XVIII
«E così, voi sareste il famoso signor Saiden.»
Larois squadrò l’uomo prima di farlo entrare. Capelli neri tenuti molto corti, occhi nocciola, un bel fisico. Portava una casacca azzurrina, piuttosto eccentrica. Nel complesso però, Saiden le fece subito una buona impressione. Un moto involontario di fiducia. Sernio era con lui e stava aspettando che Larois li facesse entrare. Gwern era seduto al tavolo della cucina e fremeva nervosamente sulla sedia.
«Prego, venite…»
Saiden si accomodò di fronte a Gwern. Larois portò in tavola qualche fetta di pane e formaggio, un fiaschetto di vino e un vassoio di sottaceti. Sernio di servì per primo. Gli altri erano troppo impegnati a fissarsi per mangiare. Saiden ruppe l’imbarazzo chiedendo la cortesia di un bicchier d’acqua.
«Gwern parla di continuo di voi, anche se da quanto mi ha detto, non vi siete mai conosciuti…»
«Sernio ha parlato molto bene di me, a quanto pare» rispose lui con un cenno di ringraziamento verso il vecchio libraio.
«Mi ha detto anche che voi siete un… cantore.»
«Diciamo che sono un appassionato di armonia. Ho avuto la fortuna di insegnarne i segreti per tanti anni, e con profitto, a Calhann.»
«Come suo nonno Saite, Larois…» si intromise Sernio. «Un eminente personalità di Cambria, molto rispettato…»
Larois era stata più che informata sulla rispettabilità di Saiden. Gwern non parlava di altro, da quando Sernio gli aveva abbozzato l’idea. Studiare da un importante ricercatore di armonie. Un’opportunità eccezionale, a detta sua e di Gwern. Lei non era affatto convinta, almeno non fino a quel giorno. Non gli sembrava una buona idea. Mandare Gwern da solo con uno sconosciuto, lontano da casa. Ma ora che aveva l’opportunità di conoscere Saiden, alla fine dovette accettare il fatto che sembrava proprio un’ottima persona. Un po’ bizzarro, con quella casacca azzurra e i capelli così lucidi. Ma forse era davvero un’occasione d’oro per Gwern. Non sapeva cosa decidere.
«Ma cosa gli insegnereste?»
«Storia, scienze della natura» rispose pacatamente Saiden. «Ovviamente, anche armonia e canto. Prevalentemente musica, direi.»
«E cosa dovrebbe farsene nella vita? Con la musica si riesce a mangiare?»
Sernio borbottò sconvolto, Gwern si irrigidì. Saiden scoppiò a ridere e annuì sghignazzando. «Non avete tutti i torti, signora. Per chi non conosce l’ambiente, lo studio dell’armonia può sembrare una perdita di tempo. Ma dovete credermi, quando vi dico che ci sono ottime opportunità per un bravo cantore. Nelle grandi città sono molto richiesti.»
«E quanto starebbe via?»
«Due, forse tre anni.»
«Potrà tornare anche a casa, suppongo…» abbozzò lei, ma Saiden cortesemente negò. «Durante il periodo di studi, è importante che l’impegno rimanga costante, e che le distrazioni siano evitate il più possibile.»
Gwern fece per intervenire, ma Sernio lo fermò con una mano sulla spalla. «Larois, stiamo parlando di un paio d’anni, è un periodo normalissimo… a Cambria, le accademie durano molto di più e le famiglie delle altre città fanno follie per iscrivere i propri figli… inoltre, ricordati che Eldain in persona si è impegnato perché Gwern avesse questa opportunità. Ha anche scritto una raccomandazione personale.»
«Molto apprezzata, fra l’altro” disse Saiden.
«Lo so, ma mi sembra tutto così strano… cosa servirà mai imparare a cantare? Io so solo che l’impero usa i cori in battaglia. Non mi piace molto l’idea che Gwern possa diventare un soldato.»
«Assolutamente giusto» rispose Saiden. «Vorrei però dire che io non ho mai, e dico mai, educato un cantore affinché potesse diventare uno strumento di guerra. Non sono mai tornato a vivere a Cambria anche e soprattutto per questo motivo. A Calhann, dove ho vissuto per tanti anni, i miei ragazzi sono stati assunti come consiglieri per importanti mercanti, alcuni sono diventati funzionari di governo. Altri guadagnano parecchio esibendosi in teatro. Un bravo cantore avrà sempre l’imbarazzo della scelta, ve lo assicuro.»
«E poi Larois, può anche essere che Gwern faccia profitto di altro… potrebbe interessarsi di storia e diventare un tutore privato, oppure potrebbe far parte di una scuola di armonia come l’Arcana» concluse Sernio. Gwern, senza rendersene conto, stava annuendo silenziosamente a ogni parola. Eccitatissimo, saltellava sulla sedia come se scottasse.
«Costa decisamente troppo.»
Su quel punto, nessuno dei due ebbe qualcosa da dire. Gwern arrossì travolto da un fastidioso senso di colpa. Mordraud aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per aiutarlo. Ma rischiava la vita, per farlo. Sernio non aveva nulla. Larois nemmeno. Era un egoista, si disse. Un approfittatore.
Mordraud si sarebbe arrabbiato da morire se lo avesse sentito dire così, pensò.
«Capisco che vi possa stupire, ma considerate che provvederò al suo benessere per almeno due anni…» rispose Saiden «possiamo anche decidere di suddividere il pagamento in parti più piccole. Ma soprattutto, signora… Sernio mi ha anche accennato a una sorta di disagio fisico del piccolo, io potrei aiutarlo. Sono un esperto di pratiche curative attraverso l’armonia.»
Saiden sorrise, quando vide Larois cambiare repentinamente espressione. Il discorso si era portato su piani che le interessavano ben di più che lo studio del canto. Gwern riprese ad annuire sconsideratamente. Larois gli accarezzò i capelli e sospirò preoccupata. «Questa è una magnifica notizia…» disse con una punta di commozione nella voce.
«L’aspetterò con gioia a casa mia, nel caso prendiate la decisione che mi auguro» mormorò Saiden.
Presi dalla tensione del momento, nessuno si era accorto di quanto spesso lui fissasse Gwern. E di come gli osservasse il petto, esattamente al centro dello sterno.
Come se stesse ammirando il pendaglio di un ciondolo.
***
Dunwich era seduto sulla sua poltrona preferita al centro del grande salotto della sua villa. Stava sorseggiando un denso liquore alle erbe amare. Bianchi anelli di fumo si alzavano dalla preziosa pipa ricamata d’argento che ritmicamente si portava alle labbra. La notte era immersa in un silenzio adatto per riflettere, interrotto solo dal crepitio delle braci infuocate. Nessuna luce era accesa nella stanza. La mente di Dunwich era persa da ore in una lunga riflessione sulla guerra, e i pochi gesti che il suo corpo ancora compiva erano del tutto automatici. Versare liquore, riempire il braciere con nuovo tabacco, aspirare, bere. Le conclusioni a cui era giunto avevano reso il suo umore tutt’uno con le ombre che lo avvolgevano.
Amava pensare nel buio. Gli ricordava la sensazione che provava quando si immergeva all’interno della materia. Il suo corpo iniziava a vibrare in risonanza con l’ambiente, e si fondeva come se la sua carne fosse composta da terra, aria, acqua, sassi. Aveva studiato anni per ottenere una risonanza tanto efficace e perfetta.
Quel buio lo aiutava a essere più obiettivo, meno irruento. Qualcosa stava prendendo forma nella sua mente, ma era ancora troppo vaga per avere un nome e una faccia. Dopo il sesto o settimo bicchiere di liquore, la cicatrice sulla guancia aveva smesso di pulsare. Asaeld aveva insistito a rispedirlo a casa senza ascoltare le sue obiezioni.
«Potrebbe infettarsi. Quaggiù non prevediamo attacchi nei prossimi mesi. La tua presenza al fronte per ora è inutile, se non dannosa per la tua salute.»
Quella era stata la sua ultima e irrevocabile parola. Dunwich non era molto bravo a riposare. La pausa forzata stava deteriorando la sua pazienza, e lo spingeva a riflettere un po’ troppo spesso.
A parte una miriade di scaramucce di poco conto, le battaglie che contavano veramente erano state tutte un mezzo fiasco per Cambria. Rare vittorie, subito negate da una sconfitta più cocente. Il resto, perse o rimandate. Dunwich ormai faticava a credere che fosse tutta colpa dell’incompetenza dell’Imperatore.
“Deve esserci qualcuno che rema contro i progetti di Loralon. Errori non casuali. Sviste volute. Ritardi programmati. Una persona piazzata nel posto giusto può fare danni incalcolabili” pensò riempiendosi di nuovo il bicchiere. La pipa stava lentamente finendo, per l’ennesima volta. Alcuni compagni lo avevano invitato a una serata di gala promossa da una ricca famiglia della città, dove avrebbe potuto ballare, mangiare ottimi crostacei innaffiati con un bianco frizzante, conversare amabilmente di politica. Magari recuperare una donna giovane e disponibile a trascorrere una notte con una promettente Lancia Imperiale.
«Quella cicatrice vi dona un aspetto così… guerriero… » gli aveva detto la figlia di un importante consigliere imperiale, a un ricevimento nelle sale del palazzo centrale. Dunwich non ricordava né il suo nome, né la sua faccia, e neppure se poi le avesse più rivolto la parola.
“Dove sei, Mordraud?”
Da quando aveva sentito quei soldati parlare nella tenda dei feriti, non aveva mai smesso di chiedersi se suo fratello fosse sopravvissuto alla battaglia. Aveva dieci anni in meno di lui, quindi doveva per forza essere giovane, fin troppo per combattere. Qualche volta aveva fantasticato sul ribelle che aveva ingaggiato duello con lui, e che per poco non l’aveva ucciso. “E se fossi stato tu?” si chiese angosciato.
Erano passati anni da quando aveva scoperto la fine orrenda di suo padre, la morte della madre, la fuga dei fratelli, e gran parte dell’astio che aveva covato all’epoca si era trasformato in qualcosa di più complesso. Un cumulo di emozioni che non gli piaceva per niente.
Oscuri sensi di colpa che tentavano di strisciare fuori dal muro che con tanta fatica aveva eretto.
Dunwich svuotò la pipa con un colpo secco sul bordo del piatto, e scolò il fondo del bicchiere. Si guardò intorno, non vide altro che tenebre. Con un filo di voce sussurrò l’inizio di una lieve melodia, e il suo corpo fu risucchiato dalla poltrona.
Uno sbuffo di piume bianche si sollevò come una nuvola dallo schienale imbottito, squarciato dalla punta affilata di un pugnale. Un’ombra sgorgò dal buio e si portò di fronte alla poltrona ormai vuota. Solo un sibilo di disapprovazione interruppe il silenzio. L’assassino si appoggiò alla parete schiacciandosi contro di essa. Le piume danzavano nell’aria intorno al cuscino trafitto, la brace della pipa morente brillava nel piatto, e il petto delle tenebre si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro.
«Perché sei qui?»
L’Ombra trasalì e alzò il pugnale. Dunwich era svanito nel nulla. La sua voce sembrava provenire da ogni angolo della sala, deformata in un mormorio maligno e senza labbra.
«Sei pietoso.»
L’assassino si strinse alla parete, e con la lama compì un ampio arco di fronte a sé. L’acciaio sibilò a vuoto. Una risata sommessa vibrò dai muri e dal pavimento, tintinnò sul bicchiere di cristallo e scivolò sulla sinuosa bottiglia di liquore.
«Non sei venuto qui per uccidermi? Cosa aspetti? È un paio di giorni che sento qualcosa alle mie spalle. Mi chiedevo quanto ci avresti messo ad agire.»
«Dove sei?! Vieni fuori!»
«Ma caro mio…sono già qui.»
La voce sfiorò l’orecchio dell’assassino, un soffio caldo che giocò fra i suoi capelli. Con un orribile rumore di ossa scheggiate, una spada fuoriuscì dal suo torace, lentamente. La bocca dell’ombra si riempì di sangue. Dunwich comparve camminando attraverso il muro, spingendo in avanti il corpo infilzato e tremante.
«Chi ti manda?»
L’assassino restò in silenzio. Dunwich ruotò con uno strappo la lama dentro lo squarcio.
«Posso anche impedire la tua morte, e poi continuare a spaccarti le ossa fino a quando non mi dirai tutto.»
«Schifosa, lurida Lancia… bastardi…» balbettò l’assassino morente. «Fottiti… infame…»
Dunwich sgranò gli occhi, strinse il collo dell’uomo con il braccio, e con uno strattone violento glielo spezzò. Il corpo senza vita si accasciò sul pavimento, imbrattando di sangue le larghe lastre di marmo bianco.
«Cospiratori? Traditori dell’impero?»
Dunwich restò a lungo con gli occhi fissi sulla pozza scura ai suoi piedi, ripassando ogni dettaglio degli ultimi giorni, nella speranza di risalire ai mandanti. Se veramente si trovava di fronte a un gruppo organizzato, già inserito nel tessuto cittadino, quella poteva essere la spiegazione di tante strategie sabotate, costate migliaia di morti inutili. L’assassino era un uomo di mezza età, magro e dai lineamenti nervosi. Lo aveva notato con la coda dell’occhio due giorni prima lungo la strada verso casa, dopo un incontro con le Lance a palazzo.
“Sì, ma quand’è che ho iniziato a notarlo… non da subito… no… l’ho visto dopo che sono passato davanti a una villa, di chi era…”
La famiglia Firen.
“Probabilmente è uscito da quella villa. Il patriarca è Firanor, un mercante di prestigio, ben conosciuto in città… suo figlio è tenente di pattuglia, si chiama… Firacan mi sembra. Ma ha anche un fratello maggiore. Una posizione nell’esercito… molto denaro… l’impero non appoggia particolarmente i mercanti, se non a quelli di armi. Loralon poi è molto meno brillante di suo padre. Non aiuta un granché le corporazioni…”
Se la sua memoria non lo ingannava, e di solito Dunwich si fidava ciecamente della sua memoria, aveva un primo obiettivo. Sorridendo soddisfatto, sprimacciò il cuscino squarciato e tornò a sedersi sulla poltrona, per concludere la serata con un ultimo bicchiere.
“Devo disdire alcuni appuntamenti domani… e devo ricordarmi di parlare con i domestici, per far pulire il salotto. I gendarmi devono essere informati del tentativo di furto che ho subito stanotte, ma non posso farlo io…”
Aveva cose molto più importanti da fare, pensò buttando giù il primo sorso amaro e denso.
***
I due soldati assonnati chiusero il grande cancello di ferro e si fermarono a metà del cortile, giocando a scommettere chi si sarebbe appartato per primo in un anfratto del parco per sonnecchiare qualche ora. Firanor, il ricco mercante proprietario della casa, li aveva pagati profumatamente per un incarico di tutto riposo.
«Chi vuoi che venga a ficcare il naso nei suoi affari?!» esclamò ridendo il giovane militare, mentre preparava la moneta che avrebbe deciso i turni di sonno.
«Un ladro che ruba al ladrone, ecco chi potrebbe arrivare!» rispose ridacchiando il compare.
I traffici illeciti, le amicizie altolocate, gli appoggi politici, erano tutte faccende ben conosciute ma mai troppo discusse. In fin dei conti, chi aveva lo spirito di immischiarsi negli affari di uno dei mercanti più influenti della città? Loro due di certo non avevano la minima intenzione di farsi i fatti altrui.
«Finché ci regala la pagnotta per non fare niente, che gli Dei l’abbiano in gloria!»
Firanor era un uomo apparentemente pacato, calcolatore e imperturbabile, tanto diverso dai suoi figli da far dubitare che fossero sangue del suo sangue. Il primogenito Firad, suo aiutante negli affari, era un grosso e alto ragazzone arrogante e sanguigno, pieno di sé per la ricchezza del padre, e amante di qualsiasi vizio reperibile a Cambria. Polvere di fiori provenienti da Syl a Ovest, liquori fortissimi, intrugli allucinogeni. Grande amante delle puttane. Il minore Firacan, invece, dava sempre l’impressione di essere un incapace, con quel suo sguardo ebete e poco brillante e la mania di parlare a sproposito, tanto che il padre era costretto a spendere grandi quantità d’oro per giustificare la sua posizione prestigiosa all’interno della società. La moglie del mercante era morta da anni per una malattia, e l’enorme casa era quasi sempre vuota. Gli incontri di affari si tenevano nel magazzino di proprietà della famiglia nella zona dei mercati generali, e le poche persone che frequentavano la villa erano donne abbigliate da signore ma truccate da baldracche, sempre diverse, destinate allo svago del padre e dei figli.
«Invece è un paio di giorni che arrivano solo brutti ceffi, o qualche spocchioso funzionario imperiale che decide di far visita a Firanor nel cuore della notte… bah… valli a capire questi arricchiti, sempre dietro a fare, e fare… li preferisco quando pensano soltanto a divertirsi.»
«Come se potessimo partecipare anche noi, e invece… stiamo qua fuori ad aprire la porta a tutti.» Lo scudo d’oro segnò testa, e il soldato più giovane fischiò soddisfatto. «Tocca a me per primo… ottimo!»
«Speriamo solo che non ricomincino a urlare come matti, ieri sembravano un branco di maiali!»
«Uh, non voglio nemmeno pensarci… Firacan deve aver fatto una bella idiozia per beccarsi tutti quegli insulti!» il ragazzo tese l’orecchio e chiese al compagno di fare silenzio. «Ehi, l’hai sentito?! Mi è sembrato che… no, falso allarme.»
«Stanotte fanno i bravi… e niente baldracche, a quanto pare…»
«Già. Peccato, sarà una noia mortale… ehi…hai sentito?»
«Cosa?! Hanno ricominciato a litigare?»
«Mi sembrava di aver sentito… ma no, sarà stato un gatto nel cortile.»
Il suo compagno tese l’orecchio invano, guardandosi intorno svogliatamente. «Tu prendi questo lavoro troppo sul serio. Ma chi vuoi che entri qua dentro?»
«Io.»
La guardia si girò verso il collega ma trovò solo il vuoto. Eppure aveva sentito qualcuno rispondergli, pensò. Il sorriso gli morì in bocca. Un coltello balenò improvviso e gli sfondò il cranio. Il suo corpo senza vita si accasciò a terra accanto al cadavere dell’altro soldato, già morto senza un gemito.
Dunwich si avvicinò alla porta, si inginocchiò di fronte alla serratura e poggiò un dito sul grosso foro della chiave, canticchiando una nenia brillante e giocosa. La chiusura scattò senza opporre resistenza. Il corridoio era illuminato da costose lampade a olio appese ai muri, e arredato con pregevoli acquerelli antichi. Sei ingressi su ogni lato conducevano nelle varie stanze della villa, e da una porta in fondo si accedeva alle scale. A pochi passi da lui, quattro guardie erano impegnate in una discussione sussurrata. Furono interrotti dal lieve fruscio della porta che si apriva. Non vedendo nessuno, una di loro si avvicinò all’ingresso chiamando i due soldati nel cortile. Dunwich comparve proprio ai suoi piedi scivolando fuori dal pavimento. Bastò un taglio preciso alla gola. I soldati rimasti ebbero solo il tempo di sguainare la spada. Dunwich usciva ed entrava dalle pareti colpendoli al petto e alla testa con rapidi fendenti, e sparendo subito dopo. Il muro era molto spesso, riusciva a ospitare il suo corpo per intero. Ben presto, altri tre cadaveri arricchirono la collezione abbandonata in cortile.
“Di solito, le stanze private sono di sopra. In questo piano ci saranno solo i servi e il salotto di ricevimento” pensò chiedendosi da che parte andare.
Dunwich accostò l’orecchio alle porte e non sentì nulla. Raggiunse allora le scale e salì rapidamente i gradini, fermandosi solo per decidere quale potesse essere la direzione giusta. Le porte davano tutte verso l’interno, due a destra e due a sinistra della scala.
“Una camera a testa, più lo studio del ricco mercante” pensò esitando sul da farsi. Dunwich imprecò fra sé. Avrebbe dovuto provarle tutte per trovare il suo uomo. Improvvisamente, sentì una chiave girare in una serratura e di riflesso si appoggiò alla parete, scomparendo al suo interno.
Firanor e il figlio maggiore, Firad, uscirono dallo studio e si diressero oltre la scala verso la camera privata di Firacan.
«Quello stupido di tuo fratello ci vuole morti» sbraitò il vecchio mercante.
«Pensava di nasconderci tutto… cane maledetto…» rispose Firad copiando esattamente il tono del padre.
«Ed io che ho fatto di tutto per inserirlo in un posto prestigioso, senza rischi… se non fosse stato per me, quell’idiota ora sarebbe soltanto un lurido venditore ambulante.»
«Già. Ma non poteva accontentarsi, no!» continuò Firad infervorandosi. «Doveva andare a pestare i piedi proprio a un comandante delle Lance! Se solo avessi scoperto chi lo sta aiutando in questa pazzia, padre, giuro che non mi sarei mai permesso di disturbarti… È proprio un codardo maledetto! Viene da me piagnucolando di avere un grosso problema, e pretende pure che io non lo te lo dica. E ora chi lo ferma, quel mostro di Dunwich!»
«Manderò qualcuno a lisciarlo. Mi costerà una fortuna, maledizione. Tutto per colpa di quel suo amico disgraziato…»
«Chi, Erain? Quello è un cacasotto peggiore di mio fratello! No, il damerino se l’è portato a casa una sola volta, e per farsi bello gli ha anche offerto una puttana. Dovevi vedere come strillava, il povero bimbo!»
«No, non Erain, l’altro… se lo trovo gli spezzo il collo con le mie mani, fosse l’ultima cosa… per gli Dei, hai una vaga idea di quanto mi costerà far stare tranquillo Dunwich?!»
Entrambi si fermarono davanti alla porta di una camera. Firanor allungò la mano per aprire la serratura.
«Non preoccuparti del prezzo. Voglio solo Firacan.»
Dunwich comparve dietro di loro con la spada in mano. Firad saltò indietro soffocando un urlo strozzato. Il padre invece non si scompose minimamente.
«Ci possiamo mettere d’accordo, Lancia… non essere avventato.»
Solo le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte tradivano la compostezza del mercante. Suo figlio Firad aveva fatto un passo indietro e si teneva spalle alla porta.
«E cosa proponete?»
«Io non ho alcuna intenzione di rendermi nemico un capitano delle Lance. Voi rischiate grosso a esporvi in questo modo. Quindi abbiamo entrambi bisogno di un accordo.»
Dunwich sghignazzò coprendosi la bocca con il palmo della mano. «Un accordo… parlate, forza! Non ho tempo da perdere con voi. Mi aspettano altre persone stasera.»
Firanor non perse molto tempo a riflettere.
«Mio figlio non arriverà al mattino.»
La faccia di Firad virò dal porpora al terreo.
«Non basta. Devo sapere chi sono i suoi complici.»
«Potrai parlare con lui» disse Firanor «ma sarò io a sbarazzarmene. Nessuno deve sapere nulla. E non voglio morti in casa mia.»
Dunwich annuì e si inchinò con elegante strafottenza.
«Certo, capisco. Temo allora che dobbiate rivedere il vostro livello di sicurezza, consiglio di servirsi di nuove guardie. E, lasciatemelo dire… ottimo padre, non c’è che dire. Il patto si può fare. Ma devo vederlo morto, non posso fidarmi della vostra parola. Voglio la sua testa, fra due notti, dalle vostre mani. E badate, sono un cantore e lo sapete. Non provate a ingannarmi con finti cadaveri, altrimenti di questa casa non resterà neppure un mattone.»
«La mia parola vale come l’oro che possiedo.»
«Bene, perché se fosse valsa come la vita dei vostri figli, sarebbe valsa ben poco.»
«Ma, padre…» tentò di dire Firad, ma lui fulminò il figlio con lo sguardo.
Firad fece un passo indietro, mentre suo padre apriva la porta a Dunwich.
La camera era illuminata da un elaborato candeliere a sei teste. Le luci fluttuanti danzavano sulle armi appese al muro e sull’armatura da parata montata in un angolo. Il letto era sontuosamente addobbato con un baldacchino rosso fuoco, della stessa tonalità della grande scrivania lucida e ordinata. Firacan teneva la testa poggiata al ripiano dello scrittoio. Sembrava addormentato, ma al rumore della porta che si apriva alzò la testa e fissò Dunwich con sguardo spento.
«Padre? Sei tu?» mormorò con voce impastata. Era di costituzione eccezionalmente robusta, ma allo stesso tempo cascante e poco tonica. I capelli arruffati color cenere e gli occhi annacquati gli donavano l’aspetto di un bambino troppo cresciuto.
«No, Firacan» rispose Dunwich.
Il giovane lo fissò senza riconoscerlo, poi vide la porta richiudersi alle sue spalle e, nascosto dietro le spalle di Dunwich, suo padre che lo guardava con gelida indifferenza. Allora capì tutto, e il tonfo sordo della porta segnò l’inizio di un lungo pianto.
***
Il salotto era ammobiliato con un gusto vagamente stantio. Una grande finestra forniva luce e una splendida visuale su un giardino curato da pregevoli artisti del verde. Dunwich sedeva su una larga poltrona in velluto rosso e sorseggiava il vino invecchiato e profumato che il servo aveva appena versato nel suo calice d’argento. Due uomini vestiti elegantemente sedevano di fronte a lui, il più anziano stava fumando una pipa intarsiata, mentre il ragazzo fissava assorto il paesaggio. Si somigliavano molto. Alti e magri, con i capelli biondi e leggermente ondulati, spruzzati di grigio cenere per il padre, lucidi e curati per il figlio.
«E così, voi avete partecipato al massacro del Terrapieno…i racconti che sono giunti in città sono terribili.»
«Sì, è stato uno scontro molto sanguinoso.»
«Mio figlio purtroppo era gravemente malato, e non è potuto partire con i vostri uomini. Spero che la sua mancanza non sia stata causa di problemi, cavaliere.»
«No, direi proprio di no. Comunque, è stata una fortuna per lui. Abbiamo perso molti uomini laggiù.»
Dunwich bevve dal calice e piantò gli occhi sul ragazzo, che ancora non aveva detto una parola. Per continuare le sue indagini aveva scelto una tattica meno rischiosa. La lunga chiacchierata con Firacan era stata proficua solo in parte. Districare le parole dalle lacrime era stata la cosa più difficile. Fargli sputare un paio di nomi era stata una vera liberazione.
“Il problema è che non mi ha saputo dire niente, quel maledetto grassone.”
Firacan aveva pagato un tagliagole per ordine di qualcun altro, che a sua volta era stato contattato da uomini senza nome. Quello che aveva fatto non gli piaceva, ma evitava di pensarci troppo. Firacan aveva riportato al sicario il piano, lui era uscito da casa sua e aveva tentato di pedinarlo. Dunwich se n’era accorto. Aveva tentato di ucciderlo, e aveva fallito. Firacan doveva morire per quell’errore. Un concetto tanto semplice quanto consolatorio.
Per quella notte aveva rinunciato a ulteriori agguati, così aveva chiesto un colloquio per la mattina seguente con la famiglia di Erain, il secondo indiziato. Lo aveva sentito nominare sia dal ciccione che da suo padre. Un ragazzo di buon livello. La sua posizione sociale lo proteggeva ben più di Firacan, dato che Erid, suo padre, sedeva nel consiglio della città come rappresentante del popolo. Una posizione prestigiosa. Dunwich dubitava esistesse un uomo tanto folle da metterla in pericolo sobillando contro l’impero. Ma ormai aveva una pista da seguire, e l’avrebbe portata fino in fondo.
«Agli ufficiali è giunta voce che a breve ci sarà un nuovo attacco.»
Il vecchio politico si accigliò e fissò basito Erain, che però restò in silenzio.
«Mio figlio non me ne ha parlato.»
«No padre, io non so nulla. Penso che non sia ancora stato deciso.»
Il tono del ragazzo era umile, dimesso e timoroso. Fin troppo timoroso.
«Si parla anche di un avvicendamento ai gradi più alti, e in alcuni casi qualcosa si è già mosso…hai avuto notizie, Erain?»
«No, neanche di questo mi è giunta notizia.»
«Perché poi cambiare? Per ora mi sembra che tutto stia andando piuttosto bene. I comandanti attuali sanno svolgere il loro lavoro egregiamente» si intromise il padre.
“Che mi stia sbagliando?” pensò perplesso Dunwich. “Sembrano davvero tranquilli… con me qui di fronte a loro, dovrebbero mostrarsi a disagio, e invece…”
Erid continuò. «Ma parliamo di voi, comandante. Ho sentito parlare molto bene di voi, e delle vostre incredibili abilità in battaglia…mio figlio segue le vostre gesta con ammirazione e spirito di emulazione.»
Erain abbassò gli occhi con fare umile. «Suvvia, non mettetemi in imbarazzo di fronte al nostro illustre ospite, padre.»
Dunwich non riusciva a comprendere l’atteggiamento di Erain. Timido, imbarazzato dalla sua stessa presenza. Ma non per chissà quale segreto. Dunwich sapeva di essere un idolo per le Lance più giovani. Non era una novità. Fino a quel momento, il ragazzo non aveva commesso alcun passo falso. Trasudava innocenza in modo fastidioso.
«Soprattutto ammira la vostra grande capacità di comando, che assieme alla vostra lealtà vi rende un comandante nato, un uomo del futuro…lui stesso mi parla così di voi.»
Erain arrossì visibilmente, ed evitò lo sguardo indagatore di Dunwich.
«Come vostro figlio sicuramente sa, la lealtà è la prima dote di un buon soldato…vero, compagno?»
«Sì, comandante. Le vostre parole sono sempre sagge» rispose lui prontamente.
Dunwich lo aveva visto in azione solo un paio di volte, niente che fosse più impegnativo di una ronda o un turno di notte di guardia alle tende degli ufficiali. Non gli era sembrato un ragazzo adatto a combattere. Aveva pensato che il padre lo avesse costretto a far carriera nelle Lance, ma da come parlava sembrava semmai il contrario.
«Come mai hai scelto di diventare una Lancia, Erain?»
Il padre stava per rispondere, ma il ragazzo fu più svelto. «Perché ammiravo le grandi personalità che difendono l’onore della capitale, comandante.»
«Lodevole, davvero lodevole. Mi dispiace di aver avuto poche opportunità di averti a fianco in battaglia, alla luce del sole.»
Il politico fissò spiazzato Dunwich. «cosa intendete, comandante?»
«Nulla di malizioso. Avrei semplicemente voluto ammirare il valore di vostro figlio, ma non vi è mai stata l’occasione…» rispose Dunwich.
Erain arrossì e abbassò di nuovo gli occhi a terra.
«Anch’io sogno da sempre di combattere al vostro fianco, ma il mio stato di salute è fragile. Mi ammalo facilmente, fin troppo facilmente.»
«Purtroppo è così. Mio figlio ha l’animo guerriero, ma il corpo di un bambino. Sin da piccolo è sempre stato gracile» confermò il padre annuendo con espressione grave. «Gli ho proposto parecchie volte di affiancarmi in politica, ma lui non ne ha mai voluto sapere. Preferisce la vita da Lancia Imperiale, anche se solo a metà.»
«Mi dispiace» rispose Dunwich deluso. Impossibile che quel insulso figlio di papà gli stesse nascondendo qualcosa. Lui e suo padre gli avevano appena confidato che avevano dovuto pagare per permettergli di superare le selezioni fisiche delle Lance Imperiali. «Verrà il giorno in cui potrò avere vostro figlio a disposizione, e sono sicuro che potrà essermi di grande aiuto.»
Dunwich si alzò e consegnò il calice al servo che aspettava pazientemente vicino alla parete del salotto.
«Un’ultima cosa, Erain… sto cercando un ragazzo di nome Firacan, mi è stato consigliato da un amico, pensavo di utilizzarlo per una guardia piuttosto delicata. Ho provato a casa sua, ma non l’ho trovato. Mi è sembrato di vedervi qualche volta parlare insieme, magari potresti aiutarmi…»
Erain rispose con voce carica di disgusto. «L’ho frequentato qualche volta, insieme ad altri della caserma. Siamo andati a bere un bicchiere di vino ogni tanto. Ma non ho la più pallida idea di dove si sia cacciato.»
«Perché tutto questo astio?»
«Astio?! No capitano, nessun astio. Solo che dopo averlo conosciuto un po’ meglio, ho preferito evitare di vederlo di nuovo. Un laido codardo dalla bocca troppo larga, e sporca.»
«Ha detto qualcosa di sconveniente?»
«Più di una. Parlava male delle Lance. Le chiamava Mance. Insinuava che fossero corrotte e stessero remando contro la guerra dell’Imperatore. Ho discusso con lui un paio di volte, e poi, se mi permettete, l’ho mandato a quel paese.»
«Come non detto, chiederò a qualcun altro. Grazie per la piacevole conversazione.»
«Figuriamoci, è stato un piacere tutto nostro» rispose Erid alzandosi in piedi.
«Capitano… l’onore è tutto mio» gli fece eco il figlio.
Dunwich uscì più confuso di quando era entrato. Firacan era stato imbeccato da qualcuno, ma evidentemente non da Erain.
“Quel ragazzo è così puro che stona in mezzo ai suoi compagni… il grassone deve aver fatto il suo nome solo per sviarmi. Sono di nuovo punto e a capo. Ora è il turno di Nidanio.”
L’ultima tappa della sua breve pista. Un provetto cantore in attesa di un posto da corista all’Arcana, il classico uomo senza infamia e senza lode. Poco appariscente, poco conosciuto e poco affermato. Dunwich non sapeva neppure se avesse una famiglia di prestigio alle spalle. Era l’unico altro nome uscito dalla bocca del grassone.
“La persona meno adatta a gestire un complotto… ma non ho altro” pensò infilandosi fra la folla assiepata sulla grande via centrale di Cambria.
***
Dunwich era seduto alla scrivania della sua biblioteca privata, intento nella lettura di un saggio di strategia che aveva comprato quel pomeriggio in una piccola libreria del centro. Il solito manuale per studenti dell’accademia militare, oltretutto estremamente vecchio. Circa tre secoli, stimò a occhio. Sorrise al pensiero che Cambria, dopotutto, applicava le stesse e identiche tattiche da decine di generazioni. Ovvio che Eldain risultasse come un genio strategico, pensò scuotendo la testa.
Dopo giorni passati inutilmente a rintracciare informazioni su Nidanio, aveva avuto la fortuna di incrociarlo casualmente davanti alla libreria. Un doppio colpo di fortuna, dato che proprio in quel momento un carro carico di balle di fieno era passato sulla strada impedendo alla sua preda di vederlo. Dunwich aveva aspettato fuori confondendosi fra la gente di passaggio, ed era entrato solo quando Nidanio se n’era ormai andato.
Il negoziante, un uomo anziano e cortese, lo riconobbe e lo ricoprì di elogi, sfregandosi le mani pregustando un lauto acquisto. Dall’unica vetrina del negozio Dunwich aveva notato Nidanio sfogliare un libro dalla copertina rossa, così chiese al libraio di cosa si trattasse e se fosse in vendita. Naturalmente, erano stati sufficienti pochi cavalieri d’oro per convincerlo a privarsene.
Senza perdere altro tempo era tornato a casa, si era chiuso nel suo studio e aveva iniziato a studiare la struttura e la copertina del libro.
“Cosa stava cercando? Non è uscito con altri libri in mano, e questo è l’unico che ha sfogliato a lungo.”
Sull’ultimo indiziato della sua breve lista non era riuscito a scoprire molto. Onesto lavoratore, anonimo al punto da diventare naturalmente sospetto, non aveva amicizie importanti, né frequentava taverne o ritrovi noti. Quel libro era il suo primo contatto con la vita di Nidanio. E, in linea con il personaggio, era una pubblicazione banale e di poco valore.
Era giunto ormai alla metà del libro e non aveva ancora notato niente di insolito, a parte una discreta bravura dello scrittore che lo spronava a continuare nella lettura.
“Perché uno studioso di armonia dovrebbe interessarsi a libri militari?! Certo che è scritto proprio bene, ma non ci vedo nulla di…” pensò mentre sfogliava la pagina conclusiva di una lunga disquisizione sull’utilizzo della cavalleria in battaglia.
Proprio all’inizio del nuovo capitolo, Dunwich si rese conto che stava leggendo ad alta voce. Una cosa che non faceva mai, e non aveva mai fatto neppure da bambino.
Ma quel che era peggio, le sue parole non coincidevano con il libro. Stava intonando qualcosa senza volerlo.
“Una trappola!”
Troppo tardi. Neppure le sue mani volevano saperne di staccarsi dal libro rosso. Le parole presero a condensarsi in un canto. Riconobbe al volo di cosa si trattasse. Stava ricercando la risonanza del fuoco. E lo stava facendo molto male. Al primo passaggio sbagliato, il canto si sarebbe rivoltato contro di lui. In preda al panico tentò l’ultima possibilità pensando disperatamente alla sua risonanza prediletta, ottenuta in anni di fatica all’Arcana. Il suo corpo scomparve all’interno della propria ombra sul pavimento nell’istante in cui la sua voce raggiunse l’ultima nota. Il libro divenne improvvisamente nero ed esplose, con una violenza tale da polverizzare l’intero contenuto della stanza. La finestra che dava sul cortile si frantumò in mille pezzi e i muri si creparono sventrati.
Quando riapparve dal pavimento, Dunwich dovette farsi largo fra le macerie. La sua villa era stata mozzata di netto dall’esplosione. Incredulo e scosso, si guardò intorno un istante boccheggiando per la polvere e la paura. Per ottenere una trappola tanto fine, Nidanio doveva avere modificato il testo in modo sopraffino. Aveva sentito parlare di quella tecnica. Inserire lettere e porzioni di parole che stimolavano una sorta di lettura ritmica, soprattutto nel caso di cantori o studiosi di armonia. Difficile accorgersene in tempo, un appassionato di risonanze aveva la mente viziata dalla continua ricerca di esse. Gli occhi di Dunwich avevano riconosciuto prima del suo cervello uno schema preciso nelle modifiche apportate da Nidanio al testo. E le aveva interpretate come se avesse di fronte lo spartito di un canto. Che si era ritorto, inevitabilmente, contro il suo stesso artefice.
Un trucco dannatamente efficace, pensò stordito.
Non appena si riprese del tutto, uscì di corsa dalla casa senza rispondere alle domande terrorizzate dei servitori. Sulla strada che costeggiava il cortile, molti passanti si erano radunati per osservare il fumo che usciva dalle finestre e si alzava dal rudere devastato. Qualcuno stava chiamando aiuto a gran voce. Molti altri stavano semplicemente lì in piedi ad ammirare lo sfacelo, bisbigliando fra loro. Dunwich si ritrovò circondato da chi scappava e chi giungeva richiamato dalle grida.
Quando sentì cantare, Dunwich pensò solo a buttarsi in terra con la faccia schiacciata sul selciato.
«Signore?! Cosa succede, signore?» gli chiese uno dei servitori, strattonandolo per il braccio.
«Sta giù, idiota!»
La lama di fuoco passò a una spanna dalla sua schiena, investendo il servo e tutti i cittadini che si erano radunati di fronte al luogo del disastro. Le gambe dell’uomo si arroventarono e la carne incenerì fino a liberare le ossa bianche, appena sopra le ginocchia. Ciò che restava del suo domestico crollò sopra di lui.
Dunwich vide donne cariche con i cesti della verdura rotolarsi inutilmente in terra per spegnersi le fiamme dal torace. Un vecchio era stato tagliato a metà. Le gambe riverse da una parte, il torso svuotato dalle viscere dall’altra.
“È come essere in battaglia. È come essere in battaglia. È come essere in battaglia…” si ripeté in testa meccanicamente.
Difficile concentrarsi. Il fetore di carne bruciata era intollerabile. Dunwich si mosse d’istinto. Scostò il cadavere del servo e si mise a correre a perdifiato verso un vicoletto dall’altra parte della strada.
“La voce veniva da lì, ne sono certo!”
Un uomo stava fuggendo verso il fondo del vicolo, scansando i mucchi di rifiuti e le cassette di legno sfondate che ingombravano il terreno. Dunwich alzò le mani, le congiunse davanti al volto, e sibilò una breve armonia.
Una bordata invisibile di aria sfrecciò fra le pareti delle case. I vetri delle finestre esplosero a raffica al suo passaggio. Nidanio si voltò e allargò le mani cantando esattamente la stessa melodia di Dunwich. L’onda d’urto spazzò via qualsiasi cosa, distruggendo qua e là i mattoni e le lastre di pietra della strada. Nidanio ne era uscito senza un graffio. Era entrato in sincronia con la sua risonanza, pensò incredulo Dunwich. Con una velocità e precisione rara.
«FERMATI BASTARDO!» urlò Dunwich mentre stava già pensando a un altro canto. Nidanio poggiò le mani alle pareti mormorando a testa bassa.
“Non riesco a sentirlo! Ma che razza di…”
Dai muri spuntò una cascata di aculei che si chiusero a tagliola intorno a lui. Erano fatti di pietra e cocci, una grottesca fusione di muro plasmato a piacimento dall’armonia di Nidanio. Dunwich scivolò a terra. Uno spuntone per poco non lo trafisse alla gola. Sdraiato di schiena, la sua voce si alzò rombando di collera, e nell’aria si materializzò una sfera di luce verde intensa come un piccolo sole, che schizzò a gran velocità contro il suo nemico. Una sua variante personale della classica risonanza del bagliore. In quel modo, il bastardo non avrebbe potuto emularlo e salvarsi, pensò. Tutto ciò che veniva sfiorato dalla luce si anneriva e cadeva in terra, sbriciolato. Dunwich rotolò su un fianco e si gettò di corsa in avanti, inseguendo la sfera.
Nidanio era bravo, ma non quanto lui. La luce verde lo investì in pieno. Dunwich allungò la mano sulla cintura per sguainare la spada, e solo in quel momento si rese conto di non averla con sé. Non era in battaglia. Fino a poco prima era nel salotto della sua bella e comoda villa.
Il suo piano si ritorse contro di lui. Nidanio era bruciacchiato, con la pelle del volto grigia e cascante e gli occhi che gocciolavano sangue, ma era ancora vivo. Con voce rotta innalzò un canto claudicante. Il suo braccio si irrigidì e si appiattì. Mutò plasticamente in una spada di carne dura. Dunwich tentò di fermarsi per contrattaccare, ma non fece in tempo. Poté solo schivare i primi due fendenti. La grottesca lama di pelle affilata gli affettò il braccio profondamente. Nidanio aveva ripreso coraggio, e incalzava con un sogghigno che lasciava scoperti i denti liberi dalle labbra corrose dalla luce verde. Dunwich cercò di affrontarlo a mani nude, ma Nidanio continuava a vorticare furiosamente il braccio.
«Crepa, traditore!» grugnì Nidanio.
«Sei tu il traditore, infame!» rispose ansimando Dunwich. Il dolore gli stava offuscando la vista. La punta di carne si piantò sulla sua coscia. Un male cane. E una sensazione profondamente disgustosa.
«Muori, Lancia!».
Dunwich non perse l’attimo per rispondergli. Scivolò dentro la guardia del cantore approfittando del suo slancio scellerato, e gli afferrò in una morsa il braccio stringendoselo sotto l’ascella. Gli mollò un paio di testate in pieno naso, e appena sentì la spalla cedere, lo colpì alla clavicola più forte che poteva. L’osso scricchiolò e si spezzò. Nidanio perse la concentrazione e il braccio tornò di carne molle.
«Perché volete farmi fuori?!»
«Schifoso… porco schifoso…» rispose Nidanio gorgogliando nel sangue. Le ustioni erano dilagate su tutto il suo corpo. Dunwich lo prese al collo e strinse, ficcandogli le dita sotto il mento.
«DIMMELO!»
«Lance infami… nemici del popolo…»
«CHI TI HA ORDINATO DI UCCIDERMI!»
Nidanio scoppiò a ridere sguaiatamente. Sotto la sua pelle lampeggiava un bagliore rossastro. Un filo di fumo prese a salirgli dagli occhi. Stava cantando qualcosa. Ma stava sbagliando di proposito. Un suicidio, pensò Dunwich. Stava volutamente portando il suo corpo in disarmonia. Una risonanza errata come quella poteva avere effetti spaventosi.
«Maledizione!» Dunwich mollò la presa e svanì dentro il terreno. Appena in tempo.
«LUNGA VITA ALLA FAMIGLIA LOREN!» furono le ultime parole che riuscì a sentire, prima che tutto il vicolo venisse spazzato via dall’esplosione.