VIII

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli scontri al fronte oscillavano come un’immensa serpe sinuosa. Cambria prendeva il controllo di una porzione di valle, i ribelli si insinuavano e ricacciavano gli eserciti imperiali da un monte. Cambria contrattaccava, e il nemico riacciuffava la valle. Le battaglie campali erano rare e improvvise, sostituite da una guerriglia dissanguante, con i ribelli che piombavano sui battaglioni accampati di notte lungo le strade che portavano alla frontiera, o spezzavano metodicamente le linee di approvvigionamento verso la capitale.

Eldain era uno stratega scaltro, forse più abile di quelli alle dipendenze di Loralon, che continuavano imperterriti a puntare tutto sulla differenza numerica che correva fra le loro forze e quelle del nemico. Le Lance avevano idee molto diverse, soprattutto Asaeld. Ma il loro comandante non esprimeva mai apertamente un dissenso. Il corpo delle Lance era e doveva restare un’arma al servizio dell’impero.

L’Arcana sfornava cantori, le fila dell’esercito erano rimpinguate costantemente da nuove leve, i raccolti erano abbondanti come sempre. Ma qualcosa stava cambiando. Una tensione sottile che disturbava l’aria, l’odiata idea che la guerra potesse non avere mai una fine rendeva i sapori più aspri, gli odori meno accesi, i colori più annacquati. I cantori erano sempre meno preparati, allevati come polli da cortile in fretta e furia per sostituire tutti quelli che venivano falciati durante le incursioni mirate dei ribelli. Difficile schierare un coro al fronte. Tornava indietro sempre bucherellato e malconcio. Il controllo delle risonanze era l’unica forza che Eldain non possedeva. Infatti, temeva i cantori sopra ogni altra minaccia imperiale.

Le nuove reclute spedite al fronte erano figli di contadini schiantati dalla fame, orfani di guerra, gente senza alcuna preparazione, ragazzi poco motivati. I frutti dei campi erano a esclusivo appannaggio dello sforzo bellico. La farina era controllata dall’esercito.

«Se non si danno una mossa, qui va tutto in malora.»

«Uhm? Cos’hai detto, tesoro?»

Dunwich si voltò allontanandosi dalla finestra, da cui stava contemplando l’alba che sorgeva sui tetti di Cambria. Uno spettacolo in sintonia con il suo stato d’animo. Una frenesia bruciante, che scalciava per risolvere tutti quei problemi. Sapeva cosa fare.

«Nulla. Torna a dormire, è ancora presto.»

«Sei teso, vero? Se vuoi…» le lenzuola bianche si abbassarono scoprendole il seno «… posso darti una mano a rilassarti un po’…»

«Non ora, Silia. Non ti è bastato stanotte? Riposati, avanti.»

La voce di Dunwich era distaccata, fredda. Gli occhi erano lontani. Anche il suo corpo, nudo e modellato dagli allenamenti, non sembrava essere realmente in quella camera da letto.

«Ti comporti come se ti infastidissi, ma ieri sera non mi guardavi certo allo stesso modo… anzi… proprio non ti capisco» mugugnò la ragazza voltandosi stizzita. Dunwich tornò a guardare fuori dalla grande vetrata, totalmente disinteressato alle sue pigolanti lamentele. Quello era il suo giorno. Solo il suo.

Non che Silia fosse una persona sgradevole da tenersi a fianco. Da quando il suo corpo perennemente in ritardo nella crescita era finalmente sbocciato, Dunwich aveva scoperto di avere molta presa sulle donne. Silia era stata rapida ad acciuffarlo prima che lui potesse approfittarne. Sembrava quasi che aspettasse quel momento da anni. Un’amante servizievole e brillante, poco fastidiosa e soprattutto capace di stare al suo posto. Non ricordava una sola volta in cui avesse osato intromettersi in una sua scelta. Una ragazza perfetta.

Ma noiosa.

Dunwich non provava altro che un tenue affetto per lei, ed era discretamente convinto che lei lo sapesse, e le bastasse. Silia amava la sua carriera lanciata al galoppo verso il successo, sognava già una villa in centro a Cambria, gioielli, ricchezza. Salotti buoni in cui passare tediosi pomeriggi di chiacchiere. O almeno, Dunwich la vedeva in quel modo. Ma raramente sbagliava a valutare le persone. Faceva parte del suo mestiere.

«E tu, tesoro? Non hai sonno? Anche tu dovresti riposare. Oggi è un grande giorno!»

«No, non ho voglia di dormire. Lasciami pensare, per favore.»

«Va bene… va bene» mugolò sconsolata Silia.

Aveva avuto quella casa dalle Lance, l’attico di un palazzo storico poco distante dall’accademia militare. Quelle lenzuola di seta, i lussuosi mobili in castagno, la testiera del letto istoriata e laminata d’oro, erano tutti regali delle Lance, preoccupati di curare il loro pupillo. Una ricchezza di cui Dunwich non sapeva che farsene. La rendita che le Lance gli passavano ogni mese era cospicua al punto che anche dopo averne mandato una grossa fetta a casa, avanzava in abbondanza. “A casa… spero siano arrivati gli ultimi scudi d’oro…” si chiese, mentre gli occhi si perdevano fra le guglie che perforavano il mare dei tetti. Pensare alla sua famiglia lo gettava sempre in una pericolosa nostalgia, e non era quello il giorno per cedere ai ricordi.

“Chissà come stanno. Mamma si sarà ripresa? E i ragazzi?” pensò in preda a un fastidio pungente.

Dunwich era riuscito a vedere Gwern una sola volta dopo la sua nascita, quando lui aveva tre anni. In quell’occasione si era regalato alcuni mesi di viaggio in solitaria. Ne aveva approfittato per visitare Calhann a Sud, le scogliere bianche a Est e i boschi del Nord, con una breve tappa a casa che non raccontò a nessuno. Ma l’ambiente che aveva trovato era stato ben poco piacevole.

Eglade non sembrava in grado di riprendersi dalla gravidanza, e Mordraud lo odiava. Per quanto si fosse sforzato di parlare con lui, di spiegargli il perché della sua lontananza, non aveva ottenuto altro che travasi di bile e litigi. Se ne era andato quasi con la coda fra le gambe, con l’ingiusta sensazione di essere in torto nei loro confronti.

In tutti quegli anni di studio continuo e martellante, non aveva dedicato molto tempo alla sua famiglia. Ma era il motivo per cui era andato a Cambria, studiare e diventare qualcuno.

Perché allora avrebbe dovuto sentirsi in colpa?

“Eppure, i miei soldi bastano per mantenerli tutti! Cosa avrei dovuto fare, non venire mai a Cambria?!” pensò sibilando a denti stretti. L’alba era una coperta di fuoco rossa distesa sull’immensa città addormentata.

Doveva dare un taglio a quei pensieri. Aveva mandato alcuni ottimi medici a visitare sua madre, rischiando grosso. Se si fosse saputo in giro che aveva inviato uomini oltre il fronte, la sua carriera avrebbe subìto un brutto colpo. Proprio ora, che aveva raggiunto ciò che tanto aveva desiderato.

Quello era il suo giorno, e doveva pensare solo a quello.

L’accademia militare era stata una vera e propria passeggiata. Le lunghe lezioni di strategia non erano neppur lontanamente paragonabili alla complessità delle risonanze. Il suo talento aveva brillato anche nel combattimento, e con grande sorpresa aveva scoperto che usare la spada gli piaceva quasi quanto cantare. Per ovviare al suo corpo ancora immaturo aveva usato la creatività. Mentre di norma le aspiranti Lance imparavano a duellare in armatura, a usare lo scudo per difendersi, lui aveva puntato tutto sulla velocità e l’agilità. Aveva abbandonato lo scudo. Invece che parare, schivava o sfruttava l’irruenza dell’avversario per scivolare dentro la sua guardia. Mancando di vera forza, aveva acuito la mira e la precisione. Già dopo il secondo anno di allenamenti, pochi potevano tenergli testa in uno scontro. Al terzo anno, nessuno. Compresi diversi insegnanti.

Le lamentele erano montate come una bruma d’invidia. Lui non rispettava alcuna regola, non seguiva l’etichetta. Dunwich aveva le spalle troppo coperte, da Asaeld e dagli alti gradi delle Lance. Solo per accontentare i maestri accettò, al terzo anno, di indossare l’armatura. A ventitré anni ne dimostrava sedici, ma i muscoli e le spalle larghe gli restituivano ciò che il sangue Aelian gli aveva rubato. A ventiquattro anni fu allontanato dagli ultimi di rango e fu assegnato alla scorta personale di Asaeld. La sua carriera era appena iniziata, dal punto dove molte altre solitamente finivano.

Suo padre aveva fatto un affare incredibile a puntare sulle sue capacità inespresse.

I ragazzi che aveva frequentato durante l’Arcana si erano dispersi. Ronio continuava a lavorare sulla ricerca pura di risonanze, per scrivere sempre nuovi canti al servizio dei cori imperiali. Denor stava per completare il suo percorso, e a breve sarebbe entrato in accademia. Puntava ancora a diventare una Lancia, non doveva mancargli molto. Da quello che sapeva, conviveva con Lisea che aveva già iniziato a lavorare da un prestigioso erborista della città. Dunwich sorrise, perché lei non poteva saperlo, ma quel lavoro gliel’aveva trovato lui. Lisea gli era sempre piaciuta.

«Peccato che non me la sia mai portata a letto…» bisbigliò rattristato.

I suoi compagni fra le Lance l’avevano inizialmente odiato a morte. I primi tempi l’avevano anche palesato. Poi avevano scoperto che era più salutare temerlo e starsene al proprio posto. A quelli più fastidiosi, Dunwich aveva impartito qualche lezione di umiltà, svergognandoli di fronte a tutta la camerata in brevi combattimenti già decisi in partenza. Vittorie su vittorie. Asaeld stesso si era presentato a una di quelle dimostrazioni arroganti, e aveva scherzosamente duellato con lui alla fine della lezione. Dunwich non aveva sfigurato neppure con il comandante in capo delle Lance Imperiali.

Alla fine, aveva ottenuto ciò che più desiderava.

Il rispetto.

Il clima era cambiato radicalmente. Molti ragazzi che fino all’anno prima inveivano contro di lui avevano preso l’abitudine di girargli intorno, osservandolo e cercando in ogni modo di guadagnare qualcosa dalla sua presenza. Aveva un gruppetto di fedelissimi che già assaporavano una buona carriera nelle Lance, spinta in modo decisivo dal fatto di essere suoi conoscenti. Senza neppure accorgersene si era trovato Silia a casa sua, pronta e servizievole a letto, impacchettata come un regalo nelle coperte. Gente alla porta tutti i giorni che lo aspettava per camminare insieme a lui. Bigliettini e lettere d’amore da spasimanti anche molto più adulte di lui. E molto più belle di Silia.

Se a Dunwich fosse interessato qualcosa o qualcuna di loro, avrebbe potuto passare settimane intere senza mai dormire nello stesso letto. Avrebbe potuto sposarsi con ragazzine dell’alta nobiltà offerte da padri bramosi del prestigio che lui poteva promettere loro. Ma, come non gli interessavano i soldi, così non aveva neppure la minima intenzione di prendere moglie, o vivere decine di avventure. Silia era più che sufficiente ad appagarlo, e non era d’intralcio a nulla.

La donna che gli serviva. Almeno fino a quando non sarebbe partito per la guerra.

E il momento tanto atteso si stava avvicinando sempre di più. Quasi poteva vederlo, oltre quell’alba rossa che segnava la fine dei suoi studi e della sua attesa.

Quel giorno, Loralon in persona lo avrebbe investito della carica di Lancia Imperiale, di fronte a tutto il battaglione schierato e addobbato a cerimonia. Avrebbe ricevuto l’armatura nera e d’oro dell’ordine, il mantello nero e la spada istoriata delle Lance. Asaeld ci sarebbe stato, come sempre. la figura che lo aveva protetto con la sua ombra per tutto quel tempo. Una presenza costante e sfuggente allo stesso tempo. Dunwich era stato già informato che in autunno si sarebbe presentata l’opportunità di partire per il fronte. Magari avrebbe trovato il tempo per un breve saluto a casa. Magari.

Poi, la guerra.

«Chi riuscirà a sconfiggere Eldain, verrà trattato alla pari di un Dio» esclamò Dunwich, sorridendo mentre citava le parole stesse dell’Imperatore Loralon.

«Mi hai chiamato, amore? È già ora di andare?» mormorò Silia, alzandosi a sedere sul letto. Il lenzuolo le scivolò giù fino alle gambe, scoprendole il seno piccolo ma tondo, la curva dei fianchi, le cosce nude. Era dimagrita. Anche lei stava combattendo la sua guerra, pensò. In lotta con tutti quelli che volevano stargli vicino, con pochi mezzi ma con molta dedizione.

«No, ancora no» sussurrò chinandosi verso di lei. L’alba bagnava di luce cremisi i preziosi mobili laccati e la pelle della ragazza. Un anello pacchiano scintillò sul comodino. «Abbiamo ancora un po’ di tempo… e ho cambiato idea.»

«Ah sì?!» esclamò Silia mentre allungava una mano verso di lui. «Stupendo…»

Quello era il suo giorno.

Mordraud, Libro Primo
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