IV
«Quando torna papà?»
Seduta al tavolo della cucina, Eglade stava preparando alcune patate sbucciandole con un piccolo coltello spuntato. I suoi capelli di rame riflettevano il sole che filtrava dalle leggere tendine di pizzo, come una colata di metallo fuso su cui si specchiava un ritaglio di cielo. Di tanto in tanto controllava la pentola appesa sopra le fiamme del camino. Mordraud giocherellava seduto al suo fianco con la mollica vecchia del pane. A differenza di Dunwich, lui non parlava molto, sebbene avesse imparato a farlo molto presto.
«Fra poco. Ho ricevuto una sua lettera. Vuoi leggerla?»
«Non lo so.»
Eglade sapeva quanto Mordraud sentisse la mancanza del padre, e si sforzava in ogni modo di non fargli pesare troppo la sua assenza. Si alzò e gli passò il rotolo di pergamena chiuso da un laccio che un messaggero aveva lasciato in paese pochi giorni prima. Gliel’aveva portata una signora da cui comprava le verdure che non aveva nell’orto dietro casa. Mordraud iniziò a leggere muovendo lentamente le labbra, con gli occhi socchiusi e concentrati a decifrare l’incerta calligrafia di Varno. Eglade gli stava insegnando a leggere e scrivere nella lingua comune degli uomini, e allo stesso tempo in Aelian. Era bravo, ma molto meno di Dunwich. Soprattutto a leggere.
«Il fronte… sta arretr… arretrando, ed Eldain ha richiamato le… le…»
Eglade si inginocchiò a fianco della sua sedia, e con un dito lo aiutò a seguire le righe poco precise della lettera.
«Le truppe. Sono i soldati.»
«… ha richiamato le truppe. Arriva l’inverno, gli scontri rallentano. Il nostro signore ci ha pagato, e fra poco ci risp…»
«Rispedisce. Vuol dire che Eldain manda a casa papà.»
«Lo so mamma, cosa vuol dire!»
Mordraud si irrigidì innervosito. Somigliava a suo fratello per i capelli neri e leggermente ondulati, e per i lineamenti naturalmente equilibrati, ma già si intravedeva in lui una durezza che Dunwich non possedeva. I suoi occhi erano di un verde splendido. Sembravano essere stati intinti in una pozza d’acqua di montagna. Mentre quelli del suo fratello maggiore erano azzurri, tendenti al blu.
Le differenze di carattere erano molto più marcate. Dunwich amava parlare, imparare tutto ciò che poteva, mentre Mordraud preferiva restare in silenzio ad ascoltare le tante storie che Eglade conosceva sul popolo degli Aelian, subendole passivamente senza fissarle nella memoria. Oppure passava molto tempo sul confine del bosco ad ammirare gli insetti e i piccoli animaletti che riusciva a catturare. Amava guardarsi intorno in silenzio, senza mai mostrare cosa stesse pensando.
«Se lo sai, va avanti!»
«… ci ha pagato, e fra poco ci rispedisce indietro. Fino a primavera starò a casa. Sai nulla di Dunwich? Spero stia bene. Saluta Mordraud da parte mia. A presto.»
«Sei stato proprio bravo!»
Mordraud non rispose. Gli occhi fissi sulla lettera spiegazzata.
«Cosa c’è?»
«Dov’è mio fratello?»
«Dunwich è a Cambria, e sta studiando in un’ottima scuola. Forse ci andrai anche tu, se farai…»
«Non voglio andare a Cambria» la interruppe Mordraud bruscamente.
«E cosa vuoi fare?»
«Stare qui con te. Non come papà.»
Eglade lo afferrò ai fianchi e lo sfilò dalla sedia. Finse di mangiargli la testa e lui scoppiò a ridere nel tentativo di liberarsi.
Varno aveva ripreso il suo vecchio lavoro da mercenario quattro anni dopo la nascita di Mordraud. La guerra fra Cambria e i nobili ribelli aveva cambiato volto e protagonisti. Nel 1611, otto anni dopo la nascita di Dunwich e due prima di Mordraud, Elder aveva lasciato il comando al figlio Eldain. Già da tempo lui amministrava per conto del padre la complessa e sfaccettata alleanza di feudi, villaggi e confederazioni, contro i tentativi di espansione di Cambria. L’Imperatore Loren era morto da anni e gli era succeduto il figlio Lorelin, già avanti con l’età. Come da tradizione, le stirpi nobiliari passavano ai figli la radice del proprio nome come simbolo di antico prestigio. In tanti si aspettavano l’ascesa dell’ultimo discendente della casata, Loralon, il primo e unico figlio di Lorelin. Le sorti di quella guerra che si stava lentamente stagionando erano più che mai incerte. Anni molto caldi, ricchi di opportunità per chiunque volesse guadagnare un mucchio di soldi combattendo.
Varno era uno di quelli. Stanco di lavorare come fabbro, non aveva voluto sentire ragioni. Eglade aveva pianto, si era infuriata, ma non aveva ottenuto altro che silenzio e sguardi duri.
Suo marito era cambiato da quando era nato Mordraud.
Eglade, per quanto avesse imparato a comprendere la mentalità dei Khartian, faticava a spiegarsi cosa stesse passando nella testa del suo uomo. Lo aveva visto maturare negli anni, invecchiare, come diceva lui, ma ciò non era per lei fonte di alcun problema. Era nella natura degli umani seguire il tempo con più apprensione, con più energia. Gli Aelian avevano, semplicemente, un modo diverso di concepire il fluire degli anni. Come se non fossero consci di vivere più a lungo, ma solo che la loro stessa vita era soltanto molto lenta. Neppure il fatto che lui si stesse inevitabilmente piegando sotto il peso dell’età le dispiaceva. Amava Varno per ciò che era, non per come appariva. E amava alla follia i suoi figli, anche se, dal suo punto di vista, crescevano fin troppo in fretta.
Ma lui sembrava non voler capire. Lei cercava di spiegargli cosa pensasse, ma lui vedeva solo la realtà gretta dei fatti. Eglade era ancora una bellezza inquietante e vagamente inumana, identica a quando si erano conosciuti. I suoi occhi blu erano brillanti come un tempo, la sua pelle liscia e assolutamente perfetta. A rendere tutto più difficile era sopraggiunta anche l’inspiegabile, almeno per il Khartian, crescita anomala dei figli. Menti precoci rinchiuse in un corpo sempre troppo acerbo.
In realtà, Varno non era alla ricerca di denaro, o di un lavoro migliore. Non era mai stato un bravo guerriero. Tutt’altro. Quello che cercava di fare era restare lontano da una famiglia che, anno dopo anno, gli appariva sempre più giovane, mentre lui stava diventando vecchio. Loro sarebbero vissuti a lungo dopo la sua morte. Troppo a lungo perché lui riuscisse ad accettarlo.
Incorruttibili nei decenni. Cristallizzati in una giovinezza che aveva scoperto di invidiare sordidamente.
A peggiorare ancora di più le cose, Varno non provava verso Mordraud lo stesso affetto che aveva riservato a Dunwich, il suo primo figlio, quello che gli ricordava l’inizio della sua avventura con Eglade. Anni strepitosi, di amore e di fatiche che erano stati in grado di superare magnificamente, uniti come se fossero stati una persona sola. Una coppia senza preoccupazioni.
Senza pensieri sul futuro.
Mordraud invece era diventato, e diventava ogni giorno di più, il simbolo di quella differenza che correva fra lui ed Eglade, la fenditura nella percezione del tempo che la sua mente era incapace di colmare.
Non percepiva alcuna bellezza negli occhi verdi di suo figlio.
Vedeva soltanto le iridi folli di Aris che lo fissavano intrise di odio. Chino su di lui mentre tentava di ucciderlo. Lo stesso verde denso e ricco di sfumature.
Qualche volta si era anche chiesto se Mordraud fosse davvero figlio suo.
Varno stava fuggendo. Ma non si sentiva un infame.
Erano loro a essere inumani.
***
«Quanto resterai a casa?»
«Tutto l’inverno.»
«Lo dici come se ti desse fastidio.»
Varno non rispose. Eglade stava sgombrando la tavola dai resti della cena, mentre Mordraud giocava da solo nella stanza a fianco. Stava facendo piroettare annoiato una piccola trottola rossa.
«No» bofonchiò Varno senza guardarla.
La campagna bellica era andata magnificamente. Cambiare sponda si era rivelata una scelta giusta. I ribelli di Eldain erano più motivati e conoscevano molto meglio il territorio. La paga era più bassa, ma più sicura. Eglade, come al solito, non era stata d’accordo. E non smetteva mai di farglielo notare.
«Combatti contro la città dove studia nostro figlio!»
Sempre lo stesso argomento, pensò Varno. Ogni volta che dovevano parlare.
Per sua fortuna, capitava estremamente di rado.
«I ribelli non arriveranno mai a Cambria, questo è poco ma sicuro. Dunwich può stare tranquillo. E anche tu.»
Lei non sapeva niente, si disse. Infatti ragionava in modo totalmente sbagliato. Era stato molto difficile inserirsi di nuovo nel giro dei mercenari. Lui non aveva bisogno di essere tartassato dalla mattina alla sera le poche volte che tornava a casa. Aveva dovuto contattare vecchie amicizie, lottare contro la diffidenza dei giovani che non capivano come mai un uomo della sua età volesse tornare a combattere. Ma era proprio quello il problema. Lui non si sentiva vecchio. Non voleva sentirsi vecchio.
Faceva di tutto per dimostrare il contrario.
«Gioca un po’ con tuo figlio, non ti ha visto per tre mesi…»
«Più tardi.»
Gli occhi di Eglade erano tristi in modo insopportabile. Varno decise di accontentarla, almeno per quella volta. Si alzò e raggiunse Mordraud in salotto, si sedette sul divano e lo guardò giocare. Sembrava ancora un bimbo, eppure doveva avere già otto anni. Assurdo come non riuscisse a farci l’abitudine, pensò angosciato. Mordraud fermò la trottola e si alzò per prendere posto al suo fianco. All’inizio nessuno dei due disse una parola, come due perfetti sconosciuti in attesa di una carrozza. Del resto, era proprio quella l’impressione che Varno aveva. Non lo sentiva come figlio suo. In realtà Mordraud avrebbe voluto dirgli tante cose, e chiedergliene molte di più. Ma si vergognava, si sentiva in imbarazzo. Solo con sua madre riusciva a sbottonarsi un po’. Con Varno era una pietosa collezione di mezze frasi abbozzate e momenti di imbarazzante silenzio.
«Quando torna a casa Dunwich?»
Il grande cruccio di Mordraud. Ricordava molto poco di suo fratello, a parte qualche rarissima visita di pochi giorni. Aveva ancora in mente il breve periodo in cui avevano vissuto e giocato insieme, quando lui era molto piccolo. Dunwich gli era sembrato un gigante dagli occhi azzurri.
Era ancora una sorta di colosso, ma soltanto nella sua mente.
Una montagna che lo copriva con la sua ombra, e impediva a suo padre di notarlo.
«Non lo so. Magari entro l’anno prossimo…» rispose Varno.
«Come mai torna così poco?»
«Non ne ho idea, Mordraud! Perché ti interessa tanto?!» sbottò lui, infastidito dalla sua insistenza.
«Manca tanto alla mamma…» borbottò lui. Avrebbe voluto aggiungere che mancava anche a lui, ma non credeva che a suo padre potesse interessare il suo parere. C’erano giorni in cui tutto sembrava andare bene. Stavano insieme in giardino, si scambiavano qualche parola, giocavano a raccogliere le uova delle galline.
Ma erano momenti sempre più rari. Lontani nel passato. Sfumati prima ancora di finire.
Ormai, suo padre tornava a casa soltanto per poche settimane, poi subito ripartiva. Purtroppo capitava sempre in inverno, quando lui doveva restare fermo più a lungo, il clima era freddo e nevicava spesso, e Mordraud non poteva giocare fuori.
Varno non amava stare al chiuso. Lui l’aveva già abbondantemente capito.
«Usciamo?»
«Cosa vorresti fare?»
«Ecco… mi piacerebbe imparare a usare la spada.»
La sua richiesta colse Varno di sorpresa. Per lui, una spada era soltanto il suo strumento di lavoro. Niente di trascendentale. L’aveva iniziata a maneggiare di nascosto insieme ai ragazzi del suo paese, nei lunghi e noiosi pomeriggi in cui aveva bighellonato in fuga dal lavoro nei campi. Il resto l’aveva imparato in battaglia.
Nient’altro che uno strumento di lavoro.
«E perché vuoi imparare a usare la spada?!»
«Beh, tu vai in guerra… e se un giorno dovessi andarci io?» rispose Mordraud. Il vero motivo era ben altro, ma non lo disse apertamente. Tanto sapeva che a suo padre non interessava. Voleva imparare a difendere la mamma. In realtà non sapeva neppure cosa fosse una guerra.
«Sei troppo piccolo per queste cose.»
«Fammi provare. Se non riesco, non te lo chiederò più.»
Varno sorrise spiazzato. In un impeto d’affetto prese in braccio Mordraud e uscirono insieme. Non era un’idea malvagia, pensò. Proprio un’esperienza che un padre doveva condividere con un figlio. Almeno non avrebbe dovuto sforzarsi di sembrare più colto di quel che era, come tante volte aveva dovuto fare con Dunwich. Sfigurando miseramente.
Varno prese la spada e la mostrò a Mordraud, seduto sulle sue ginocchia di fronte alla porta. La sera era fredda, piacevole. La luna rischiarava l’aia di pallide ombre azzurre.
«Questa è l’elsa. Serve per impugnare la spada. Questa invece è la guardia. Aiuta a parare i colpi del nemico.»
«E questa è la lama?» chiese Mordraud allungando una mano, ma Varno subito gliela fermò.
«Attento, è affilata! Sai, questa spada ce l’ho con me da quando ho conosciuto tua madre. È una buona spada.»
«E perché è buona? Non serve per uccidere? Come fa a essere buona?»
«È buona perché uccide bene. E non mi ha mai tradito.»
Mordraud non era sicuro di aver colto il significato di quelle parole, ma non disse niente, attratto soltanto dal luccichio ipnotico della luna sulla cresta d’acciaio della lama. «Come si usa?»
Varno si guardò intorno per trovare qualcosa di adatto. Prese una lunga accetta che di solito usava per la legna. Dalla finestra della cucina Eglade osservava la scena, preoccupata ma anche felice di vedere finalmente padre e figlio insieme.
Varno lasciò la spada in mano a Mordraud, e gli si piazzò di fronte mostrandogli come doveva reggerla. Il bambino tentò di tenerla sollevata con una sola mano, ma non ci riuscì. Sbuffando e mugolando infastidito, strinse a due mani l’elsa e alzò la punta, proprio come gli stava dicendo di fare suo padre.
«È troppo pesante per te… devi ancora mettere su un po’ di braccia!»
Mordraud dimostrava quattro anni. Era già un miracolo che riuscisse a tenere su un pezzo di ferro di quel peso senza cadere per terra.
Varno non riuscì minimamente a reagire quando vide Mordraud alzarla sopra la testa e caricare.
«MORDRAUD!» urlò Eglade dalla finestra. Varno sentì l’acciaio strisciargli sulla camicia. La punta slabbrò il tessuto e raggiunse la pelle. Si toccò incredulo il petto. Il volto contratto da un sorriso ebete.
Sangue fra le dita.
Era solo un graffio, uno dei tanti.
La paura arrivò dopo, quando vide che Mordraud non si era neppure reso conto di quello che aveva fatto.
«È veramente lunga» esclamò con un’inaspettata soddisfazione nella voce. Stava fissando la spada stesa in terra. Gli era caduta dalle mani per lo slancio.
Varno, in tutta la sua vita, aveva combattuto molte battaglie. Cercava di tenersi lontano dalla prima linea, ed evitava gli scontri più sanguinosi defilandosi. Aveva visto molte scene impressionanti. Ma non era mai stato tanto turbato da qualcosa come quella notte di fronte a suo figlio.
Una forza mostruosa.
Come l’intelligenza di Dunwich. Come Eglade, che aveva imparato a parlare la sua lingua prima ancora che lui potesse capire una sola parola della sua.
E come i pugni di Aris. Quelli che ancora gli risuonavano in testa quando ricordava le botte che per poco non l’avevano ammazzato.
«Non toccarla mai più!» urlò con ferocia mollandogli due violenti ceffoni in faccia.
«Ma… io…»
«MAI PIÙ!» ripeté terrorizzato Varno. Partì un altro schiaffone.
Eglade corse fuori, afferrò suo figlio e lo abbracciò proteggendolo inconsciamente. Mordraud stava piangendo. Aveva fatto qualcosa di sbagliato, lo sapeva. Ma non capiva cosa.
Lui voleva soltanto imparare a usare la spada. E stare un po’ con Varno.
«Mamma… perché papà è arrabbiato con me?»
«Non è colpa tua …» mormorò lei. «Non è colpa tua.»
Quella notte, Varno non tornò a casa. Prima che Eglade potesse dire una parola, lui era già scappato lungo il sentiero che portava in paese. In tasca non aveva niente, ma a lui non importava. In qualche modo avrebbe fatto.
Raggiunse la taverna e bevve fino a star male. A credito.
«Non può essere… sono dei piccoli mostri…» biascicò tutto il tempo, mentre tracannava un bicchiere di vino rancido dietro l’altro. Toccandosi senza sosta il ridicolo graffio sul petto.
***
Da quel giorno, Varno scelse i lavori più lontani, ma soprattutto più lunghi. Ogni fronte andava bene. A lui interessava soltanto che fosse a settimane di distanza da casa. Si spinse a combattere fino alla Lama dell’Hann, il fronte più a Sud della guerra, e pretese di saltare innumerevoli congedi. Eglade mandava avanti tutto da sola. Mordraud faceva il possibile per alleviarle la solitudine e i lavori pesanti. Spaccava la legna, badava ai polli che tenevano in cortile. Faceva ordine in casa. La sera si addormentavano insieme, e lei gli raccontava una delle tante storie sugli Aelian che a lui piaceva vivere in silenzio.
«Quale vuoi stasera?»
«Cambirian, l’ultimo re!» chiese d’impeto Mordraud. Quella era di gran lunga una delle sue preferite.
«Ancora?! E va bene…» rispose Eglade con finta rassegnazione.
«Cambirian viveva nella grande torre del cielo, e intorno a lui sorgeva la città da cui aveva preso orgogliosamente il nome. Il cuore di ogni cosa, ecco come noi chiamiamo la capitale del mondo. Anche gli altri grandi regni, Ankhar a Nord, da dove giunsero i Khartian come tuo padre, e Dankhar a Sud, dove il mare ribolle nel ghiaccio, dovevano inchinarsi di fronte alla potenza di Cambirian… neppure la notte senza fine è riuscita a offuscare la scintilla del suo ricordo.»
«Cos’è la notte senza fine, mamma?»
«Un brutto sogno, amore… è stato un lungo, lunghissimo brutto sogno»
«E Cambirian? Era bello?» chiese Mordraud rapito dalla voce fluente e profonda della madre.
«Bellissimo… aveva i capelli bianchi come la neve, e gli occhi verdi, proprio come i tuoi.»
«Come i miei?»
«Proprio come i tuoi. Aveva una spada composta da luce affilata, e quando parlava, anche gli animali potevano comprendere i suoi ordini. Nessuno era come Cambirian, nessuno è mai stato, nessuno sarà mai. Una sola debolezza aveva, un piccolo vezzo che teneva per le sere in cui contemplava, dall’alto della sua torre, i cancelli d’oro brillare all’ombra della luna…»
«L’Aniria!» mormorò raggiante Mordraud.
«Proprio così. L’Aniria, il vino degli Aelian, verde come un prato, verde come gli occhi di Cambirian.»
Eglade abbassò la voce. Mordraud si era addormentato. Il sonno colse anche lei, cullata dal ritmo morbido del respiro di suo figlio.
Quella notte, Eglade fece un sogno.
L’aveva già fatto in passato, ma l’aveva dimenticato. Erano passati quasi dieci anni. Un paesaggio grigio battuto dal vento. Tutto era grigio. Senza alcun colore, come se il paesaggio aspettasse soltanto qualcuno che lo dipingesse, lo completasse. E, come all’epoca, sentì una voce parlare nel vento. Vicina a lei, ma allo stesso tempo agli antipodi del reale. Un solo nome. Un sussurro senza fiato.
“Gwern…”
Eglade spalancò gli occhi di colpo. Mordraud era ancora abbracciato a lei. Le aveva poggiato una mano sulla pancia. Era stato lui a parlare. Aveva una strana espressione, un misto di meraviglia e paura. Sembrava ancora addormentato. Ma i suoi occhi erano aperti e la stavano scrutando attentamente.
«Si muove.»
Eglade prese la mano del figlio. Non sentì niente di particolare. Ma quando lui annuì impercettibilmente, colse qualcosa. Perse per un attimo il respiro.
Per quanto poco l’avessero cercato, per quanto poco avessero tentato.
«Avrai un fratellino, amore mio…» mormorò Eglade. Non sapeva se essere felice, o piangere dalla disperazione
Scelse di essere felice.
«E lo chiameremo Gwern» disse, accarezzando i capelli di Mordraud che riposava steso su di lei.