le donne portarsi avanti per prime, scagliando bestemmie e imprecazioni verso i soldati di Cambria. Cercavano di avvicinarsi a sufficienza per avventarsi sulle loro bocche e staccar loro le labbra. Morirono tutte, nessuna esclusa, ma qualcuna di loro era riuscita a portare a termine il macabro compito. Dunwich dovette distogliere gli occhi quando vide un vecchio senza più capelli e la pelle crepata come argilla al sole, piantato da parte a parte su un’alabarda, avanzare trascinandosi con le mani sul legno del manico e vomitare sangue sul ragazzo terrorizzato che lo stava ammazzando. Una raffica di conati spaccò il suo stomaco solitamente avvezzo alla battaglia. Ma quella non era una battaglia. Sembrava di essere in un mattatoio.
Lo scontro fortunatamente finì in fretta. Aveva perso una decina di uomini in tutto, ma molti di più avevano subito piccole ferite, graffi, morsi o poco altro. Dunwich diede l’ordine di proseguire solo dopo aver seppellito fra gli alberi della foresta i corpi di quei disperati, e raggiunse il fronte dopo altri sei giorni di cammino.
L’esercito non attaccava da molti giorni, in attesa di ordini diretti. Dunwich diede le disposizioni necessarie e scortò i feriti nel tendone dei guaritori, poi prese alloggio nella sua vecchia tenda, nel quartiere degli ufficiali. L’atmosfera era rilassata e tranquilla. Le vedette avevano avvistato in lontananza una miriade di fuochi accesi, da cui si alzavano fili di fumo nero e puzzolente. I ribelli si stavano liberando dei morti causati da Lungo Inverno, ed era un buon segno. Significava che il Terrapieno era stato alleggerito, come era successo anche per Cambria. Dunwich trascorse la sera da solo a studiare le mappe del territorio, tanto per rinfrescarsi la memoria e ammazzare il tempo. Da mesi non scendeva in campo, ma ricordava tutto alla perfezione. Era la sua prima volta da comandante, e non avrebbe lasciato nulla al caso.
“Ne ho fatta di strada…” pensò giocherellando con le miniature di legno della fanteria “e tu, Mordraud? Sei ancora vivo? Sei diventato qualcuno? Un capitano, un generale?”
“Sei morto?”
Non pensava spesso ai suoi fratelli, e aveva abbandonato da tempo ogni proposito di rintracciarli. Tutti i suoi tentativi erano miseramente falliti. La scomparsa della sua famiglia era un mistero che non era riuscito a districare, cosa che lo lasciava con l’amaro in bocca ogni volta ci pensava. Non provava una vero e proprio odio per Mordraud, o almeno, non più. Era più simile a una nostalgia deprimente. Per quanto fosse stato eccelso nella sua carriera, dal lato umano Dunwich sentiva di avere grosse pecche. Se si fosse interessato di più a loro, se fosse andato a trovare sua madre un po’ più spesso. Si addormentò tentando di scacciare quei pensieri inutili.
La mattina dopo, radunò i capitani di pattuglia per ascoltare le ultime notizie, e per tastare il polso al morale delle truppe. Ciò che sentì lo mise di ottimo umore.
«L’alleanza ha sgomberato parzialmente il Terrapieno, e non ha mai messo il becco fuori dal confine» disse il capo delle vedette, stendendo sul tavolo una serie di documenti su cui aveva registrato gli ultimi eventi. Poca roba, ottimo. Eldain sembrava avere grossi problemi in casa, che gli avevano persino impedito di cogliere quel momento positivo. Ora che Cambria aveva ricominciato a rimpinguare il fronte, i ribelli avevano perso definitivamente quell’unico effimero vantaggio.
«I profughi sono aumentati a dismisura, ma li stiamo tenendo a bada piuttosto facilmente» confermò il responsabile delle guardie «anzi, la maggior parte di loro non tenta neppure di nascondersi nei boschi. I nostri soldati li stanano prima che possano disperdersi oltre il fronte.»
«E riguardo ai nostri uomini?»
«Il morale è alto, signore. Molto alto.»
«Come mai?! Sono felici di combattere?»
«No, sono tutti felici che siate stato scelto voi per continuare le operazioni!»
«Mh? Non capisco…» ammise Dunwich.
«Beh, fra gli uomini girano voci… riguardo a quella cena avvelenata…»
La guardia annuì insieme agli altri presenti. Evidentemente, era una cosa nota e discussa da tutti.
«Allora?!» chiese Dunwich vagamente stizzito. Non amava ricordare quella brutta serata. Erano morte delle Lance, e lui era stato male come un cane.
«Siete sopravvissuto solo voi…»
«Dove volete arrivare?!»
«Gli uomini pensano che voi siate benedetto dagli Dei. Vi chiamano spesso la vera Lancia.»
Dunwich sgranò gli occhi dalla sorpresa. Ancora quel nomignolo. Era proprio quello che la gente pensava di lui? Chi aveva messo in giro quelle voci? Turbato da una notorietà non voluta, abbandonò in tronco il discorso e passò a illustrare i piani di attacco che aveva elaborato. I capitani discussero come suddividersi i compiti, e si congedarono. La situazione era finalmente positiva. I traditori in seno all’Imperatore erano stati scoperti, Asaeld aveva più autonomia nelle scelte. Il primo assalto al Terrapieno era programmato per la settimana successiva.
I giorni scivolarono lenti e noiosi. Dunwich passò in rassegna i reparti, ma non riusciva a togliersi dalla testa la storia che aveva sentito il giorno della riunione. La volta che era stato avvelenato, era sopravvissuto per caso. Al massimo, aveva avuto la prontezza di spirito di usare una buona risonanza. Ma era tutto lì. Quella storia degli Dei e del predestinato lo metteva a disagio. Trovava alquanto ridicola l’idea che qualche entità superiore vegliasse su di lui. Avrebbe preferito di gran lunga essere famoso per la sua bravura, e non per qualche credenza popolare. Mentre visitava le tende dei vari battaglioni, ripassando a mente le varie strategie e valutando se avesse uomini a sufficienza per attuarle, notò qualcosa. Diversi soldati si recavano ogni giorno dai guaritori lamentando dolori e fastidi di ogni genere, molti più del solito. Tanti erano sicuramente codardi che tentavano di imboscarsi per non combattere, ma molti altri avevano effettivamente una brutta cera. Dunwich si convinse che fosse solo un’influenza, dovuta probabilmente all’umidità che saliva dalla terra ancora fradicia delle nevi lontane di Lungo Inverno. Niente di cui preoccuparsi, comunque.
Due giorni prima dell’attacco, un messaggero dei guaritori lo svegliò scuotendolo bruscamente. Dunwich si alzò particolarmente arrabbiato per l’azzardo di quel ragazzo, ma cambiò atteggiamento subito dopo aver sentito ciò che lui aveva da dire.
«Le tende dell’ospedale sono assediate!»
«I ribelli hanno attaccato in piena notte?!» chiese Dunwich mentre già cercava la sua spada a fianco della branda.
«No, sono i nostri… là fuori è pieno di gente che sta male!» rispose tremando il giovane garzone. Dunwich si vestì in fretta e furia, e corse fuori. La notte era serena e limpida, particolarmente calda. Un ultimo assaggio d’estate prima dell’autunno.
Il campo era in subbuglio. A centinaia avevano circondato le tende dei guaritori, incuranti delle urla rabbiose dei loro capitani. Le guardie avevano formato un cordone per impedire a tutti di riversarsi dentro, ma faticavano a contenerli. Gli uomini presentavano sintomi simili: pelle cinerea e secca, sangue dalla bocca, occhi vitrei. Molti di loro li aveva visti recarsi nei giorni passati dai medici, quando ancora sembravano solo giù di tono, ma sani.
Dunwich notò con agghiacciante stupore che molti degli uomini giunti insieme a lui al fronte ormai dieci giorni prima, e che erano rimasti feriti nella battaglia contro la banda di ribelli, mostravano gli stessi sintomi.
«Un’epidemia…» mormorò Dunwich sconvolto.
«Cosa facciamo signore?!» chiese disperatamente il capo delle guardie, un uomo piuttosto rustico di nome Rucon. Era il responsabile dell’ordine da almeno un decennio, e da quando Dunwich lo conosceva, non l’aveva visto a disagio neppure una volta. Prima di quella notte.
«Perché si comportano così?! Come mai hanno preso di mira l’ospedale?»
«Non lo sappiamo, signore! Per tutta la sera si sono lamentati, dicevano di stare molto male. I guaritori hanno provato con i loro intrugli a farli stare meglio, ma non c’è stato verso…»
«Non riescono a curarli?» chiese Dunwich attanagliato dalla paura.
«Non sanno nemmeno cos’abbiano che non vada! Qualche macchia sulla schiena e dei forti dolori!»
Dunwich vide staccarsi dal gruppo di soldati ammalati tre membri della sua squadra personale. Erano tre Lance, giovani ma già con una discreta esperienza. Sembravano stravolti e fuori di senno. Tentarono di aggrapparsi a lui, ma per istinto Dunwich sguainò la spada e li tenne lontani.
«Capo, aiutateci!» supplicò uno di loro. «Non vogliamo morire! Dite ai guaritori di fare qualcosa!»
«Chi ha detto che dobbiate per forza morire?! Ora cercate di controllarvi! È UN ORDINE!»
«Non capite!» urlò la Lancia con gli occhi sbarrati dal panico. «Abbiamo visto le tende, quelle dei mercenari a Est del campo! Loro non hanno detto niente a nessuno, perché avevano paura di perdere il lavoro! Ma noi abbiamo visto!»
«Che cosa?! Maledizione, comportatevi da Lance, per gli Dei!» esclamò rabbiosamente Dunwich. La spada però non l’abbassò. Giusto per precauzione.
«Stanno morendo tutti! Hanno la pelle sbriciolata, non ci vedono più, cagano e vomitano sangue!»
«Quali ordini avete impartito alle squadre mercenarie prima che io arrivassi?» chiese a Rucon temendo già la risposta. «Che compiti avevano da svolgere?!»
«Ecco… mandavamo loro a intercettare i profughi ribelli…» biascicò spaesato il soldato.
Dunwich sentì la notte crollargli sulle spalle. I fuochi sempre accesi all’orizzonte. La furia folle dei disperati che li avevano attaccati. I profughi che non provavano neppure a scappare.
«Tentavano solo di infettarci… stanno portando la pestilenza fra i nostri uomini!»
E non solo.
«VOGLIONO RAGGIUNGERE CAMBRIA!» urlò Dunwich. «Date ordine di presidiare tutto il confine con Eld, da stanotte! L’attacco è annullato! AVETE CAPITO?!»
«Ma signore…» provò a dire Rucon.
«Non si discute! Eseguite gli ordini!»
«Ma cosa facciamo con i soldati…»
Dunwich si guardò intorno alla ricerca di qualcosa su cui salire. Vide un carro di barili, e ci si avventò sopra. La folla non era ancora troppo grande, pensò. Doveva prendere tempo.
«ASCOLTATEMI!» gridò verso i soldati assiepati intorno alle tende. Dovette urlare molte volte prima di ottenere la loro attenzione, ma alla fine la confusione sembrò placarsi.
«Non abbiamo abbastanza posti per tutti, quindi dirigetevi CON CALMA verso il quartiere Sud, raggruppatevi con i membri delle vostre squadre, e prendetevi una tenda! Restate tutti dentro in attesa dei guaritori, che verranno a visitarvi uno per uno! Stare fuori e affannarvi non farà altro che peggiorare la vostra condizione!»
«Dunwich, a Sud ci sono gli alloggi degli arcieri…» sussurrò Rucon sporgendosi sui barili.
«Allora andate ad avvisarli e portateli al più presto via da lì! Che non perdano tempo con le loro cose! Dì a tutti di pensare solo agli archi!»
«Sì signore!»
Rucon corse via insieme a un paio dei suoi. Dovevano sbrigarsi. I soldati ammalati avevano accolto bene l’ordine di Dunwich, mostrando una fiducia incondizionata nelle sue parole. Dovevano proprio ammirarlo molto… più di quanto lui avesse mai potuto immaginare.
“Se sapessero che li sto solo confinando in attesa di un’idea decente…” pensò amaramente. Poi si ricordò di un altro problema. Forse anche più grosso di quello.
«Rucon, ASPETTA!» gridò al capo delle guardie, che fece proseguire i suoi uomini e tornò indietro. I capitani di reparto stavano conducendo via i malati, organizzandoli per squadre. Cercavano di prendere tempo, per far sì che le tende fossero già vuote al loro arrivo.
«Ditemi!»
«Raduna una cinquantina dei tuoi, voglio i migliori… andiamo al settore dei mercenari» disse Dunwich con un lugubre filo di voce «e prendi tutte le torce che riesci a trovare.»
***
Deanna era seduta sul davanzale della finestra che dava sul cortile posteriore della casa. I vetri erano aperti e lasciavano entrare l’acre odore dei fuochi accesi fuori dalle mura. Dal primo giorno, non si erano mai più spenti. Per non sentirne il fetore si era legata un fazzoletto profumato in faccia, ma non era particolarmente utile. Le fiamme riverberavano sui muri delle case, e scintillavano riflesse dai vetri delle finestre. Di notte era difficile dormire con quel danzante alone cremisi. Ma soprattutto, era tremendamente scomodo restare sdraiata con quella pancia gonfia e tonda.
Ormai non doveva mancare molto. Era arrivata al punto di soffrire ogni minimo sforzo. Aveva le gambe gonfie, la schiena non la reggeva in piedi a lungo, e aveva sempre una gran fame. Molte pietanze che non le erano mai piaciute, come il fegato o la carne di cavallo, ora le piacevano da morire. E poi, era molto più disponibile a letto. Solo con Adraman, dato che Mordraud non tornava a casa da una vita. Stava riscoprendo suo marito, cosa che non avrebbe mai e poi mai immaginato.
Aspettare un figlio era un’esperienza strana.
Larois veniva a trovarla spesso, e l’aiutava con le piccole faccende di ogni giorno. Quasi nulla, dato che Adraman era sempre molto premuroso. Invece che delegare alla servitù la sua cura, si era buttato a capofitto nel suo nuovo ruolo di padre in attesa. Le preparava addirittura da mangiare. A volte sbrigava il lavoro la mattina, quando lei ancora dormiva, così poteva dedicare a lei tutto il resto del tempo.
I primi giorni, era arrivata al punto da non poterne più sopportare la vista. Ma era durato poco. Adraman era una figura così solida e sicura, da infonderle una tranquillità che non aveva mai conosciuto. Aveva ritrovato un uomo che, dismessi i panni da soldato e da nobile, tutto sommato non era male.
“Mordraud invece…” pensò mentre fissava i tetti irrorati dalla luce dei fuochi. Le mancava la sua irruenza, la sua energia, l’imbarazzo che provava ogni volta che doveva parlare con lei, e che spariva quando le saltava addosso. Per certi versi somigliava a Adraman. Cosa che non l’aiutava a toglierselo dalla testa.
«Va tutto bene?»
Deanna si voltò e abbassò il fazzoletto per sorridere a Adraman. Aveva in mano un vassoio con una teiera fumante, e due tazze.
«Vieni dentro, non ti fa bene respirare quell’aria.»
Sembrava molto più teso del solito. Deanna sapeva che il suo lavoro, ora che non seguiva più il fronte, non gli piaceva, anzi, lo detestava. D’altronde, usare i soldati per ripulire i campi dai cadaveri era un compito ignobile. E ancora peggio era mantenere l’ordine in città. Adraman amava Eld, e vedere ridotta in quello stato sia il feudo che la sua gente, lo stava logorando. Ma di solito era bravo a non mostrare il suo disagio.
«Mi sembri preoccupato» gli chiese mentre si riempiva la tazza di tisana. Adraman fece lo stesso sorridendo con poca convinzione. Non voleva parlarne con lei.
«Mi piacerebbe sapere cosa ti turba tanto…»
«Non sono discorsi molto… piacevoli» rispose lui. Deanna restò zitta a fissarlo, finché Adraman capì che non ne sarebbe uscito tanto facilmente. Alla fine si arrese alla sua ostinazione.
«La pestilenza sta peggiorando.»
«Quanto?» chiese Deanna preoccupata. Le notizie che giungevano dalle campagne erano tragiche già da mesi.
«Abbiamo avuto i primi casi qui in città…»
«Cosa pensa di fare Eldain?! Ne avete parlato?»
Deanna colse un lampo di disagio inaspettato negli occhi di Adraman. La pestilenza sembrava non essere l’unico problema che lo affliggeva.
«C’è qualcosa che non va con Eldain?» chiese lei.
«Sono preoccupato per lui. Non l’ho mai visto così… così…» Adraman non riusciva neppure a parlare dall’ansia. Deanna lo prese per mano e aspettò che si calmasse un momento. «Sembra che Lungo Inverno non l’abbia mai abbandonato… è stanco, senza forze, e dice cose che non capisco.»
«Cosa dice?»
«Questo sono sicuro che non ti piacerà per niente.»
«Provaci lo stesso» disse lei.
Adraman prese un altro sorso di tisana e continuò con un filo di voce. «Dice che devo prepararmi.»
«A… cosa?»
Si rese conto di non voler sapere altro, ma ormai era troppo tardi.
«Non lo so… potrebbe significare molte cose.»
«Non devi partire, vero?!» la voce di Deanna era rotta e troppo acuta, come sospinta dal suo stomaco contratto. «Non vorrà… attaccare?»
«Per gli Dei, non lo so proprio!» esclamò sofferente Adraman. «Là fuori è un incubo, Deanna… anche se Lungo Inverno è finito, la situazione non si è affatto sistemata come speravamo… potremmo non farcela a superare l’inverno, se Cambria decidesse proprio ora di invaderci!»
«Non dirlo neanche per scherzo!»
La sua pace tanto sottile ed effimera scricchiolò in modo sinistro. La fragilità spingeva per tornare a galla e riprendere il controllo.
«Non devi preoccuparti, amore» Adraman si alzò per abbracciarla «per ora è tutto sotto controllo… non dovevo parlarti di queste faccende, sono soltanto mie supposizioni…»
«Ma io voglio che tu mi dica tutto…» mormorò lei con le lacrime agli occhi «perché se un giorno te ne dovrai andare via… io…»
«Non vado via, credimi. Eldain mi ha rimosso dal fronte, ha detto che posso stare a casa… finalmente.»
Adraman sorrise teneramente, ma non disse tutto. Eldain aveva accennato ad altro. Che lui era troppo vecchio per vivere in un campo di battaglia. Che non voleva vederlo spegnersi e logorarsi lontano da casa. Di godersi per una volta un pizzico di serenità. Praticamente, gli aveva ordinato di restare a fianco di Deanna. Insieme all’inverno maledetto, anche la sua vita da soldato era finita.
Era felice di aver ricevuto quell’ordine. Ma certe cose non poteva dimenticarle tanto facilmente. I suoi uomini, le decisioni da prendere, il pericolo costante di sbagliare. Era ancora un soldato, ma cercava inutilmente di dimenticarsene. Per quanto fosse un uomo di Eldain, sopra ogni altro suo futile desiderio.
Deanna singhiozzò piano, con la guancia appoggiata al suo petto.
«Ti voglio bene, Adraman…»
«Ti voglio…»
La sua voce si spense. Adraman pensò che si fosse addormentata.
Nel silenzio della stanza sentì una goccia picchiettare sul pavimento. Poi un’altra. Abbassò una mano fra le gambe della moglie, meccanicamente, cercando di non farsi prendere dal panico.
Sangue diluito. A fiotti.
«PER GLI DEI!» urlò terrorizzato «ADRINA! ADRINA!»
Rumori dall’ingresso. Passi lungo le scale.
«AIUTO! STA MALE! STA MALE!»
Deanna sentiva i suoni ovattati e distanti, come attraverso una coperta pesante. Non era più nel suo salotto. Non aveva il pancione.
Era nuda, lorda di sangue dalla testa ai piedi.
Intorno, solo macerie. Eld era in fiamme.
Davanti a lei, due uomini in armatura, alti e massicci come tronchi d’albero. Stavano giocando con un neonato. Se lo tiravano addosso. Lo colpivano con pugni e schiaffi.
Mani l’afferrarono da dietro, sbattendola sulla terra fradicia di frattaglie e pezzi di legno carbonizzato. Qualcosa penetrò dentro di lei, e bruciava come l’acido.
Nessuno poteva aiutarla. Perché lei sapeva che erano tutti morti.
«ADRAMAN!» urlò senza voce, ma nessuno rispose. Suo figlio piangeva e agitava le piccole braccia spezzate dalle botte.
L’avevano abbandonata. L’avevano lasciata sola per sempre.
«MORDRAUD!»
***
“Deanna…” pensò rattristato Mordraud.
Da quando gli scontri erano finiti, aveva troppo tempo per pensare a lei. E alla sua famiglia, e ai suoi fratelli. A Gwern, Dunwich, Eglade. Allo Sconosciuto. Non che avesse di meglio da pensare. Il Terrapieno era ridotto in uno stato così avvilente da non lasciare scampo all’immaginazione.
I soldati erano decimati dalla pestilenza. Interi battaglioni erano partiti abbandonando le zone colpite dalla malattia, senza seguire ordini precisi o strategie pianificate. Era una diaspora caotica e spinta solo dalla paura di dover morire. Le forze dell’alleanza erano ridotte in briciole.
L’unica, magra consolazione era che l’esercito imperiale non sembrava messo molto meglio del loro. Da quando Lungo Inverno era finito, gli scontri si contavano sulle dita di una mano. Erano passati sei mesi, ormai un altro inverno era alle porte. Nonostante il caldo, il cielo terso, la bella stagione, la terra aveva dato pochi frutti, e alla pestilenza ormai si affiancava la carestia come nuovo fronte della guerra. I soldati ancora vivi e vagamente in salute avevano un compito ostico, disgustoso. Proteggere il cibo in arrivo dai paesi alleati dell’Est, isolare i villaggi contaminati, sedare le continue rivolte. Al fronte, ormai, non ci pensava quasi più nessuno. La guerra contro Cambria sembrava finita.
Ma se fosse ricominciata all’improvviso, allora sì che sarebbe stata la fine. Di tutto quanto.
“Forse è per questo che Eldain ha convocato il concilio generale..” si chiese Mordraud mentre, insieme a Berg e un paio di capitani di reparto, varcavano il ponte levatoio del feudo. Non era la solita riunione al fronte, a cui lui aveva partecipato solo un paio di volte. Era qualcosa di grosso. Lui rappresentava le squadre d’assalto, dopo che Adraman aveva ceduto il comando delle operazioni sul Terrapieno a Berg.
Una carriera fulminea la sua, spinta da Adraman ma soprattutto dalla raffica di eventi a cui era sopravvissuto in quei pochi anni. La battaglia dei Fuochi. Lungo Inverno, anche se la sua conclusione non era stata decisamente merito suo. La pestilenza.
Non lo vedeva da una vita, pensò. Le dicerie parlavano di un Adraman versione padre di famiglia, incredibile per tutti fuorché per lui. Avevano parlato tanto, nei lunghi giorni di neve e di freddo dell’inverno maledetto, e lui gli aveva confidato spesso quanto desiderasse passare un po’ di tempo con Deanna, vivere con lei, tentare almeno di salvare quel poco che restava del loro matrimonio. Mordraud sperò che ci fosse riuscito. Adraman se lo meritava, dopo una vita intera di sacrificio.
«Ci sarà anche Adraman?» chiese a Berg mentre smontavano da cavallo per proseguire a piedi lungo le vie del feudo. Molti altri capitani erano già arrivati, da ogni postazione sul fronte. Negli ultimi anni, la guerra si era concentrata sul Terrapieno, ma spesso ci si dimenticava quanto fosse prezioso il lavoro che svolgevano gli altri reparti dislocati lungo la linea di contesa. Era anche grazie a loro se Cambria non era mai riuscita a penetrare dentro le loro terre.
«Non credo. Ho saputo che è nato suo figlio, pochi giorni fa.»
«Ah sì? È un maschio, allora…» rispose Mordraud, apparentemente senza mostrare interesse. Dentro invece sentiva lo stomaco in subbuglio. Stavano parlando di suo figlio. Pensare a lui era una tortura che ancora non era in grado di sopportare. Non aveva la minima idea di cosa volesse dire essere padre, ma al contrario stava assaggiando per bene la sofferenza di esserlo, ma di non poterlo dire a nessuno. Di non poter abbracciare il proprio bambino. Non sapeva neppure come l’avessero chiamato. Sperava almeno che il nome fosse grazioso.
«Deanna ha avuto qualche problema, ma i guaritori dicono che se la caverà» disse Berg. «Fidati, anche io ero messo male dopo quella battaglia contro le Lance Imperiali e guardami… mi hanno rimesso a nuovo!»
Mordraud annuì guardando altrove, lottando per non mostrare quanto desiderasse correre da lei per vedere come stesse. Ma non poteva. Non era sicuro che avrebbe potuto reggere di fronte a lei e a suo figlio insieme, a fianco di Adraman.
Le strade del feudo erano in ordine, ma vuote. La maggior parte delle case erano state sbarrate, segno che chi ci abitava era morto, oppure che era stato allontanato per via della pestilenza. Non aveva mai visto Eld tanto debole, ferita e oppressa dal dolore. Le facce dei passanti erano scure, livide di fame e di rabbia. I pochi cani randagi erano magri da far paura, quasi quanto i bambini cenciosi che sedevano sui gradini delle case, e che li fissavano tetri al loro passaggio. Mordraud si chiese come stesse Larois, ma preferì non approfondire. probabilmente era morta, non voleva vedere la sua taverna chiusa e spolpata.
Sembrava che il popolo avesse perso il nervo, sfibrato da una serie troppo lunga di vessazioni. La spina dorsale dell’alleanza era sul punto di spezzarsi.
«Magari mi sbagliavo… non mi aspettavo di vederlo fuori dal suo nido d’amore…» esclamò Berg con il suo solito tono schietto, alzando una mano per salutare Adraman che stava sopraggiungendo velocemente. Era da solo, senza armatura ma con la sua spada legata alla cintura. Mordraud non era abituato a vederlo in abiti civili. Anche se i segni dell’età si vedevano tutti, era ancora un uomo vigoroso e di bell’aspetto, a parte qualche incertezza a camminare sulla gamba che si era rotto in battaglia. Non l’aveva mai visto così raggiante.
«Ragazzi, speravo proprio di incrociarvi… spero che il viaggio sia andato tutto bene» esclamò Adraman. Sorrideva a tutto e a tutti. In un colpo si era scrollato di dosso vent’anni di fatica. «Mordraud, ti stavo cercando…»
«Prima i saluti, Adraman!» rispose lui allargando le braccia. I due amici si strinsero con forza, senza parlare. Non si vedevano da prima della sua partenza con Gwern. Sembrava passato un secolo.
«Congratulazioni… per quello che hai fatto per tutti noi.»
Mordraud si ripromise che gli avrebbe raccontato la verità, ma preferì farlo in un secondo momento. Non era quella l’occasione giusta, si disse. Lui doveva pensare soltanto alla sua famiglia.
«Sono io che mi devo congratulare con te! Mi hanno detto del bambino… sarai felice, immagino.»
Adraman gli mollò una pacca sulla spalla annuendo con un sorriso aperto come il cielo. Mordraud contraccambiò tentando di sembrare altrettanto felice, anche se non lo era. Tutto quello che sperava era che Adraman non gli proponesse una cosa soltanto.
«Vieni a casa con me… voglio fartelo vedere!»
Che Adraman non gli chiedesse di vedere suo figlio.
«Adesso dobbiamo andare al castello, fra poco inizia il concilio… magari dopo, che ne dici?!»
«Eldain mi ha chiesto di partecipare, quindi aspetterà me per iniziare. Abbiamo tutto il tempo. Forza, vieni!»
Mordraud tentennò, e Berg non gli venne in aiuto. «Dai Mordraud, vai! Così poi ci racconti se è bello come la sua mamma o brutto come il suo papà!»
«Non oserai…» tuonò Adraman minacciandolo scherzosamente con la mano aperta.
«Va bene… andiamo.»
Mordraud si arrese. Era la cosa peggiore che potesse capitargli, ma al tempo stesso moriva dalla voglia di vedere Deanna e il bambino. Due stati d’animo che lo avevano già ridotto ad uno straccio quando raggiunsero la villa.
«Sono di sopra. Deanna sta riposando, quindi dobbiamo fare piano…» Adraman si sfilò gli stivali e la spada, e Mordraud lo imitò. Salirono in silenzio, aprirono la porta della camera, ed entrarono. Adrina era seduta a fianco del letto con in mano le stecche per cucire. Quando vide il padrone, si alzò senza dire una parola e se ne andò per lasciarli soli, non senza lanciare una penetrante occhiata a Mordraud. L’occhiata di chi aveva intuito qualcosa.
Ma in quel momento, solo lei contava.
Deanna stava dormendo sdraiata su una montagna di cuscini bianchi. Un lenzuolo leggero la copriva fino al petto, e si alzava e abbassava lentamente seguendo il suo respiro. Era pallida, tirata in volto e scarmigliata, ma stava bene. Ed era bella, come sempre. Poggiato su di lei, accoccolato fra le sue braccia e il lenzuolo, Mordraud vide suo figlio.
Era pronto a sopportare qualsiasi ansia, tutto il dolore del mondo, l’invidia, la rabbia.
Ma non la gioia.
«Ha perso molto sangue, la levatrice ha detto che con il primo figlio può succedere» sussurrò Adraman mentre si avvicinava al letto. Le accarezzò i capelli con una delicatezza che Mordraud non credeva possibile. Aveva la mente in subbuglio. Quell’immagine di pace era la più bella cosa che avesse mai visto in vita sua.
Adraman sfilò il neonato dall’abbraccio della madre, lo baciò in fronte e ritornò da Mordraud.
E glielo porse.
«No… non posso… non so nemmeno come si fa…» balbettò sconvolto. L’ultima volta era stato con Gwern appena nato. Era passato troppo tempo da allora. Troppe vite diverse.
«È come camminare. Si impara subito» rispose Adraman sorridendo. Mordraud fece un passo indietro, ma fu tutto inutile. Aveva suo figlio in braccio. Un bel bambino paffuto e in salute.
Occhi densi come il mare.
«Nelle nostre terre, si dice che il vero nome di un bimbo sia il primo nome che sua madre pronuncia dopo averlo partorito» mormorò Adraman «non si usa da tanto tempo, se non fra la gente umile, che non deve rispettare certe regole di parentela. Ma io ho voluto seguire la tradizione.»
«Come si chiama?» sussurrò Mordraud senza voce. Era un bambino stupendo. Le sue mani erano piccole come castagne. Apriva e chiudeva la bocca sbadigliando, infastidito da quel disturbo al suo quieto sonnellino.
«Deanna ha urlato un solo nome, proprio mentre lui veniva alla luce.»
Un brivido gli salì lungo la schiena, penetrò nel suo cranio e gli polverizzò il cervello. Il bambino sembrava gigantesco e pesante, come la vergogna che provava in quel momento.
«Mordraud. È così che ho deciso di chiamarlo.»
Senza riuscire più a trattenersi, lui iniziò a piangere. Lacrime su lacrime, mentre ancora continuava a sorridere di gioia.
Suo figlio si chiamava Mordraud.