XII

 

 

 

 

 

 

 

“Mi duole informarvi che il guaritore a cui avete richiesto i vostri servigi è rientrato al tempio senza aver potuto svolgere l’incarico…”

Dunwich sospirò stizzito, trattenendo l’impulso di fare a pezzi la solita, ennesima lettere di scuse dal tempio del Misericordioso. I classici incompetenti. Si era sgolato fino allo sfinimento, ripetendo a quel branco di incapaci di non desistere di fronte a Varno. Non era la prima volta che quel cocciuto testardo spediva via in malo modo il medico che lui mandava regolarmente per visitare sua madre.

“… per quanto abbiano cercato, lui e i due uomini di scorta, non sono stati in grado di trovare la casa da voi descritta…

Ancora peggio. Come avevano fatto a non trovare una casa?! Per di più dopo che avevano ricevuto una minuziosa mappa per raggiungerla. Dunwich non aveva intenzione di fargliela passare liscia, al Maestro del Misericordioso. Quell’omino insolente avrebbe avuto ciò che meritava, poteva starne certo.

“… al posto della casa, nascosti fra la vegetazione, è stato rinvenuto solo un cumulo di ruderi anneriti…”

Dunwich sentì il cuore piombargli fra i piedi.

“… provvederemo a inviarvi il prima possibile parte del pagamento, per scusarci dell’inconveniente. I nostri più cari saluti.”

Dunwich corse fino alla porta, afferrò il primo mantello che trovò a portata di mano e la spada appesa alla rastrelliera, e si precipitò fuori incespicando sui gradini dell’ingresso. Il cavallo aspettava pazientemente vicino alla cancellata che separava l’elegante giardino curato dalla strada affollata e chiassosa. L’aria era tiepida e piacevole, una splendida giornata primaverile.

“… sono stati rinvenuti solo un cumulo di ruderi anneriti…”

Dunwich raggiunse le grandi porte d’ottone di Cambria galoppando come un pazzo fra la gente, fermandosi solo un momento dal capitano delle guardie, che subito rizzò la schiena al suo cospetto, aspettando un suo ordine.

«Devo assentarmi dalla città per qualche settimana. È una emergenza grave, devo controllare di persona che tutto vada per il meglio.»

Il soldato strabuzzò gli occhi perplesso, e annuì senza fissarlo.

«Avvisa il palazzo della mia assenza, manda qualcuno a riferire ad Asaeld.»

«Signore… un’emergenza?!»

«Hai per caso qualche obiezione?»

«No, signore.»

Dunwich ripartì al galoppo senza aspettare oltre. La faccia costernata del capitano gli strappò un sorriso, ma fu solo un istante.

“…solo un cumulo di ruderi anneriti…”

 

***

 

I segni della guerra avevano intaccato in profondità la terra, là dove si erano svolte le battaglie più cruente. Distese di fango e radici divelte disegnavano i campi dove l’esercito imperiale e i ribelli avevano combattuto per giorni e mesi. La neve dell’inverno aveva ricoperto lo scempio, infiltrandosi sotto le zolle e mischiandosi alla melma, fino a rendere quella terra un’immensa spugna senza vita.

“I ribelli si sono spinti così lontano dal Terrapieno?! Non pensavo…”

Dunwich cavalcava da dieci giorni, fermandosi solo per lasciar mangiare il cavallo o per cambiarlo direttamente ai pochi ostelli che incontrava ai crocevia. Ce n’era sempre uno a disposizione per una Lancia importante quanto lui. Lungo la vecchia strada lastricata, il viavai era quasi inesistente. Tutti i mercanti che provenivano da Nord e da Sud utilizzavano le carraie e i sentieri più nascosti, protetti da scorte poderose di mercenari. Il motivo era tristemente noto. I villaggi che un tempo correvano lungo la strada maestra erano stati tutti abbandonati, e si erano trasformati in cupi e pericolosi covi di malfattori e sbandati.

“Dovremmo fare qualcosa… Cambria è così vicina, non possiamo lasciare queste terre allo sbando…” pensò mentre seguiva con gli occhi i lontani profili delle case di un villaggio diroccato. “Siamo a uno sputo da Etelan, questi territori devono per forza essere tenuti sotto controllo. La gente ha troppa paura che le loro case finiscano inglobate nel fronte… le campagne intorno a Essar sono in condizioni migliori, laggiù non si nota neppure che siamo in guerra.”

Erano passati tre anni dal suo trionfale ingresso nelle Lance Imperiali, e tutto stava andando a meraviglia. Era stato innaffiato d’oro, abitava in una villa lussuosa nel cuore della città, partecipava a cene e salotti prestigiosi più spesso di quanto potesse sopportare. Aveva accesso alle sale dove si discutevano le strategie della guerra, e poteva dire la sua in ogni momento. Insieme ad Asaeld aveva partecipato ad alcune incursioni, gli era stato assegnato il comando di un plotone di Lance, e si era comportato magnificamente. Tre anni incredibili e sontuosi.

Stracciati come un bel sogno da quella maledetta lettera.

Dunwich non si era neppure reso conto che sua madre non mandava più notizie da mesi. Di quanto fosse strano che suo padre respingesse i medici, che non potesse essere solo un colpo di testa. Troppo assorbito dalla vita mondana, dalle pianificazioni strategiche, dalle brevi battaglie che aveva l’onore di gestire senza alzare un dito. Troppo impegnato a evitare le donne che cercavano di sedurlo. Era affondato nel suo stesso ego, disinteressandosi di tutto e tutti.

“Chissà come sta Silia.”

Non pensava a lei da molto tempo. Un’altra vittima del suo successo. Dopo solo pochi mesi di carriera, appena si era trasferito, non aveva esitato a sbatterle la porta in faccia. Non gli era mai interessata molto quella ragazzotta, buona solo a scaldargli il letto. Da quando era diventato una Lancia aveva ben altre ambizioni, prima fra tutte, la guerra. Voleva andare al fronte, viaggiare lungo i confini dell’impero per ristabilire l’ordine, e non voleva di certo tenersi una donna a casa ad aspettarlo.

“Avrei potuto almeno spiegarle cosa mi passava per la testa… ma ormai…”

Come aveva fatto a dimenticarsi della sua famiglia, si chiese. Gli ultimi medici erano tutti tornati a mani vuote, scacciati via da suo padre. Perché non aveva preso in mano la situazione? Ricordava molto bene le aspre critiche che Mordraud gli aveva fatto, l’ultima volta che si erano visti.

“Torna a far carriera, Dunwich. Dopotutto, tale padre tale figlio.”

«Io non sono come Varno!» sibilò infuriato. Il cavallo stava rallentando sempre di più, sopraffatto dalla stanchezza. Dunwich picchiò con forza i talloni e lo costrinse a proseguire ancora.

“Mio padre potrà aver fatto qualche errore, ma Mordraud esagera. Cosa avrei dovuto fare?! Marcire in quella foresta e invecchiare di rimpianti?”

Per colpa di quella lettera avrebbe perso la festa di Primavera a palazzo, una delle poche a cui partecipava l’Imperatore. Non riusciva a capire se gli dispiacesse, o si sentisse sollevato. Della vita mondana avrebbe fatto volentieri a meno, ma le Lance avevano precisi obblighi da rispettare nella società. A volte si chiedeva se non fossero troppi, rispetto ai reali successi sul campo dell’esercito di Cambria. Dunwich aveva idee ben diverse su come gestire la guerra. Niente dispersioni inutili lungo un fronte immenso, niente battaglie campali, nessuna parata né schermaglie diplomatiche con i territori in bilico fra le due fazioni.

“Un’incursione mirata, un cuneo con centinaia di Lance ad aprire la strada ai cavalieri. Dobbiamo colpire a martello il terrapieno, concentrandoci solo su una direttiva, con le retrovie che si allargano sempre di più per prendere il controllo delle zone intorno all’asse d’attacco. Puntare a Eld senza esitare. In estate, quando le loro forze sono disperse per proteggere l’intera tratta del confine. Il mio piano è buono, maledizione…”

Era una strategia su cui rimuginava da tempo, e che aveva già proposto diverse volte ad Asaeld senza successo. Non capiva perché si rifiutasse così ostinatamente di prenderla in considerazione.

«Non si può fare» gli aveva semplicemente risposto.

«E perché mai?! È un buon piano, e nessuno l’ha mai tentato prima…»

«Secondo te, come mai? Se è così buono, e così lineare, perché non l’ha mai attuato nessuno?» Asaeld era un uomo autoritario, e molti faticavano a reggere una lunga conversazione con lui, schiacciati dalla sua presenza. Ma Dunwich no.

«Si vede che nessuno ci ha mai pensato…»

«No, che idiozia! In tanti ci hanno pensato. Ed è stata anche tentata!»

Dunwich era trasalito, inconsapevole di quell’importante precedente.

«E quando?!»

«All’inizio della guerra, fu uno dei primi tentativi. Ma andò male… assai male. Da allora, nessuno ha più intenzione di tentare un’incursione simile.»

«Ma io non ho mai trovato nulla, nessun libro, neppure un commento su quella battaglia! Come mai?!»

Asaeld aveva scrollato le spalle disinteressato. «Si vede che è stata una sconfitta fin troppo cocente, ed è stata rimossa dagli annali.»

Dunwich non era molto convinto della spiegazione del suo comandante, ma non poté fare molto più che accettare la cosa in silenzio. Avrebbe studiato qualcos’altro.

I villaggi svanirono alle sue spalle, e la strada che portava alle montagne a Nord finalmente scartò verso Est, tuffandosi fra le colline ammantate di boschi. Il fronte era vicino, ma lui sapeva come aggirarlo. Negli ultimi tempi, la linea si era spostata chiudendo il passaggio che aveva usato da ragazzo per tornare a casa. Ma in quella zona, le maglie del fronte erano ancora larghe. Cambrinn teneva sotto osservazione le strade di montagna transitabili dall’esercito, ma non poteva tenere d’occhio i sentieri più impervi. Lui ne conosceva diversi. Scelse quello più imboscato e tortuoso.

Dunwich seguì a memoria il percorso, insinuandosi sempre di più all’interno del letto di colline che salivano e scendevano senza sosta in tutte le direzioni. La foresta aveva un potere calmante sui suoi nervi tesi. Al calar della notte si concesse un lungo riposo corroborante, ben nascosto dagli alberi e dalla coperta color terra che aveva nella bisaccia.

“Mi sembra di essere tornato bambino… quando passavo la notte fuori in giardino e papà si arrabbiava” pensò fissando le fronde che si agitavano silenziose.

“Tre anni… Mordraud dovrebbe averne diciannove, ormai.”

Sperava con tutto il cuore che fosse soltanto un malinteso. Altrimenti cosa avrebbe fatto, si chiese angosciato.

Si addormentò prima di conoscere una risposta.

 

***

 

Impossibile dimenticare quel sentiero. Saliva dolcemente piegandosi intorno alle basse pareti di terra bucherellate dalle radici, come un solco scavato da un aratro. Quando pioveva, i ciottoli ruzzolavano nei rivoli d’acqua ammassandosi a destra, dove riposava un masso tondeggiante. Il sentiero lentamente saliva e saliva, fino a raggiungere il piano del bosco, battuto sempre da un leggero vento da Ovest. Se si fosse arrampicato su uno di quegli alberi, la quercia a cui un fulmine aveva spezzato uno dei rami bassi creando un bizzarro ponte levatoio, avrebbe potuto vedere il piccolo villaggio a un’oretta di distanza. L’aveva fatto decine di volte, quando giocava da solo e si immaginava grandi storie di mostri e guerrieri come suo padre che li sconfiggevano, stanandoli uno dopo l’altro. Il sentiero curvava ancora, superava un ammasso di pietre sbeccate che i suoi genitori avevano accumulato lì mentre sistemavano la casa, e finalmente avrebbe visto l’aia dove razzolavano le galline, tenute d’occhio dal cane da caccia nero di cui non ricordava più il nome. Era grosso e puzzava da morire, ma era sempre stata una brava bestia. La sua cuccia era proprio a ridosso della parete a Sud della casa, quella che guardava al sentiero, su cui si affacciavano le finestre quadrate decorate con il pizzo bianco.

Dunwich quasi credette di vedere la casa per davvero, perso in un viaggio all’interno dei suoi ricordi. Invece, al posto del luogo in cui era nato, non c’erano altro che arbusti, giovani alberi e muschio verde scuro.

“…solo un cumulo di ruderi anneriti…”

«Tutto distrutto» mormorò senza forze.

«Tutto bruciato.»

Dunwich vagò fra le rovine guardandosi intorno con occhi vuoti, spostando di tanto in tanto le macerie nella speranza di trovare qualcosa, qualsiasi cosa potesse aiutarlo a capire. Com’era potuto accadere, si chiese disperato. Era stata una fatalità? Erano riusciti a mettersi in salvo? Si sentiva travolto da una cascata di domande. Si guardò le mani. Erano nere di fuliggine e sanguinavano in più punti, dove le schegge di legno erano penetrate sotto la pelle.

Dunwich iniziò a cantare. La sua voce disegnò nell’aria una triste nenia, un canto funebre appena sussurrato, che crebbe fino a conquistare un ritmo e una cadenza inquietante, zoppa. Il culmine giunse all’improvviso. I suoi occhi divennero vetro trasparente, due biglie che lasciavano intravedere il sangue e i nervi rinchiusi oltre la cavità oculare. Il paesaggio virò al grigio, velandosi di una nebbia improvvisa. Non molto lontano dalla casa, Dunwich sentì due colonne di suoni impennarsi fra gli alberi, piuttosto distanti l’una dall’altra, e non perse tempo. Risonanze di morte. Le vedeva come se fossero composte di note bianche. Saltò le rovine e corse nel cuore della foresta mantenendo gli occhi al cielo, dove le due colonne salivano fino a sfiorare le nuvole con i loro echi. Scelse la più intensa, deglutendo a fatica un sasso in gola.

Ai piedi di un vecchio albero ritorto, Dunwich prese a scavare con le mani, scuotendo la testa per disperdere il canto. Ogni colore ritornò al proprio posto, e i suoi occhi riapparvero nelle orbite. Non dovette scavare a lungo. Con i polpastrelli ebbe la sgradevole sensazione di sfiorare qualcosa di molliccio e putrescente.

Era la gamba di sua madre.

Dunwich cadde indietro e balbettò un urlo strozzato.

 

***

 

«MALEDETTO! CHE COS’HAI FATTO?!»

Il cavallo galoppava così velocemente che le sue lunghe zampe sembravano sfiorare appena le lastre di selce che rivestivano la strada. Le colline, le foreste e il fronte erano ormai alle sue spalle. Non ricordava un istante della sua fuga precipitosa, sapeva solo di aver gridato maledizioni cariche di rabbia corrosiva, e di non essersi mai fermato per riposare. La bestia rantolava disperatamente, con il cuore ormai finito. Dunwich strattonò le briglie con ancora più forza.

«Lo so che sei stato tu… bastardo infame!»

Si era aspettato di trovare la sua famiglia uccisa dalle fiamme o dal crollo della casa, e si era preparato a sopportarlo. Ma quello che aveva visto superava di gran lunga le sue più nere previsioni.

Il corpo di suo padre era stato crivellato di pugnalate, decine e decine di ferite inferte da una mano imprecisa e brutale. Sua madre non avrebbe mai potuto fare una cosa simile. Gwern era a malapena un bambino.

Mordraud.

«Perché l’hai fatto? PERCHÉ?!»

Eglade era morta di paura e di stenti. Varno era stato assassinato. La casa in cui era nato non esisteva più.

Dunwich afferrò la testa del cavallo, urlandogli nell’orecchio una breve melodia rabbiosa e sgarbata. L’animale nitrì disperatamente, e sbavando a cascata dalla bocca aperta accelerò ancor di più, oltre ogni sua possibilità.

Doveva trovare Mordraud.

 

***

 

«Ti va un bicchiere di vino? Ci sono anche i biscotti secchi che la cuoca ha preparato ieri…»

«Mh, perché no?!»

«Ci penso io.»

Mordraud si alzò dalla sua morbida poltrona, sgranchendosi le gambe dopo un sbadiglio. La saletta da lettura era calda e piacevolmente profumata da un vaso di fiori freschi, un aroma sottile e soporifero. Deanna passava la maggior parte del tempo in quella stanza, a volte senza uscire neppure per pranzare. Mordraud, allora, si sedeva con lei sul largo davanzale della finestra, che dominava il cortile sul retro della villa e i tetti delle case fino alle mura a Sud del feudo. Mangiavano con il piatto in mano come in una festa all’aperto. Quando Adraman era a casa si riunivano al tavolo nella sala dei ricevimenti, e Mordraud restava in rispettoso silenzio in attesa del momento in cui Deanna si stancava di conversare distrattamente con suo marito, per poi seguirla di nuovo nel suo amato salottino.

I primi mesi con lei non erano stati facili. Deanna era abituata a comandare a bacchetta, e Mordraud odiava essere chiamato per ogni sua frivolezza.

“Mordraud, raccontami ancora la storia di Cambirian” e ancora “Mordraud, leggimi quel racconto della maga Isella mentre mi sistemo i capelli.”

Oppure, “Mordraud, vai in paese e compra qualche biscotto al mosto, e prendi anche una bottiglia di vino dolce.”

“Mordraud fai questo, Mordraud fai quello…” era un ritornello che stava logorando la sua debole pazienza. Aveva superato i diciotto anni, era quasi un suo coetaneo, ma il suo aspetto ancora infantile lo condannava a essere poco più che un paggetto, o ancor peggio una balia. A volte Deanna gli chiedeva persino di raccontarle una storia prima di appisolarsi, e Mordraud doveva convivere con l’ansia di veder piombare Adraman in camera da letto, infuriato dalla mancanza di rispetto della moglie.

La primavera portò con sé l’ennesima stagione degli scontri, e la maggior parte dei soldati del feudo partì per dislocarsi lungo tutta la frontiera. Adraman se n’era andato senza neppure salutarlo, dopo un brutto litigio con Deanna. Mordraud sentì tutto dalla sua camera, anche se era dalla parte opposta della grande casa.

«Perché mi tratti così?! Non merito tutto questo!» aveva urlato Adraman, più con dolore che con rabbia.

«Che diritto hai di pretendere qualcosa da me? Passi mesi lontano da casa, e ti aspetti che al tuo ritorno io sia a braccia aperte, anzi… a gambe aperte sul letto?!»

Deanna non mostrava alcuna remora a rispondere a tono a suo marito. Quasi sempre era Adraman a dover chinare il capo e accettare in silenzio. Ma quella volta lui non sembrava intenzionato a mollare.

«Devi mostrarmi un po’ di rispetto, Deanna!» aveva risposto alzando la voce. «Non puoi nemmeno immaginare come di solito gli uomini trattino le proprie mogli!»

Mordraud era uscito per ascoltare meglio. Si era nascosto alla base delle scale, pronto a sgattaiolare via al primo accenno di pericolo.

«Ah sì?! Vuoi sbattermi sul letto e scoparmi? Vuoi darmi un pugno in faccia per riportami all’ordine?! Guarda, ho già la vestaglia, guarda qui… faresti in un attimo a strapparmela via.»

Un silenzio innaturale era calato su tutta la casa, come se il litigio non avesse mai avuto luogo. Ma durò poco.

Un tonfo, poi il suono di qualcosa che era volato in terra schiantandosi. Un solo, nitido cigolio del letto. E poi, un urlo spaventoso. Mordraud aveva visto Adraman scagliarsi fuori dalla stanza sbattendo la porta con una tale forza da far scricchiolare i cardini, e lo aveva seguito con lo sguardo fino all’ingresso.

Il cavaliere era rosso in faccia, ansimava e tremava. Aveva gli occhi rossi di un pianto appena accennato. Era corso fuori a testa bassa, senza neppure chiudersi la porta alle spalle.

Il giorno dopo, fu molto difficile convincere Deanna ad aprirgli la porta della sua camera. Si era chiusa dentro e non era uscita né per colazione, né per pranzo. Quando finalmente riuscì a entrare, Mordraud dovette dar fondo a tutta la sua scarsa disciplina.

Deanna era mezza nuda, sdraiata sul letto a pancia in su. Non aveva alcun segno addosso, nessun livido o graffio, neppure il minimo accenno di uno schiaffo. Stava bene, ma sembrava svenuta con gli occhi aperti. Si era alzata solo per aprirgli, ed era subito ritornata sul grande letto disfatto.

La vestaglia di seta grigia era tirata su oltre la coscia, leggera come un bisbiglio. Mordraud cercò in tutti i modi di non fissarle le gambe nude, e la curva invitante del seno. I capelli neri le scendevano a scomposti boccoli sulla pelle, spargendosi intorno fra le lenzuola sgualcite. Mordraud deglutì pesantemente. Era la prima volta che vedeva da vicino il corpo di una donna, che non fosse quello di sua madre. O di Larois, di striscio.

«Deanna, vieni a mangiare qualcosa…»

Lei non rispose. Mordraud si sedette e aspettò una sua risposta.

«Dopo ti va di giocare un po’ a dama? Devi darmi la rivincita!»

Nessuna reazione. Mordraud sentì per un istante l’insana pulsione di voltarsi, afferrarla in modo virile, e guardandola negli occhi dirle sono io l’uomo che desideri.

Uno dei pensieri più idioti che avesse mai avuto in vita sua.

«Avevo poco più che la tua età quando mio padre mi ha promessa alla famiglia Adren… anzi, mi ha venduta» mormorò Deanna con voce lontana. «Sai per quanto mi ha venduta? La concessione di un terreno da pascolo a Est, una partita di legname e il diritto di prelazione su un ottimo raccolto di grano.»

«Io ero ancora piccola, non capivo cosa fosse un matrimonio, e mi sono ritrovata a dover dormire con un uomo che poteva essere mio padre» continuò lei. Mordraud ascoltava imbarazzato, incapace di dire qualcosa di adatto. «Non mi ha presa con la forza, anche se sarebbe stato un suo diritto. Ha aspettato per un anno. Alla fine ho ceduto. Cosa potevo fare?!»

Mordraud scosse la testa lentamente. Deanna voltò la testa per guardarlo negli occhi. Non aveva pianto neppure una lacrima.

«Mi ha sempre trattato bene. Mi ha riempito di regali, vivo in una bella casa, ho tutto quello che una moglie potrebbe desiderare. All’inizio ero anche riuscita ad abituarmi all’idea di passare la notte con lui. Ma non è durato tanto.»

Mordraud sentì la mano fremergli. Era così vicino al suo seno che avrebbe potuto toccarlo senza muovere il braccio. L’idea che in quel momento Deanna lo vedesse come un bambino gentile e pronto ad accogliere una confidenza lo faceva uscire di senno.

«Forse sono stanca delle sue continue partenze… mi aspetto di rimanere sola da un giorno all’altro, una delle tante vedove di guerra che affollano questa città…»

«Adraman sa il fatto suo. Non è uno che si fa ammazzare» disse lui improvvisamente. Non era riuscito a trovare un modo migliore per dire ciò che pensava.

«Io so solo che da quando sento questa dannata paura, l’incubo della solitudine… rifiuto ogni sua cortesia, lo scaccio dal nostro letto… è come se, ecco… per una parte di me, lui fosse già morto. E lo odio per questo, per avermi abbandonata. Sono una stupida, vero?»

«No, non dire così…» tentò di consolarla.

«Ma che sto facendo?» esclamò lei alzandosi a sedere sul letto. «Sei solo un bambino, non dovresti neppure sentire certe cose… per gli Dei, cosa mi sono messa a raccontare…»

Eccola, la parola maledetta. Mordraud le prese un abito, la accompagnò in cucina e mangiò qualcosa con lei, sorridendo e scherzando per tirarla su di morale. Continuò finché Deanna non fece il primo sbadiglio, e solo allora se ne andò per lasciarla dormire.

In piena notte, quando era sicuro che nessuno fosse nel salone, Mordraud prese una delle spade di Adraman che giacevano appese alla parete, e corse nel cortile dietro la villa.

Finché l’alba non spuntò all’orizzonte, Mordraud combatté contro il vuoto saltando e correndo senza mai urlare o dire una parola. Dentro la sua testa rimbombavano come martelli sull’ottone le ultime parole di Deanna.

“… sei solo un bambino… un bambino…”

Divenne un’abitudine. Quando tutti i servitori, Deanna, e chiunque potesse vederlo dalle finestre delle case affacciate al cortile, erano andati a dormire, lui afferrava una delle spade di Adraman dalla rastrelliera e si allenava da solo. Non gli interessava la tecnica e la potenza. Tutto ciò che desiderava era racchiuso nel semplice gesto di alzare e abbassare la lama, vederla scintillare alla luce della luna, o ammirare le gocce di pioggia schizzare via quando un temporale lo sorprendeva ancora all’aperto. Se si accorgeva per tempo di aver fatto troppo rumore, spariva a ridosso del muro di cinta del cortile, nascosto dall’ombra densa.

 

***

 

«Posso entrare?» chiese timidamente Gwern, bussando lievemente alla porta.

«Mh! Sei già arrivato! Vieni, entra pure figliolo.»

La piccola casa sorgeva a un passo dalle mura a Nord, nel quartiere più povero di Eld. Non era altro che una catapecchia in legno e argilla, costruita senza esperienza sopra le fondamenta di una vecchia guardiola per soldati abbattuta chissà quanti anni prima. Fuori, la strada sterrata era un fiume di fango. Macerie coperte di muschio erano penetrate come un cuneo fra la parete della baracca e la possente fortificazione del feudo.

«Vi ho portato un po’ di verdura fresca, e quelle ossa per il brodo che mi avevate chiesto la settimana scorsa.»

«Ti sei ricordato! Grazie infinite… appoggia pure sul tavolo, e vieni di qua in salotto.»

Chiamarlo salotto era una divertente esagerazione. Due sedie imbottite con sacchi tagliati e sagomati colmi di paglia, un tavolino costruito con quattro assi poggiate su ceppi di legna da ardere, e una stufa di ghisa con la canna sbilenca che usciva dal tetto scrostato. Gwern entrò a passo felpato, sfilandosi gli stivaletti per non sporcare il vecchio tappeto liso che copriva il pavimento di terra battuta.

«Cosa state leggendo oggi?!»

«Consigli sulla semina del grano, anno 1522. Un ottimo manuale, ma non ci sono le ultime pagine. Un vero peccato.»

Il suo nuovo amico poteva avere su per giù sei volte i suoi anni, e li dimostrava tutti. Magro e curvo, vestito in modo sciatto, ma sempre pulito, Sernio passava il suo tempo a leggere la miriade di libri che erano sparsi ovunque nella casa, impilati negli angoli, ammonticchiati per terra, nascosti sotto il tavolo. L’aveva conosciuto al mercato poco prima dell’inverno. Vendeva libri usati dentro un feudo in guerra.

Ovviamente, gli affari erano molto, molto sporadici.

A Gwern era piaciuto subito. Non aveva mai visto prima di allora il suo banchetto, perché Sernio lo approntava poche volte al mese, e un giorno aveva perso alcune ore a sfogliare i volumi in esposizione, leggendo le prime pagine e rimettendoli subito via per paura che il mercante lo rimproverasse. Lui non aveva detto una parola, così Gwern, il giorno dopo, lo aveva cercato di nuovo per leggere qualcos’altro. Il piacevole intermezzo era continuato per molti giorni. Sernio restava seduto e fisso con gli occhi sulla pagina di un grosso tomo rilegato di pelle, mentre lui sfogliava e pizzicava i fogli di pergamena continuando dal punto in cui si era interrotto.

Gwern si era rattristato molto quando il suo piccolo passatempo era terminato di colpo. Una mattina, il banchetto era stato smantellato, e nessuno al mercato sapeva se e quando Sernio sarebbe tornato. Arrivò l’inverno, e Gwern continuò immancabilmente a setacciare tutti i banchi nella speranza di ritrovare l’uomo dei libri, come lui lo aveva soprannominato.

Larois lo aiutò senza saperlo. La locandiera, che conosceva tutti in paese, ogni tanto effettuava qualche consegna a domicilio a chi aveva problemi a camminare, ai malati e ai feriti. Un giorno particolarmente freddo, bloccata sul divano da un brutto dolore alla schiena, chiese a Gwern di compiere il solito giro, e gli indicò tutte le case in cui doveva passare. Quella di Sernio era l’ultima.

Quando Gwern vide le montagne di libri sparsi ovunque, restò a bocca aperta. Aveva imparato a leggere da solo, o almeno così gli aveva raccontato tante volte sua madre, grazie alle favolette che lei aveva scritto per Mordraud e che lui usava per giocare. La malattia di Eglade non aveva fatto altro che peggiorare dopo la sua nascita. Non aveva fatto in tempo a insegnargli tutto quello che lei sapeva. Guardando quei tesori di conoscenza, Gwern si rese conto di quanto desiderasse studiare. Come aveva fatto suo fratello Dunwich.

Sernio aveva lavorato in gioventù a Cambria come assistente nella biblioteca dell’Arcana. Chiamato alle armi contro la sua volontà, aveva passato quasi un anno al fronte in fanteria, defilandosi nelle retrovie ogni volta che iniziavano gli scontri. L’idea di usare una spada dentro una scatola di metallo battuto lo disgustava al punto da rischiare le punizioni esemplari riservate ai codardi. Dovette comunque incassarle in un paio di occasioni. Venti frustate al petto per essere fuggito dalle punte di lancia nemiche. Quelle torture avevano minato la sua salute in maniera indelebile, e alla prima occasione, era fuggito dall’esercito.

Per qualche tempo aveva vissuto a Cambria, nascondendosi come un topo in casa sua, finché una notte, terrorizzato dai vigilanti imperiali, preparò un carretto con tutti i libri che possedeva e partì confondendosi fra i mercanti che continuamente andavano e venivano dalla capitale. La scelta del feudo di Eld era stata una sorta di ripicca per quello che l’impero gli aveva riservato.

Dopo la sua prima visita, Gwern implorò Larois di poter effettuare personalmente le consegne, e la locandiera accettò senza fare storie. La sua schiena ringraziò, provata dalle lunghe sere di lavoro in taverna. Gwern imparò a conoscere sempre di più il vecchio bibliotecario, finché fu lui stesso a invitarlo a leggere qualcosa insieme. Sernio non frequentava nessuno ed era sull’orlo della povertà assoluta. Gwern trovava sempre qualcosa da portargli. Per contraccambiare, lui gli permise di prendere con sé i libri che desiderava, e lui passava le serate a impararli a memoria. Quando li riportava indietro poteva prenderne altri. Sernio divenne ben presto il suo migliore amico, l’unico oltre Mordraud.

«Hai finito la storia delle isole Talbiadi? Ti è piaciuto?»

«Sì, mi è piaciuto moltissimo! Peccato che fosse breve.»

«Mh?!» Sernio ridacchiò e riempì la stufa con un ritaglio di radice secca. «Breve?! È un bel volume, di solito ci vogliono una decina di giorni per leggerlo tutto… tu quanto ci hai messo?»

Quello era il loro gioco. Gwern alzò il mento con orgoglio e fece un cenno con le dita.

«Tre giorni?! Non ci credo!» esclamò il vecchio scuotendo scettico la testa. «Allora dimmi, come si chiama la moglie del maniscalco che cura e accudisce Tal dopo che lui ha rischiato di affogare?»

Gwern fece finta di pensarci su, ma in realtà sapeva al volo la risposta. Voleva creare la giusta attesa.

«Mh… vediamo… Clara!»

«Ottimo!» disse Sernio schioccando le dita. «Era facile. Ora te ne dico una difficile. All’inizio del racconto, Tal scopre nel cimitero di Calhann una lapide diversa dalle altre. Cos’aveva di particolare?!»

«Era di ossidiana, con venature d’argento!» rispose Gwern. Era una delle parti che gli era piaciuta di più di quella storia.

«Sei proprio incredibile, Gwern!» Sernio batté le mani in un lungo applauso.

«Leggo tutte le sere, e anche al mattino se non devo lavorare. Altrimenti non saprei cosa fare…»

«Mh… è per tuo fratello, vero? Ti manca tanto, immagino…»

Gwern annuì in silenzio. Da quando Mordraud viveva a casa di Adraman, lui era sempre da solo. Prima di incontrare Sernio, non aveva mai qualcuno con cui parlare. Larois gli faceva compagnia la sera mentre lavoravano, ma durante il giorno lei era spesso impegnata nella gestione della locanda, e non poteva portarselo sempre dietro. Con gli altri bambini giocava molto di rado, perché il suo fisico era debole e incline alle crisi di cui ancora non aveva scoperto una causa.

«Il suo lavoro da Adraman sta andando bene?» chiese Sernio poggiando il libro che stava leggendo prima del suo arrivo.

«Sì, mi ha raccontato che Deanna si è affezionata a lui, e che passano gran parte della giornata insieme. Giocano a dama, leggono… in realtà non riesco a immaginarmi mio fratello che chiacchiera di pettegolezzi, ma lui sembra trovarsi bene…»

«E per quella tua paura? Dici che potrebbe veramente succedere?»

«È ancora presto per dirlo. Speriamo di no.»

Gwern aveva temuto sin dal primo giorno che Mordraud avesse accettato quel lavoro solo per avvicinarsi a Adraman, con l’obiettivo poco rassicurante di entrare nell’esercito. Larois lo supponeva, ma sperava che la compagnia di una ragazza avrebbe ammorbidito il suo carattere acerbo e spigoloso, oltre che i suoi pericolosi propositi. E poi, nell’ottica della locandiera, Mordraud era ancora giovanissimo. Avrebbe avuto tempo per cambiare idea. Ma Gwern sapeva che suo fratello dimostrava un’età che non rendeva onore ai suoi veri anni. Il suo desiderio di combattere non era solo una romantica infatuazione per la guerra. Era qualcosa di molto più profondo.

«Mh…» mormorò fra i denti Sernio «e tu, come stai? L’altro giorno mi hai fatto preoccupare.»

Gwern era stato male proprio durante la sua tanto attesa visita a Sernio. Una crisi lieve, che però era stata sufficiente a stenderlo. Il bibliotecario era rimasto paralizzato dalla paura, incapace di reagire. Per sua fortuna, Gwern ormai era abituato a resistere a quegli attacchi, e si era ripreso dopo un paio d’ore di tormento.

«Oggi sto bene, Larois mi ha preparato la zuppa di erbe aromatiche. Mi piace da impazzire, e fa anche molto bene… o almeno, così dice lei.»

«Fidati, quella donna sa il fatto suo» disse Sernio schioccando le dita. «Ma adesso è arrivato il momento delle domande. Sei pronto?»

«Sì!» rispose Gwern saltellando sulla sedia.

«Bene, cominciamo…»

 

***

 

«… mi spieghi dov’eri finito?!»

Dunwich stava correndo a testa bassa lungo il corridoio principale del palazzo delle Lance. Aveva sentito qualcuno chiamarlo a gran voce ma non poteva permettersi di perdere tempo. Doveva cercare informazioni, pagare le persone giuste per le ricerche che aveva in mente, preparare una breve argomentazione per il prossimo incontro al tavolo della strategia. Doveva anche scoprire quanto tempo era stato fuori città, perché durante il ritorno aveva perso il conto dei giorni. L’unica sua preoccupazione era trovare Mordraud, e aveva già qualche idea su dove potesse essersi nascosto.

«Cosa vuoi? Ci conosciamo?!»

La Lancia che lo aveva fermato in malo modo era più bassa di lui ma molto più grossa. Un piccolo toro dalla faccia poco sveglia, incattivita da due occhi a spillo.

“Siamo scesi così in basso da accettare soggetti così scadenti? Niente selezione?!”

«Tessaro, cavaliere di seconda classe. Assistente personale di Asaeld, grande comandante delle forze imperiali. Devo continuare?»

«Senti, Tessáro» rispose Dunwich storpiando volutamente l’accento. «Chi ti ha dato il permesso di rivolgermi la parola?!»

«Asaeld in persona. Mi ha detto di cercarti, ed era molto arrabbiato.»

«Bene, allora levati di mezzo, stavo appunto andando da lui.»

Tessaro tossì con disinvoltura, senza togliersi dalla faccia quel sorrisino malizioso che Dunwich gli avrebbe volentieri strappato via con una coltellata. «Allora sei fuori strada. Devi andare di là.»

Senza rispondergli, Dunwich tirò via il braccio che lui stava stringendo e si incamminò nella direzione opposta. «Branco di idioti perdenti…» sussurrò disgustato mentre cercava la porta dello studio privato del capitano.

Asaeld lo stava aspettando seduto sulla sua poltrona preferita, dietro la scrivania in legno nero e intarsi d’oro che era uno dei pezzi più pregiati del palazzo. La stanza era pesantemente arredata nei toni cupi dell’ebano impreziosito da arabeschi di metalli preziosi, dalla mobilia fino ai bicchieri del servizio disposto sul tavolino accanto al caminetto. Per Dunwich, quel tripudio di lamine scintillanti, intagli e decori era inutile, deprimente e di cattivo gusto. “Le Lance stanno diventando delle donnette, altro che guerrieri invincibili” pensò ridacchiando fra sé.

«CHE COSA TI PASSA PER LA TESTA?!»

Dunwich chiuse la porta alle sue spalle con un leggero colpetto del piede.

«Qual è il problema Asaeld? Abbiamo perso un tafferuglio?»

«Sei proprio impossibile! Sei stato via per venti giorni! Te ne rendi conto?» Il comandante aveva la faccia in fiamme e le nocche spellate per i continui pugni sulla scrivania.

«Questioni familiari. Ora ho risolto tutto, quindi calmati» rispose Dunwich distrattamente.

«Ma con chi credi di parlare?! Sono il tuo comandante, per gli Dei! Mostra un minimo di rispetto!»

Dunwich si profuse in un inchino formale dopo due secchi colpi di tacco.

«La mia famiglia ha avuto un grosso problema. Dovevo scoprire cosa stava succedendo, altrimenti avrei perso tutta la mia concentrazione» disse Dunwich umilmente. «Chiedo venia, comandante.»

Asaeld sembrava sul punto di esplodere di nuovo, ma il repentino cambio di atteggiamento di Dunwich lo aveva spiazzato. Si ributtò a sedere sulla poltrona e gettò un foglio sul piano di legno, su cui era tracciato un intrico di linee di colore e spessore diversi.

«Dacci un’occhiata, voglio un tuo parere entro stasera. Un piano d’attacco in zona Ansa dell’Hann. Dopo cena devo presentarlo alla fanteria.»

Dunwich prese lo schizzo senza abbandonare la rigida posa di inchino, lo osservò un istante, e lo mollò di nuovo sulla scrivania.

«In quel modo, dobbiamo coprire entrambi i lati della nostra colonna. Se spostassimo l’attacco in prossimità della collina del Nocciolo… hai presente? Ecco, se ci spostiamo verso Sud, possiamo sfruttarla per coprirci il lato sinistro.»

«Così però perdiamo la possibilità di schiacciarli contro il fiume Hann nel punto in cui si allarga…» obiettò Asaeld, fissando attentamente il foglio.

«L’Hann? È troppo pericoloso in quella zona. Dovremmo puntare alla Lama dell’Hann, conquistarla e spingersi fra le gole dei monti che si allungano verso Est. I corsi d’acqua meridionali che attraversano il territorio dei ribelli sono pericolosi, perché loro li padroneggiano da una vita, mentre noi li abbiamo visti solo sulle mappe. Evitiamo.»

«Quindi come proponi di effettuare gli spostamenti?»

Dunwich afferrò un pennino e lo intinse nell’inchiostro nero. Con alcune rapide pennellate allestì uno schema di posizione per le truppe, quasi senza riflettere. Asaeld studiò il risultato senza mostrare nulla di ciò che stava pensando.

Era un ottimo piano. Forse migliore del suo.

«Devo rifletterci su. Ora puoi andare, e vedi di non farmi altri scherzi. Hai delle responsabilità nei confronti dell’impero, la prossima volta che fai una cosa simile…» Asaeld lo fissò con estrema serietà «… ti spedisco a pulire latrine al fronte.»

«D’accordo, comandante» rispose Dunwich rompendo l’inchino. «Posso andare ora?»

Asaeld annuì e lui se ne andò a passo spedito, senza neppure salutarlo.

«Ho cacciato ragazzi più rispettosi di te, per motivi più futili» disse Asaeld parlando da solo. «Ma erano tutti molto meno dotati.»

La Lancia aveva ancora in mano il piano d’attacco improvvisato da Dunwich. Lo guardò solo un ultimo istante, poi accartocciò il foglio minuziosamente, riducendolo a una piccola palla maciullata.

Asaeld tornò a leggere i documenti con un mezzo sorriso dipinto sulla faccia.

 

***

 

Il pane era caldo e fragrante. Mordraud prese la pagnotta e la annusò lentamente, chiudendo gli occhi per gustarsi quel fantastico profumo di buono. Prese un lungo coltello, preparò quattro fette larghe, intinse il mestolo nel miele di castagno e lo spalmò con metodo, caricando il pane fino a farlo scoppiare. Dal pentolino che bolliva sulla stufa saliva un filo di vapore sottile. Prese una spatolina e raccolse il grasso del latte che si stava condensando lungo il bordino di latta.

La colazione era pronta.

Deanna era piombata in una crisi nera, schiacciata da una velenosa depressione che nessuna favola, nessuno scherzo o battuta sembravano in grado di debellare. Adraman non era più tornato a casa dopo il loro violento litigio notturno, ed erano già passati quattro mesi senza che giungessero sue notizie dal fronte, a parte i dispacci sui progressi del suo esercito. Spesso lei imprecava e ridacchiava in modo malsano crogiolandosi nel pensiero che suo marito in realtà fosse morto, ma subito scoppiava a piangere e si gettava sotto le coperte senza rispondere a niente e a nessuno. Mordraud non sapeva più cosa fare.

Gli altri servitori non lo aiutavano, stanchi e incattiviti dai comportamenti di quella viziata donnetta lagnosa. Lui però non riusciva a pensarla come loro. Sarebbe stato più facile, e anche più coerente con il suo piano iniziale. Quello di entrare nelle grazie di Adraman e conquistare finalmente un posto fra i ribelli. Ma non era proprio in grado di liquidarla come pazza e fregarsene.

“Non ti far venire strane idee, vecchio mio” pensò. “Lei è intoccabile. E tu sembri un bamboccio col latte della mamma sulle labbra.”

Difficile resistere alla bellezza lasciva di Deanna. Ogni suo gesto, ogni volta che muoveva la bocca per parlare o mangiare, tutto sembrava calcolato per enfatizzare al massimo il suo corpo. Più si avvicinava la bella stagione, più i suoi abiti erano leggeri e svolazzanti. Mordraud non sapeva se avrebbe retto un’intera stagione di caldo e tessuti fini fingendo di essere un bambino, quando dentro si sentiva ormai un uomo.

“Ora basta. Resta concentrato, vecchio mio… pensa solo all’obiettivo…”

Mordraud salì le scale e aprì la porta della sala da lettura. Deanna stava sfogliando senza interesse una vecchia raccolta di racconti cavallereschi. Una luce calda e dorata inondava la stanza, velata dalle sottili tende di lino che ondeggiavano sulla finestra aperta.

«Ecco la colazione. Devi mangiare un po’, ieri non hai cenato» disse Mordraud con un sorriso «e non accetto rifiuti.»

«Non ho fame.»

Mordraud si avvicinò con il vassoio e si piazzò immobile davanti a lei, senza la minima intenzione di cedere.

«Allora Mordraud, hai sentito quello che ho detto?! Non ho fame!» sbraitò Deanna alzandosi di scatto in piedi. Quando era in quello stato si arrabbiava con chiunque, anche con lui. Ma ormai si era abituato.

«Non mi interessa se hai fame o no. Devi mangiare. Punto.»

Deanna lo fissò in cagnesco, poi improvvisamente piegò la testa socchiudendo gli occhi.

«Cosa c’è? Sono sporco di miele in faccia?»

«No…» mormorò la ragazza «è che mi sembri più… mh… alto. Anche il tuo volto è un po’ cambiato.»

«Come?! Ma cosa stai dicendo?»

«Guarda.»

Deanna alzò una mano e si toccò la fronte. «Quando sei arrivato qua da noi ero più alta di te di tutta la testa. Ora mancano solo due o tre dita e poi potremo guardarci negli occhi.»

Mordraud arrossì imbarazzato. C’era qualcosa che non andava, pensò. “Sono sempre cresciuto con lentezza snervante. È impossibile, mi sta prendendo in giro…”

«Hai messo su anche i muscoli sulle spalle» continuò lei abbozzando finalmente un sorriso. «Non me ne ero mai resa conto…»

Mordraud tossì strusciando i piedi, mostruosamente teso. Sentire Deanna commentare il suo corpo lo aveva gettato nella confusione più totale.

«Ecco… il tempo passa per tutti…» bofonchiò poggiando pesantemente il vassoio sul tavolino. «Oh, mi sono dimenticato il barattolo del miele. Vado a prenderlo.»

La sua fu una vera e propria fuga. Deanna non fece in tempo a dirgli che le fette erano già pronte e spalmate, che lui era già in cucina con il fiato grosso e gli occhi spalancati.

«Ma cosa si mette a dire?!» imprecò annaspando. «Non mi sembra proprio di essere cresciuto… sono sempre il solito bambino…»

Mordraud si guardò le mani. Il fiatone calò fino a sparire, così anche la tensione nervosa che lo aveva attanagliato.

Le sue dita sembravano diverse.

Erano più lunghe, e i calli della spada che manovrava tutte le notti rendevano la sua pelle leggermente vissuta. Anche i polsi erano diventati più massicci, e via così fino al petto. Si stava irrobustendo, e non se ne era neppure accorto. L’ansia ritornò con la violenza di uno schiaffo.

“Non fare un’idiozia vecchio mio… non provare neppure a pensarci…”

Ovviamente la resistenza durò poco. Nella sua fantasia apparve Deanna, completamente nuda sul letto matrimoniale, che lo invitava a saltarle addosso strusciando le cosce e aprendole quel tanto che bastava a farlo sognare. Poteva vedersi di schiena, mentre si avvicinava troneggiando su di lei. Spalle larghe e definite, gambe d’acciaio, braccia che avrebbero potuto scardinare il mondo.

«Questa non ci voleva» mugolò sconsolato, tornando a fissarsi le dita.

«Non ci voleva proprio…»

Mordraud, Libro Primo
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