XXV

 

 

 

 

 

 

 

Saiden camminava dietro ai due fratelli, arrancando come loro lungo un invisibile sentiero sommerso dalla neve. Mordraud e Gwern stavano parlottando fra loro, mentre lui restava in silenzio a guardarli. Stava osservando qualcosa di importante. Una reazione a cui lui aveva sperato di assistere quando aveva avuto l’idea di seguirli in quel viaggio. Lungo Inverno non gli interessava minimamente. Fermare la morte bianca e aiutare i ribelli di Eldain non era mai stata una sua priorità.

Il suo vero obiettivo era svelare il segreto che Gwern custodiva inconsciamente.

“Il suo Flusso… è concentrato soltanto nel petto” pensò mentre gli fissava la schiena. Ai suoi occhi, il corpo di Gwern era come un involucro di vetro trasparente. E dentro il petto, sotto lo sterno, vedeva covare un bozzolo di Flusso. Impressionante, si disse. Per la sua esperienza, quel ragazzino non sarebbe dovuto essere nemmeno vivo. Suo fratello, sorprendentemente, era ancora più bizzarro.

Dentro Mordraud, non scorgeva una stilla di Flusso.

Se Saiden osservava un albero, era in grado di vedere sia la sua forma e il suo solito colore, ma anche la sua struttura. Maglie di fili di luce che componevano i corpi, i fusti, i sassi. Qualunque cosa, essere o costruzione del mondo era interamente composta dal Flusso. Le spire che definivano gli arti o i rami erano strette e perfette. Le venature dei legni erano letteralmente disegnate da dettagli di luce, impressi come segni bianchi sulla struttura reticolare del tronco. Allo stesso modo, un uomo ai suoi occhi appariva come una statua di fili di luce, descritta alla perfezione in ogni sua parte. Gli occhi, la bocca, le dita.

Quello era il Flusso, pensò. L’intelaiatura della realtà, composta da pura energia di luce.

Gwern invece ne era quasi privo. Quel poco che aveva, era raggomitolato e scomposto dentro il suo petto. Assurdo, si disse. Se il Flusso non definiva le sue braccia, come potevano esistere? Quando le aveva toccate per la prima volta, era rimasto basito da quanto fossero realistiche. Eppure, senza che fossero composte di Flusso, quelle braccia non potevano essere vere. Allo stesso modo le gambe, persino la testa. Il cervello. Gwern era un grumo levitante di Flusso, un essere senza una vera forma. Mentre suo fratello addirittura ne era del tutto privo. Il suo corpo era definito solo dal vuoto che creava nella trama di luce del paesaggio, una sagoma di buio ritagliata nel tessuto della realtà stessa. Inconcepibile, pensò Saiden.

Quando li aveva visti vicini, qualcosa si era mosso dentro di Gwern. Il suo Flusso si era aperto impercettibilmente, si era gonfiato. Come se ci fosse un particolare legame con suo fratello che, in maniera del tutto incomprensibile, lo attivava. Saiden era lì con loro soltanto per continuare a osservare la relazione fra Gwern e Mordraud, per cercare di capire cosa avessero di tanto misterioso quei due fratelli.

Quando aveva notato quella peculiarità su Gwern, si era subito dato da fare per avere la possibilità di studiarlo. Aveva avvicinato prima Sernio, poi lui e la donna che lo aveva accolto a lavorare in taverna. Aveva sfruttato la fama che si era costruito addosso quando lavorava come cantore a Cambria. All’epoca si faceva chiamare Saite. Erano già passati una cinquantina d’anni, pensò. Era soddisfatto di come fosse riuscito ad abbandonare la vita di Saite ed a vestire i panni di suo nipote Saiden. Era sempre lui, all’epoca come ora. La storia del figlio che era andato a vivere a Calhann, il nipote nato fuori da Cambria e che nessuno aveva mai visto. Una menzogna ben architettata, che lui aveva portato avanti per tutti quegli anni con il solo scopo di non destare sospetti. Non poteva invecchiare come tutti gli altri uomini. Su di lui, il tempo aveva un’influenza rallentata, addolcita.

Saiden era un Aelian.

Erano tre secoli che viveva fra i Khartian. In tutti quegli anni, aveva dovuto cambiare storia, nome e passato molte volte. Appariva in una regione, ci abitava per qualche decennio, poi spariva. Cambiava nome e retaggio, si insinuava nelle vicende degli uomini e ne usciva prima che qualcuno si ponesse troppe domande su di lui. A quel giro aveva usato il suo vero nome, ma ne aveva avuti tanti. Saiden amava avere quella possibilità. Cambiare e rinascere erano concetti che il suo popolo non sapeva amministrare a dovere. Ed era un peccato, pensò mentre fissava la schiena di Gwern. Gli Aelian avevano perso del tutto la voglia di scoprire.

Mordraud e Gwern erano il mistero più grande che gli fosse mai capitato di dover affrontare. E dire che all’inizio aveva puntato anche ai soldi che chiedeva, si disse incredulo. Finché non aveva compreso la reale portata del mistero che lui custodiva dentro di sé. Gwern valeva molto più del denaro che lui aveva dovuto racimolare per studiare.

Gli Aelian possedevano una conoscenza più approfondita della realtà. Si era perso molto nei secoli, le nuove generazioni avevano dimenticato tantissimo della raffinata cultura dei loro padri, all’epoca del dominio sul continente di Cambria. Ma la vera differenza che correva fra gli Aelian e i Khartian, stava tutta nella consapevolezza dell’esistenza del Flusso. Gli uomini comprendevano solo ciò che vedevano, gli Aelian riuscivano a scorgere più a fondo. E di conseguenza, sapevano come manipolare e plasmare il mondo che li circondava interagendo con la struttura di luce che lo componeva. I Khartian, per riuscire a compiere lo stesso prodigio, avevano inventato il canto. Ma il risultato era banalmente simile. Saiden poteva mutare l’architettura di Flusso di un albero o di un uomo, distruggendola, modificandola o ripristinandola. Un uomo, cantando, metteva in risonanza il suo Flusso con quello dell’ambiente che lo circondava. Lo stesso risultato, pensò nuovamente Saiden. Ma partendo da una concezione della realtà radicalmente diversa.

Il metodo del canto lo affascinava. Prima di conoscere i Khartian, Saiden non sapeva che potesse esistere un modo alternativo per interagire con il Flusso. Quando lo aveva scoperto, si era gettato a capofitto nello studio delle armonie. Voleva comprendere a livelli superiori la vera essenza del Flusso, un segreto che nessuno, Khartian o Aelian che fosse, aveva mai risolto. Da dove derivasse, di quale energia fosse composto. Perché fosse possibile modificare la realtà partendo da una semplice volontà di creare. Un potere superiore a qualsiasi Dio, nelle mani di chiunque fosse disposto a guardarsi intorno con occhi curiosi.

Esistevano però delle sottili differenze fra il canto, e l’uso puro del Flusso. I cantori Khartian erano anche in grado di far apparire dal nulla fuoco, ghiaccio e terra che prima non esisteva. Mentre gli Aelian come lui avevano sempre plasmato il Flusso esistente, senza mai crearne di nuovo. Infatti, quando Saiden contemplava una qualsiasi risonanza, non vedeva mai apparire materia che prima non esisteva. Una fiamma sgorgata dal nulla non conteneva Flusso. Era quello l’aspetto più grottesco e misterioso. Se un cantore credeva, attraverso le armonie e la sua profonda concentrazione, che davanti a lui potesse esistere il fuoco, esso appariva. Ed era composto da parti dei Flussi di chi, intorno a lui, entrava in risonanza con la sua armonia. In pratica, gli effetti del canto erano più che altro una suggestione di massa. Dagli occhi degli spettatori si dipanavano lunghe trecce di luce sinuosa, che mischiandosi con i Flussi del cantore e degli altri intorno a lui, davano forma e calore a una fiamma mai esistita prima.

In effetti, almeno sotto quell’aspetto, i Khartian erano più raffinati degli Aelian. Molto più complessi. Saiden ricordava suoi simili che sapevano come utilizzare il Flusso in combattimento. Potevano richiamare nelle mani lunghe fruste di luce, e usarle in maniera letale contro i loro nemici. Il Flusso poteva essere anche drammaticamente tangibile. E doloroso. Ma era comunque un modo piuttosto grezzo di usarlo. A lui piaceva il canto, anche se da tanti anni stava cercando di astrarlo. Di unire la capacità immaginifica dei Khartian, con il pragmatismo degli Aelian. Per farlo, aveva studiato dappertutto. Si era finto uomo comune, inventando storie di nipoti lontani e di viaggi che finivano in tragedia. Era morto e rinato molte volte, in vita sua. Tutto, solo per appagare il suo desiderio di sapere e capire. Saiden viveva, al massimo delle possibilità, solo per se stesso.

«Non ti sembra strano?» sentì dire da Gwern a suo fratello, sottovoce. Saiden sorrise. “Oh sì…” pensò. “Mi sembra così strano…”

«Cosa avremmo mai potuto fare, noi soltanto?» continuò il ragazzo.

Saiden rivide quel fenomeno che lo aveva tanto sconvolto la prima volta che aveva visto insieme Gwern e Mordraud. Dal più giovane, quando lui si rivolgeva al fratello, partiva un filo sottilissimo di Flusso, una bava di luce che galleggiava nell’aria e cercava di entrare dentro la sagoma vuota di Mordraud. Come se lo volesse riempire.

O, più probabilmente, invadere.

“C’è qualcosa che lega quei due… ma non è il sangue. È molto di più. Quello non è un legame tra fratelli.”

Saiden aveva la netta sensazione che quel sottile filo di luce non fosse affatto amichevole.

«… molti addirittura credono che questo inverno sia opera degli Dei» sentì dire, in parte, da Mordraud. Il piccolo gomitolo di Flusso di Gwern si ingrossò improvvisamente, in risposta inconscia a quelle parole.

«Cosa che tu scarti…»

«Ovvio» rispose di getto Mordraud.

Una treccia grossa quanto un dito si dipanò dalla massa di luce e partì a scheggia verso Mordraud. Saiden la vide volare attraversando lo sterno di Gwern, e impattare contro la pancia di suo fratello. La treccia si sciolse in una ragnatela di luce. Ma invece che disperdersi senza ottenere nulla, i fili penetrarono inaspettatamente dentro l’involucro di Mordraud. Si sciolsero dentro di lui, e presero a lampeggiare debolmente.

Tante piccole luci bianche, sospese dentro il petto vuoto di Mordraud. Saiden per un attimo riconobbe un certo ritmo sinuoso, in quei deboli lampi.

Improvvisamente, la treccia venne risucchiata di nuovo dentro Gwern. Con una velocità, e una brutalità tale che Saiden si chiese se fosse stato Gwern stesso, senza rendersene conto, ad accorgersi di quello che stava facendo il suo Flusso dentro suo fratello.

Stava tentando di mangiarlo.

Il Flusso di Gwern divorava il mondo per tenerlo in vita.

Saiden incespicò e rovinò in terra dallo sconcerto.

 

***

 

«Non ti sembra strano?»

Mordraud alzò le spalle.

«Cosa avremmo mai potuto fare, noi soltanto?» continuò Gwern.

«Mi sarei inventato qualcosa…» rispose Mordraud.

«Sì, ma non avremmo saputo che fare. Io non ti potevo aiutare, fratello. Mi dispiace… ma il tuo piano era impossibile. Invece, eccoci qui insieme al maestro.»

«Non capisco dove tu voglia arrivare.»

Gwern fece un cenno alle sue spalle.

«Sembra quasi che dovesse andare così… che fosse l’unica possibilità che si dovesse avverare.»

«No, è una cagata» rispose seccamente Mordraud. Gwern lo guardò ridacchiando. A volte parlava come se fosse al fronte insieme ai suoi compagni.

«In tutto Eld, nessuno sa come funzionano i canti. Molti addirittura credono che questo inverno sia opera degli Dei.»

«Cosa che tu scarti…»

«Ovvio.»

Saiden, dietro di loro incespicò sulla neve e scivolò in terra. Quando Gwern si avvicinò per aiutarlo, lui rotolò sul manto bianco e si girò di schiena, gli occhi sgranati e un mezzo sorriso tirato in faccia.

«Tutto a posto?»

«Sì… ero sovrappensiero» balbettò spiazzato Saiden.

Lo aiutarono a rialzarsi e ripresero a camminare. Mordraud avanzò di qualche passo per tenersi più lontano da lui. Gwern gli corse dietro.

«Ma tu credi davvero che lui ci possa aiutare?»

«Se non lui, chi? Io e te non sappiamo nemmeno cosa cercare.»

Mordraud sospirò nervosamente. Saiden tornò dietro di loro. «Alla prima occasione, cerchiamo di puntare più verso Nord. Stiamo leggermente deviando dalla giusta traiettoria.»

«Quindi dobbiamo dirigerci più in là?» chiese Mordraud alzando un braccio per indicare Nord-ovest. Non vedeva altro che alberi, un colle poco distante e l’onnipresente neve. L’orizzonte era nero e depressivo.

«Esatto.»

«Ma cosa sentite?» gli chiese Gwern. «Ho provato a percepire qualche risonanza, ma non ce l’ho ancora fatta…»

«Mh, forse devi solo concentrarti un po’ di più…»

Saiden socchiuse un istante gli occhi. Stava assistendo a un altro evento inaspettato. Dal gomitolo di luce che galleggiava nel petto di Gwern erano partiti altri due fili. Stavano salendo lentamente verso la sua testa, da dentro il collo. Era il suo desiderio di vedere il Flusso del mondo. Lui, consciamente, non ne era ancora capace.

Saiden volse lo sguardo a Nord-ovest. Ai suoi occhi, il paesaggio era definito a cavallo fra i colori della realtà e una trama mostruosamente fitta di Flusso. Piantato come una colonna che congiungeva la terra e il cielo, svettava il canale di Flusso che i cantori di Cambria stavano concentrando attraverso il canto. Un’impressionante treccia di luce a spirale che invadeva le nubi, e piegava a loro piacimento le condizioni climatiche dell’intera regione. Ed era frutto soltanto di un semplice coro di Khartian, pensò colpito.

Un connubio di Flusso e armonia da lasciare senza fiato.

Impossibile per lui non vederlo. Ci sarebbe arrivato anche a occhi chiusi.

Era quasi un peccato interromperlo, pensò. Ma era disposto a fare di tutto, per continuare a indagare sul mistero pazzesco che rappresentavano quei due fratelli. Anche a fermare una notevole dimostrazione di potenza com’era Lungo Inverno.

«Mi piacerebbe sapere come facciate a esserne tanto sicuro» esclamò Mordraud. Saiden sorrise. «Forse è il caso allora che vi fidiate un po’ di più.»

 

***

 

Un burocrate. Nient’altro che un burocrate. Dunwich non riusciva a credere di essere caduto tanto in basso. Il salotto era intasato dal fumo della pipa, e sul marmo bianco del pavimento gocciolava il fondo di vino rimasto nella bottiglia che si era appena scolato. Non era la prima. Dunwich era completamente ubriaco sin dal pomeriggio, dopo che aveva finito di sfilare insieme alle altre Lance di stanza a Cambria nella consueta parata celebrativa. Un evento così vuoto e odioso da fargli venire sempre una gran voglia di bere. La sua sfortuna era che, di parate, l’impero ne organizzava a dozzine.

Da quando era stato rispedito a casa dopo l’attacco che aveva portato al Terrapieno di sua iniziativa, i suoi impegni si erano ridotti a curarsi le ferite, e a vagliare carte su carte. Richieste di cibo dal fronte, richieste di cavalli, richieste di uomini, richieste di qualsiasi cosa. La risposta solita che lui doveva inviare, dopo aver apposto il sigillo imperiale su ceralacca era: faremo il possibile. La disorganizzazione assurta a sistema. Vedere il mostro burocratico da vicino era devastante per il suo umore. Le parate completavano degnamente il quadro.

«Perché non mi ascolta mai nessuno?!» borbottò bevendo direttamente dal collo della bottiglia un generoso sorso di vino. Sapeva di acqua sporca e acida, ma a lui, in quel momento, andava più che bene. «Mi hanno cacciato via perché so cosa devo fare! Se mi lasciassero guidare l’esercito… invece perdono tempo e non fanno niente…»

Non sapeva se fosse per colpa dello stordimento o dello sconforto, quella sera Dunwich si sentiva in vena di credere a un fantomatico complotto imperiale. Qualcuno voleva perdere tempo, tentava di proteggere i ribelli, o chissà cosa. L’esercito di Cambria contava decine e decine di capitani che potevano muovere trame molto sensibili. Anche fra le Lance. Asaeld si trovava a dover gestire sempre ragazzi nuovi, mentre i veterani venivano spediti ai quattro angoli dell’impero a risolvere ogni sorta di problema. Oppure venivano abbandonati a organizzare parate. Facile individuare il colpevole di tutto quel disastro.

Loralon.

Da incompetente a sordido sobillatore. Un passaggio neanche troppo improbabile. Dunwich aveva sentito qualche Lancia parlottare fuori dalle sale del consiglio. Voci che fosse stato proprio l’Imperatore a richiamarlo in città, richiesta a cui Asaeld aveva tentato di opporsi fino a quando era stato costretto all’inevitabile resa. Asaeld lo aveva rimproverato duramente, ma cos’altro avrebbe potuto fare? Lui eseguiva degli ordini superiori, inoltre si era spaventato a morte quando lo aveva visto partire alla carica selvaggia. Non ricordava molto bene cosa fosse successo dopo l’incursione. Ma i fatti erano più che chiari. Aveva portato a termine un ottimo attacco, con risultati sorprendenti, ed era stato allontanato. Il progetto era completo. Loralon aveva un piano superiore, oltre la guerra. Un piano maligno di dominio che prevedeva la soppressione delle Lance.

O forse era il vino a parlare al posto suo?

Dunwich picchiò la pipa sul tavolino per liberarla dalla cenere, ma lo fece con così poca grazia che il manico di radica si spaccò fra le dita. Aveva bevuto veramente troppo. Non riusciva neppure a stare in piedi.

Una mano spuntò davanti a lui per aiutarlo.

«Devi stare un po’ più attento, ragazzo mio. Come sono entrato io, anche altri potrebbero farlo. E tu ora saresti già morto.»

«Asaeld?!» chiese Dunwich stringendo gli occhi. Il mondo vorticava troppo velocemente intorno a lui.

«Sì, e chi sennò? Sono passato per vedere come stavi. La spalla ti fa ancora male?»

Dunwich scostò la camicia e guardò con occhi beoti la cicatrice, come per controllare che fosse ancora lì. La spalla era malconcia ma stava guarendo. L’altra ferita, quella sul fianco, era più in ritardo. Una strana ferita, quella. Non aveva l’aria di un taglio di spada, semmai di un’artigliata profonda. Il guaritore gli aveva detto che erano stati gli anelli della corazza a spezzarsi e a mordergli la carne. Anche se non c’era traccia di infezione.

«Non mi fa più male. Ora sono pronto a tornare con te al fronte!»

«Mi dispiace, ma ho parlato proprio oggi con Loralon. Vuole che tu resti qui… ci tiene molto.»

«Non me ne frega niente di cosa vuole lui!» sbottò Dunwich. Si era messo in piedi, ma il mondo vorticava ancora più velocemente. Dovette reggersi ad Asaeld per non cascare a terra come un patetico ubriaco.

«Resta sempre il nostro Imperatore, ragazzo…»

«Beh, che vada a farsi fottere! Io non resto qua in città mentre al fronte si combatte merdosamente una guerra! Per gli Dei, Asaeld…» Dunwich scosse la testa disperato «perché glielo hai fatto fare?»

«Cosa? Costringerti a restare qui? Te l’ho detto… è un ordine…»

«No, no! Parlavo di Lungo Inverno! Quel canto maledetto ci ammazzerà tutti!»

Asaeld sospirò profondamente e afferrò le spalle di Dunwich per guardarlo dritto negli occhi. «Non dire fesserie. Il bersaglio sono Eldain e i suoi. Vedrai che cederanno, prima o poi. Anzi, forse non manca molto.»

«Tu credi?! Pensi veramente che molleranno per questo?» Dunwich rise sguaiatamente, ma dovette smetterla subito. Rischiava di vomitare da un momento all’altro.

«I ribelli non sono immortali» rispose lapidario Asaeld.

«Tanto c’è il complotto, hanno qualcuno che li aiuta!»

Asaeld si irrigidì, ma Dunwich nemmeno se ne accorse. «Non c’è nessun complotto, ragazzo mio.»

«Invece sì, fidati! C’è qualcuno…» Dunwich si portò una mano alla bocca e parlò con un sussurro «c’è qualcuno che ci impedisce di vincere con le sue scelte. Qualcuno di potente.»

«E chi?» chiese Asaeld, anche lui sussurrando nervosamente.

Dunwich annuì convinto.

«Loralon.»

«L’Imperatore?!»

«Esatto… e dovremmo fare qualcosa… per fermare questo complotto…»

«Cioè? Cosa dovremmo fare?»

«Ecco… tu saresti perfetto… sopra quel maledetto… scranno…»

Dunwich non finì neppure la frase. Aveva veramente esagerato con il vino. Senza più un briciolo di forze, crollò di nuovo sulla poltrona, svenuto. Asaeld raccolse le bottiglie da terra, gli sistemò le gambe e le braccia in una posizione più comoda, e dopo avergli strigliato i capelli con la mano, se ne andò a passo leggero.

 

***

 

«Fermiamoci qui.»

Mordraud indicò a Gwern e Saiden lo spettro di una baracca mezza sommersa dalla neve. Stava arrivando sera e stava per scatenarsi una tempesta. Il vento tagliava le gambe e piegava gli alberi che digradavano lentamente lungo la vallata. Erano a pochi giorni di distanza dai confini con l’impero, in una zona di combattimenti. Il fronte Sud del Terrapieno.

«Entriamo, almeno ci proteggiamo dal vento…» propose Saiden. Mordraud scavò intorno alla porta della baracca e la sfondò con una spallata.

Dentro, una famiglia era morta congelata in un angolo, sopra un pagliericcio di sterpaglie. Il resto della mobilia era stato bruciato nel camino, che poi si era riempito di neve. Il pavimento era macchiato di radi escrementi, ma l’odore era impercettibile. L’aria era rarefatta, irrespirabile.

Gwern era impietrito sull’uscio, con Mordraud davanti che si stava già sbrigando a liberare un po’ di posto per sedersi.

«Andiamo da un'altra parte…» mormorò con un filo di voce. Mordraud lo guardò perplesso. Quella baracca li poteva proteggere dalla tempesta, era un buon posto. Non si rese subito conto che Gwern non aveva alcuna dimestichezza con Lungo Inverno. I cadaveri in un angolo, la miseria di quella casa. Per Mordraud era diventata una triste abitudine. Mentre era al fronte, aveva già dovuto confrontarsi con scene come quella. Interi villaggi annichiliti da una bufera, morti ammassati nei fienili e fossi disseminati di corpi congelati. Lui e i suoi ragazzi avevano più volte dovuto scavare nella terra di marmo e riempirla di morti per sgombrare il campo di battaglia. Non faceva più tanto caso all’orrore. Era diventata una forma di disgrazia come tutte le altre.

Saiden spinse da dietro Gwern per entrare, ma passò da solo. Lui non riusciva a varcare la soglia. Continuava a fissare i corpi, la merda in terra, il marciume negli angoli delle pareti. Tremava dentro il mantello di pelliccia e tirava indietro il collo, come se non volesse nemmeno condividere l’aria con quel posto.

Mordraud smise di spazzare il pavimento con gli stivali, si avvicinò al fratello e lo prese per mano. Lentamente, lo fece entrare. Poi chiuse subito la porta, e lo condusse in una zona vagamente più pulita, fra vecchi abiti tarlati e resti di legna tagliata con una mannaia arrugginita, abbandonata fra la polvere.

«Quando perlustriamo intorno al Terrapieno, troviamo spesso posti come questo» gli disse riprendendo a fare ordine. «L’inverno è implacabile.»

«È colpa della guerra, l’inverno è solo una conseguenza» rispose sconvolto Gwern, incapace di distogliere gli occhi dalle bocche grigie dei cadaveri congelati. Lì dentro era un freddo assassino, forse più che fuori, anche se non c’era il vento. Era peggio di una ghiacciaia. Penetrava nelle ossa e ammorbava i pensieri.

«Eldain dovrebbe smetterla di opporsi a Cambria. Questa gente avrebbe preferito cambiare padrone, piuttosto che morire.»

«Non è una questione di padrone, Gwern» esclamò Mordraud sedendosi pesantemente in terra usando una vecchia camicia come straccio. «Cambria vuole invadere terre che sono da sempre di qualcun altro. Non può averla vinta tanto facilmente.»

A Saiden, che non aveva ancora detto niente, scappò un sorriso. Lasciò continuare Mordraud, senza togliere gli occhi di dosso dalle reazioni invisibili di Gwern alle parole del fratello.

«Non mi sembra un gran motivo per dover sopportare una sofferenza tale» ribadì Gwern indicando i tre poveri mentecatti congelati. Una donna, un uomo e una vecchia. La ragazza aveva il ventre sformato. Forse era incinta, quando era morta. Gwern rabbrividì e si portò una mano alla bocca, come se avesse sentito improvvisamente il bisogno di vomitare.

«Eldain la pensa diversamente. E così anche i suoi alleati.»

«A farne le spese però sono tutti gli altri» rispose Gwern. Mordraud stava per ribattere costernato, ma lui lo anticipò. «Sappiamo entrambi perché volevi partecipare alla guerra, fratello. Non per la causa. Ma per Dunwich.»

Saiden, che si era seduto in un angolo distante e stava sbocconcellando una crosta di formaggio, aguzzò gli occhi. La luce del magro giorno era agli sgoccioli e l’unica finestra era incrostata di ghiaccio. I due fratelli parlavano da soli, nel buio.

«Lo faccio anche per altri motivi ora. Ho amici al Terrapieno. Ho Adraman.»

Scese un silenzio imbarazzato. Come se entrambi avessero da dire qualcosa di più, ma non volessero farlo. Deanna. Gwern non sapeva tutto, poteva però intuire. Mordraud non voleva ammettere ad alta voce ciò che stava realmente facendo al suo amico. Il tradimento che portava avanti ogni volta che tornava a casa, da sua moglie.

Saiden vedeva tutto anche se la luce era svanita. Scorgeva il Flusso che componeva il legno della baracca e l’immondizia in terra. E vedeva il corpo vuoto di Mordraud, come una macchia nera a forma umana impressa sullo sfondo di trame di Flusso. Scorgeva alla perfezione anche il bolo di luce nel petto di Gwern. Gli scambi di Flusso fra i due erano continui, ora. Saiden cambiò posizione a sedere, troppo eccitato per stare fermo. Ciò che avveniva perennemente fra i due fratelli, non aveva alcun precedente. Non era spiegabile con nessuna conoscenza a cui avesse attinto, fra gli Aelian o i Khartian, in tutti i secoli in cui aveva vagabondato per il mondo. La luce di Gwern, sotto forma di bave di Flusso, tentava continuamente di entrare in contatto con Mordraud. A volte ci riusciva, altre doveva ritirarsi ricomponendosi dentro di lui. Saiden stava cercando di capire se ciò che dicessero avesse una qualche importanza. E si chiese ancora, sorridendo per il nervosismo di non avere una risposta, come fosse possibile che quei due fossero così anomali, fuori dalle regole che costituivano l’intelaiatura di Flusso della realtà.

«Ora siamo qui. Dobbiamo fermare l’inverno, non ha senso rimuginare troppo su queste cose.»

L’appello di Mordraud suonò perentorio nel buio stantio della baracca. Gwern mugolò qualcosa di incomprensibile. Saiden vide tutti i fili di Flusso che si erano sparsi intorno a lui, rattrappirsi e ritornargli dentro.

«Saiden, tu sai cosa fare?»

Saiden ridacchiò. Per lui, individuare dove si nascondessero i cantori era facile. Potenzialmente, lo era anche sterminarli. Se avesse dato fondo al suo Flusso, a tutto il suo potere distruttivo, i cantori Khartian presi alla sprovvista si sarebbero lasciati massacrare senza fare troppe storie.

«Sì. Li ho già individuati. Dobbiamo solo arrivare lì… e se sarà necessario, combattere. Tu, invece… te la senti di affrontarli?»

Mordraud grugnì e stese le gambe nella polvere.

«Non vedo l’ora.»

Saiden applaudì una volta sola.

«Allora possiamo farcela.»

«Anche se a te non interessa, vero?» continuò Mordraud. Saiden fu colto alla sprovvista. «Anch’io subisco questo inverno orrendo, non ti pare?» provò a dire.

«Allora perché non sei mai intervenuto prima?»

«Sono un maestro di armonia, non un guerriero» rispose Saiden. «Da solo, non avrei mai tentato di attaccare i cantori di Cambria.»

«Ti saresti potuto proporre all’esercito di Eldain. Qualcuno ti avrebbe di certo ascoltato.»

«Basta, Mordraud» lo interruppe Gwern. «Ha dato la sua parola che ci aiuterà. Non pretendiamo di più, ti pare?»

«Voglio solo sapere perché il tuo maestro ha deciso di intervenire solo quando ho chiesto un aiuto a te.»

Saiden avvertì di dover prestare attenzione. La macchia nera che rappresentava Mordraud gli parve improvvisamente minacciosa.

«L’ho fatto per aiutare Gwern a crescere. Per imparare sul campo qualcosa di nuovo.»

«E cosa?! Io non vi ho nemmeno sentiti cantare una volta.»

Gwern, in quell’occasione, non intervenne. Non fermò suo fratello. Anche lui condivideva parte dei suoi dubbi. Anche a lui pareva inafferrabile il comportamento e le decisioni del maestro.

Fino a quel momento, non avevano fatto altro che camminare nella direzione che Saiden aveva loro imposto.

«Da domani dovremmo essere in vista della fonte di tutte le risonanze. Lui non è ancora abbastanza preparato per percepirle da così distante…» disse con fare pacato e comprensivo. «A quel punto, potremo iniziare a esercitarci di nuovo.»

Gwern tirò un sospiro di sollievo. Finalmente vedeva uno scopo diretto in quel viaggio. Non solo l’incognita di non avere la minima idea di cosa fare. Mordraud si rassegnò, scivolando con la schiena in terra per riposare qualche ora. Il suo involucro vuoto pareva ancora vagamente minaccioso, ma sembrava aver mollato un po’ la presa.

Saiden li lasciò confabulare in privato, perdendosi nelle sue congetture.

Non sapeva assolutamente cosa fare per soddisfare la loro richiesta. Non voleva insegnare davvero le armonie a Gwern. Le loro lezioni erano in realtà dei continui esperimenti che lui faceva sul suo nucleo di Flusso. Il fatto che stesse imparando qualcosa del mondo delle risonanze, era un effetto secondario e in parte anche sgradito. Non voleva rischiare di consegnare più potere in mano di un essere di cui ancora non aveva compreso l’essenza profonda. Gwern era ancora un mistero troppo grande. Se lo teneva appresso con la scusa di insegnargli le armonie, non per farlo davvero.

Doveva trovare un modo per spingere il Flusso di Gwern a reagire con ancora più veemenza. Doveva scoprire cosa ci fosse dietro la relazione particolare fra i due fratelli.

E per farlo, doveva prendere decisioni drastiche.

Aveva già una mezza idea di come fare.

 

 

Mordraud, Libro Primo
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